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Commento di Salvatore Nocera

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Non possiamo non dirci disabili
di Giuseppe Pontiggia

Ho sempre apprezzato gli scritti di Pontiggia e di recente ho recensito con piacere un suo intervento sul volume "Figli per sempre" Ed. Carocci Faber. Però questo ultimo scritto mi lascia molto perplesso, poiché molte affermazioni mneriterebbero un maggior approfondimento.Intanto non mi piace il termine "portatori di handicap", che come hanno abbondantemente dimostrato Cottoni e Canevaro, confonde handicap e deficit. Non condivido inoltre l’opinione secondo cui siamo tutti, a nostro modo, "disabili",perché non vorrei ritrovarmi in " una notte in cui tutte le vacche sono nere". Le persone con disabilità, per le quali ed accanto alle quali lottiamo per l’integrazione scolastica e sociale hanno disabilità conseguenti a deficit , le quali sono causa di emarginazione, se non contrastate con l’integrazione.Non condivido neppure la moda in rapida diffusione del termine "diversabile" e della filosofia che gli è sottesa, che potrebbe indurre la società a ridurre gli sforzi per l’integrazione di tutti, specie dei più gravi,che comunque non hanno neppure le abilità minime richieste dalla nostra società per accettarli pienamente e solo se ci si impegna sino allo spasimo si riesce ad realizzare forme di integrazione possibile, prive di paternalismo che il termine "diversabile" può ingenerare. Condivido, a tal proposito, il bell’intervento critico di Carlo Giacobini sul sito Superabile. Andando più specificamente al cuore di questo articolo di Pontiggia, mi pare che egli abbia del Cristianesimo  una visione un pò troppo magica e consolatoria.Intanto l'accettazione della disabilità non è solo dei disabili, , ma anche di chi decide di convivere con loro, come egli ha mirabilmente dimostrato in "Nati due volte;"; innanzi tutto i genitori che non li portano in istituto; poi di chi decide di sposarli; quindi di chi ha la sensibilità di divenire loro amico.

    Il Cristianesimo non è una formula magica, per cui, chi è cristiano è automaticamente in grado di rispondere ai bisogni di vita dei disabili. La riprova è data da tutti gli istituti speciali di preti e suore che non sanno accettare l'integrazione scolastica, forse perché non riescono a leggere, come dice il Concilio, " i segni dei tempi".Inoltre la capacità di accettare serenamente
una persona disabile può essere posseduta certamente anche da appartenenti ad altre religioni ed anche da atei.Infine il Cristianesimo deve fare la scelta teologica e pastorale, avanzata solo in alcuni documenti papali, e portati avanti in Italia dall’Ufficio Catechistico della CEI (Conferenza episcopale italiana ) secondo cui non è solo la "Croce" che salva, ma è soprattutto la Resurrezione. Insistere solo    sul Crocifisso ( che in modo blasfemo una recente circolare Moratti del 3 Ottobre 2002 definisce " oggetto di ordinario arredo scolastico") fa perdere tutta la forza rivoluzionaria  del "Bell'annuncio"( evangelio) di salvezza data dalla resurrezione che completa e dà senso alla Croce.

Per S. Paolo " se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede".Invece a noi persone con disabilità ed ai nostri familiari ancora troppi operatori pastorali si rivolgono annunciandoci solo il "valore salvifico della Croce", che può involontariamente indurre ad un disimpegno sociale, SENZA COMPLETARLO ED ILLUMINARLO CON QUELLO " SALVIFICO DELLA Risurrezione",come si definisce Gesù nel Vangelo di san Giovanni, " Io sono la risurrezione e la vita", dando il senso alla sua stessa morte e risurrezione. Quando nel brano del Vangelo di Matteo sul " giudizio finale", Gesù dice che " tutto quello che avete fatto a questi miei piccoli fratelli, lo avete fatto a me", indica il significato del valore dell’impegno sociale, affinché, Gesù , crocefisso nei sofferenti, risorga in essi, anche tramite la loro integrazione sociale che è fonte di dignità della persona umana.Questo hanno capito molto bene le migliaia di gruppi di volontariato d’ispirazione cristiana e molte Caritas diocesane e parrocchiali, che operano per la nostra integrazione nella società e nella Chiesa.Questo ho cercato di dimostrare nel mio intervento al Sinodo mondiale dei Vescovi sui laici, alla luce dell’Omilia del S, Padre Giovanni Paolo II, pronunciata in occasione del Giubileo straordinario delle comunità con le persone handicappate del 1984, pubblicato sul Numero del 1 Aprile 1984 dell’Osservatore Romano.

Molti operatori pastorali debbono fare ancora molta strada in tal senso. Fortunatamente anche la teologia più recente ci sta aiutando a percorre questa strada. Si legga il bel volume di Giordano Frosini " Risurrezione inizio del nuovo mondo" Edizioni Dehoniane Bologna 2002 pp.324.

Salvatore Nocera
Ex presidente nazionale del Movimento apostolico ciechi
Vicepresidente nazionale della F I S H
(Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap )


 

2003, ANNO EUROPEO DEI PORTATORI DI HANDICAP

PERCHÉ NON POSSIAMO
NON DIRCI DISABILI

Tutti siamo affetti da disabilità: con i genitori, con i figli, di fronte alle nostre ambizioni di successo. La risposta vera è il cristianesimo, che vede nel disabile il fratello che, nel suo bisogno d’aiuto, esaudisce il bisogno di chi l’aiuta.

Lhandicap appare inaccettabile a chi non lo ha. Il disabile sa come fronteggiarlo, perché convive con esso dalla nascita. Oppure lo apprende in età adulta o avanzata, perché l’imperativo di una scelta acuisce la sensibilità e l’intelligenza. Il sano invece sente come inaccettabile la minorazione, la malattia, la vecchiaia.

L’aspetto più paradossale è che non si accorge che la disabilità riguarda anche lui. Se pensiamo all’handicap della stupidità, ci rendiamo conto che questa epidemia universale non risparmia categorie e classi. E quanto agli handicap legati all’invecchiamento, il traguardo sperato non può che riservarne una messe variegata. Questo non significa svuotare il tema della disabilità, ma considerarla come una diversità più vistosa, spesso grave e drammatica, che ha bisogno di collaborazione e di aiuto, non di compassione.

Siamo tutti disabili. Con i genitori e con i figli, con i superiori e gli inferiori, con gli amici e con i nemici. Il grado di disabilità varia secondo le persone e lasciamo pure spazio alle eccezioni: ovvero i santi e un gruppo speciale, i perfetti, che non si sa se esistano, ma che non dubitano di testimoniarlo. Tutti soffriamo di sensi di inadeguatezza, di inadempienza, di fallimento. Quaranta milioni di lavoratori, nell’Europa dell’ultimo quinquennio, sono stati emarginati dal mobbing, ovvero da una sentenza di disabilità tecnica pronunciata contro di loro dai colleghi.

Siamo disabili rispetto alle nostre ambizioni di abilità, di affermazioni, di successo. Disabili sul piano della lucidità e della memoria, della efficienza e della prestazione. Pochi i giovani che non vivano la disabilità come disagio: nell’area della competizione scolastica, dei rapporti sentimentali e sessuali, del confronto intellettuale e culturale, della preparazione professionale. E le persone mature scoprono che la maturità vera è consapevolezza di non averla ancora raggiunta e percezione che la meta è lontana.


I piedi di un orologiaio privo delle mani intento al lavoro (foto Reuters).

I primi sintomi di declino fisico si accompagnano a un panico sproporzionato. Non c’è persona sopra i quarant’anni che non tema i comuni vuoti di memoria come Alzheimer precoce. E la corsa alle palestre, all’atletismo, ai cosmetici viene pubblicizzata come riappropriazione del corpo, ma copre il terrore del suo decadimento.

Questi comportamenti sono esasperati dai modelli – spesso fuorvianti e idioti, ma non per questo meno tenaci e costrittivi – che la società propone. C’è una triade di valori, salute-bellezza-perfezione, che la pubblicità non manca di contrabbandare come una esclusiva di massa, una normalità ideale. E sotto questa insegna araldica il delirio dell’uguaglianza asseconda l’interesse commerciale e politico a rendere omogenei gli individui e controllarne i consumi e il consenso.

Il percorso autentico dell’uomo è però un altro: dalla paura della diversità, tipica del giovane, alla sua accettazione, tipica dell’età più tarda.

La cultura può dare un contributo fondamentale a modificare lo sguardo nei confronti della disabilità e riconoscerla come connaturata alla condizione umana. Questa rivoluzione dello sguardo il cristianesimo l’ha già realizzata in una prospettiva religiosa: quando vede nel disabile il fratello che, nel suo bisogno di aiuto, esaudisce il bisogno di chi lo aiuta.

Giuseppe Pontiggia


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