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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

POVERTA'

La povertà resiste alle politiche e si aggrava con l'aggravarsi della congiuntura economica

La povertà non è in estinzione. E cambia la figura dell'indigente

ANTEPRIMA del rapporto 2006 della Commissione governativa sull'esclusione. Il 13,2% degli italiani catalogato come povero. Immutata l'incidenza delle famiglie a rischio (7,9%); nel 2004 7 milioni di persone scese sotto la soglia di povertà

ROMA - Nel 2004 più di 7 milioni di persone in Italia sono scese sotto la soglia di povertà relativa. Si tratta di quasi tre milioni di famiglie che non riuscivano, in quell’anno, a raggiungere la soglia media di spesa nazionale. In percentuali: il 13,2% degli italiani è catalogato dalle statistiche come “povero”. Sono le notizie contenute nel nuovo Rapporto della Commissione di indagine sulla esclusione sociale che conferma alcune delle tendenze note in termini di povertà relativa in Italia e di diseguaglianze, ma offre anche nuove informazioni sulla situazione sociale complessiva del nostro paese. La povertà relativa (che si calcola facendo riferimento a una spesa media mensile per consumi) non è un fenomeno in estinzione perché nonostante alcuni miglioramenti che si sono riscontrati negli ultimi anni in alcune fasce della popolazione (tra gli anziani pensionati per esempio), emergono sempre di più nuovi punti di sofferenza e di disagio sociale. I nuovi poveri assumono poi caratteristiche fino a qualche hanno fa impensate: in netto aumento, per esempio, i giovani poveri.

 

Il Rapporto della Commissione – che verrà presentato ufficialmente il prossimo mese – si riferisce agli ultimi dati statistici disponibili, ovvero a quelli del 2004 e alla valutazione dell’efficacia delle politiche di contrasto alla povertà che sono state messe in atto fino all’anno scorso. Le stime ufficiali sulla povertà in Italia sono elaborate ogni anno dall’Istat che si basa sull’analisi dei consumi delle famiglie. Nel 2004 alla tradizione rilevazione si è aggiunta anche la prima indagine dell’Unione europea (Silc) che viene condotta contemporaneamente nei 25 stati membri dell’Unione e che viene sviluppata a partire sia dai consumi che dai redditi delle famiglie. Nel Rapporto della commissione le stime si riferiscono però ancora solo al metodo dell’analisi dei consumi delle famiglie, considerando quindi la soglia della povertà pari a 919,98 euro al mese per una famiglia di due elementi. L’oscillazione della soglia è tra 521,70 euro al mese per una famiglia con un solo componente e 2.086,80 euro per una famiglia di sette persone. In base a questi parametri sono risultate in condizione di povertà relativa in Italia.

 

I poveri relativi – che sono appunto il 13,2% della popolazione italiana complessiva – non diminuiscono quindi rispetto agli anni passati e anzi sembra che la loro condizione (seppure molto mobile) stia peggiorando. L’indicatore che si usa in questo senso è quello della “intensità della povertà”. Nel biennio 2003-2004 l’intensità della povertà relativa è aumentata a livello nazionale, per effetto soprattutto di un sensibile aggravamento della situazione del Mezzogiorno. L’incidenza della povertà, come aveva già spiegato il rapporto dell’Istat, aumenta al crescere del numero dei minori a carico con valori superiori alla media già a partire da due minori (16,9%) e una punta del 26,1% per le famiglie con tre o più minori. Le famiglie numerose (specie quelle del sud) sono dunque più a rischio delle famiglie con anziani e perfino di anziani che vivono da soli. Rispetto al 2003, la diffusione della povertà nel 2004 appare a livello nazionale significativamente in crescita tra le famiglie più numerose.

 

Tutti gli indicatori e le variazioni che sono state registrane nel corso del biennio 2003-2004 indicano che è rimasta immutata l’incidenza delle famiglie a rischio di povertà che continuano a rappresentare il 7,9% dela popolazione. Cresce invece la percentuale sia delle famiglie appena povere, che di quelle sicuramente povere. Si tratta di un dato molto importante per due motivi: prima di tutto perché lo stato reale della povertà in Italia (visto che ancora non si calcola la povertà assoluta) si ottiene solo sommando tutte le categorie interessate, ovvero le famiglie sicuramente povere, quelle a rischio di povertà e quelle già quasi povere. Il secondo motivo che desta preoccupazione riguarda i raffronti con gli anni precedenti. Tra il 2001 e il 2003 erano infatti diminuite le persone appena povere e quelle sicuramente povere. Nel biennio 2003-2004 questi due sottoinsiemi della povertà sono invece peggiorati.

Nel Rapporto della commissione si calcola anche il gap tra famiglie povere e famiglie non povere. Non si tratta ovviamente di un raffronto tra poveri e ricchi, cosa che darebbe il vero indicatore della diseguaglianza, ma di raffronto tra una famiglia povera e una “normale”. Ebbene dai calcoli della Commissione risulta che le famiglie povere (quasi tre milioni di nuclei) hanno avuto un gap, o un deficit di spesa di 252 euro al mese, superiore di circa 22 euro da quello che era stato registrato nel 2003. Anche questo è un altro segnale di peggioramento, che ovviamente è diversificato secondo le regioni. Si calcola anche che se lo Stato dovesse intervenire per colmare questi gap ci vorrebbe una spesa tra i 6 e gli 8 miliardi di euro l’anno, vale a dire mezzo punto di Pil.

La povertà resiste e si insinua anche nelle realtà più ricche

Non solo il Mezzogiorno, ma anche alcune zone del nord Italia fanno registrare strani indicatori: i casi di Trentino e Lombardia.

Due dati emergono dal Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale: la “resistenza” della povertà che non accenna a diminuire, nonostante le politiche messe in atto e il suo carattere “pervasivo”, ovvero la sua capacità di incidere in tutte le realtà, anche quelle più ricche. E’ infatti ancora il Sud la zona più povera del paese, sia in termini di incidenza che di intensità della povertà. Ma ci sono zone del Nord d’Italia, che pure essendo ricche e ben organizzate fanno registrare strani indicatori relativi alle dinamiche sociali della povertà e dell’esclusione. Dal Rapporto abbiamo voluto quindi estrapolare due esempi che ci sembrano particolarmente interessanti: il Trentino Alto Adige e la Lombardia. Ecco alcuni dati che contribuiscono a capire meglio il fenomeno povertà anche a livello nazionale.

 

Pensando alla Lombardia e al Trentino che vantano i Pil regionali tra i più alti in Italia e la concentrazione di ricchezze e di servizi, non ci si potrebbe immaginare le percentuali della povertà relativa. Nel 2003 l’incidenza della povertà relativa in Lombardia era del 4,5%, circa la metà della media nazionale, ma una percentuale molto più alta di quella che è stata registrata in altre regioni del nord e del centro. Nel 2004 l’incidenza della povertà relativa lombarda è leggermente scesa, ma contemporaneamente le statistiche hanno fatto registrare una crescita della “intensità” della povertà relativa (che è poi la misura di quanto le famiglie povere sono al di sotto della linea ufficiale di povertà). Ebbene nel 2002 l’intensità della povertà delle famiglie residenti in Lombardia era del 18%, due anni dopo era già aumentata di mezzo punto, mentre in altre zone del paese lo stesso parametro faceva registrare un diminuzione dell’intensità di povertà. Ancora più sorprendente, da questo punto di vista, la dinamica del Trentino Alto Adige, bellissima regione turistica e tradizionalmente ricca. In Trentino l’incidenza della povertà relativa nel 2003 era pari all’8,8%, mentre nel 2004 era scesa al 7,4%. Ma è l’intensità della povertà relativa che fa riflettere se abbinata alla terra delle Dolomiti. Nel 2002 l’intensità della povertà trentina era pari al 21,7%, non solo molto più alta di altre regioni, ma addirittura sopra la media nazionale (21,4%). Nel 2003 c’è stato poi un ulteriore peggioramento che ha portato la percentuale dell’intensità della povertà al 22,5%, molto al di sopra della media nazionale che in quell’anno era del 21,9%. Nel 2004, per fortuna per i poveri trentini, l’intensità ha fatto registrare un calo portandosi al 17,5%, questa volta sotto la media nazionale. C’è da chiedersi comunque che cosa stia succedendo in Trentino.

Ma sono anche altri dati a destare preoccupazione e perfino un certo stupore. Nelle catalogazioni della povertà, sempre in riferimento alla soglia standard, si suole distinguere le famiglie sicuramente povere, da quelle appena povere, da quelle quasi povere e da quelle sicuramente non povere. Nel 2003 in Lombardia l’1,7% delle famiglie era catalogato come sicuramente povere, il 2,8% appena povere e il 4,1% quasi povere. L’anno successivo, il 2004, risultava perfino peggiorata la percentuale relativa alle famiglie quasi povere, che arriva al 7,9%. E’ uno dei segnali della difficoltà complessiva e di un peggioramento non tanto delle condizioni dei poveri già poveri, ma delle persone e delle famiglie che oscillano sempre sulla fatidica soglia.

 

Discorso analogo per il Trentino che aveva nel 2003 un 7% di famiglie quasi povere e nel 2004 un 5,6%, con un 4,7% di famiglie appena povere. Le dinamiche che abbiamo osservato valgono anche per la Lombardia, regione ricca, industriale e già postindustriale, con un sistema sanitario che vuole essere all’avanguardia nella sperimentazione del mix pubblico-privato. Una regione dove si concentrano molti tra i ricchi cittadini italiani. Eppure dal Rapporto della Commissione si scopre che il deficit (o il gap) di spesa delle famiglie povere rispetto alle altre è molto alto. Se infatti la media nazionale si attesta sulle 200 euro al mese (soldi che mancano alle famiglie povere per non stare sotto la soglia), in Lombardia il deficit medio del 2003 è stato di 175, cifra che è cresciuta a 186,46 euro nell’anno successivo. In Trentino nel 2003 si è addirittura superata la media nazionale con 234,72 di deficit mensile per famiglia povera, cifra che l’anno successivo si è abbassata a 180 euro. Deve essere successo qualcosa di particolare nella regione nel 2003. Infine sono molto interessanti anche i dati relativi al surplus (l’opposto del deficit, ovvero la quota che hanno in più le famiglie non povere rispetto alla media del paese). Ebbene anche qui scopriamo un’altra tendenza: sia la Lombardia, che il Trentino hanno le quote di surplus più alte e comunque superiori alla media nazionale. Se la media italiana del surplus familiare è di 1.406,85 euro, nel 2003 in Lombardia il surplus è stato di 1.699,27 euro che sono diventati 1.787,29 nel 2004, mentre in Trentino si è registrato un surplus di 1.558,34 euro nel 2003 e di 1634,99 euro nel 2004. Ricchezza e povertà, a quanto pare, crescono insieme.

I giovani? ''Non risultano poi così protetti''

Il Rapporto della Commissione governativa sull'esclusione sociale emerge un fenomeno nuovo: le difficoltà delle persone tra i 18 e i 34 anni. E un punto di snodo delicatissimo è il momento dell'uscita dalla casa dei genitori

Alla figura del povero associamo in genere le persone anziane, i “barboni”, gli immigrati più emarginati. Quando gli statistici ci parlano della soglia della povertà relativa, qualcuno magari comincia anche a preoccuparsi. Ma è anche preoccupante notare la crescita della povertà relativa anche tra fasce di popolazione e in fasce d’età che prima non avremmo mai immaginato come “a rischio”. E’ il caso, per esempio dei giovani. Dal Rapporto emerge per esempio un fenomeno nuovo. Gli estensori del Rapporto hanno utilizzato tutte le metodologie più recenti e più sofisticate per cogliere le dinamiche sociali. Dallo studio si confermano i minori e le persone ultrasessantacinquenni come due delle “figure” più deboli e più a rischio di povertà. “Ma se è vero che bambini e anziani incorrono più facilmente in situazioni di difficoltà economica – si legge nel rapporto – i giovani tra i 18 e i 34 anni non risultano poi così protetti”. In questa fascia d’età l’incidenza di individui appartenenti a famiglie povere sul totale è di poco inferiore a quella registrata per il complesso della popolazione.

Si tratta di un dato che nel Rapporto della Commissione viene giustamente sottolineato. E’ una notizia sia dal punto di vista statistico, sia dal punto di vista dell’interpretazione sociologica. “La letteratura classiva sulla povertà – si legge ancora nel Rapporto – per anni ha individuato nella giovinezza una fase della vita relativamente sicura. I giovani non erano considerati a rischio, come altre categorie, in quanto economicamente attivi e, in ipotesi, privi del peso di altre persone da loro dipendenti. La portata di tale assunto appare oggi ridimensionata da mutamenti verificatisi nel mercato del lavoro, nei percorsi formativi e nelle modalità di transizione alla vita”.

 

Il Rapporto si concentra in particolare sull’analisi della fascia della popolazione che va dai 18 ai 34 anni. Nelle comparazioni delle percentuali si scopre così che le percentuali più alte di povertà relativa in questa fascia di età riguardano le persone che lavorano. Anche le analisi relative al titolo di studio fanno emergere questa figura inedita del nuovo povero giovane. “E’ evidente – dice il Rapporto – che nel caso dei giovani ci si trova di fronte a persone spesso ancora in formazione, ma si osserva in maniera inequivocabile un mutamento nel profilo del povero delle nuove generazioni: il titolo di studio modale, tra gli appartenenti a famiglie povere, resta la licenza di scuola media, ma per i giovani una quota rilevante (35,5%) è rappresentata comunque da persone che hanno un diploma che consente l’accesso all’università”. Il titolo di studio, senza l’università non è più dunque una garanzia contro i rischi di povertà. Tra i giovani di questa fascia di età (18-34) ci sono anche molte donne e anche qui si scopre che la condizione di casalinga mette più a rischio le ragazze. In realtà questa è più che altro una conferma del fatto che le donne oggi lavorano di più (sempre poco rispetto agli altri paesi) sia come conseguenze della battaglie di emancipazione, sia per pura necessità economica.

Punto di snodo delicatissimo, in ogni caso, è il momento dell’uscita dalla casa dei genitori. “Per i giovani – si legge nel Rapporto – ciò che effettivamente sembra poter fare la differenza è l’uscita dalla casa dei genitori. Le persone che sono uscite dalla famiglia di origine più spesso si trovano ad appartenere a famiglie povere”. La Commissione ipotizza che l’uscita precoce dalla famiglia, quando cioè non siano mature le condizioni dal punto di vista economico-lavorativo, può esporre a percorsi di povertà.

Dal 1997 al 2004 la situazione è rimasta sostanzialmente stabile. Peggiorano le condizioni dei poveri ''relativi''. I dati del Rapporto 2006 della Commissione governativa sull'esclusione sociale

Le politiche contro la povertà e l’esclusione sociale funzionano? Dal rapporto si colgono purtroppo di segnali di peggioramento della condizione dei poveri “relativi”. Le variazioni intervenute nel biennio 2003-2004 indicano che è rimasta immutata l’incidenza delle famiglie a rischio di povertà, mentre è cresciuta la percentuale sia delle famiglie appena povere (6,2%), che di quelle sicuramente povere (5,5%). Si notano anche singoli segnali di peggioramento per fasce di popolazione. Per gli stranieri immigrati, per esempio, le cose non sono andate bene nel 2005, visto che il loro reddito medio netto mensile è stato pari a 839 euro, ovvero 80 euro in meno rispetto all’anno precedente. Ma a parte i dati “micro”, c’è da considerare le dinamiche generali della povertà in Italia. Dal 1997 al 2004 – sono le informazioni che ci offre il Rapporto – il fenomeno della povertà relativa è rimasto sostanzialmente stabile. Nel 2004 la percentuale di famiglie povere era pari all’11,7% della popolazione complessiva. Il fenomeno resiste quindi alle politiche e si aggrava con l’aggravarsi della congiuntura economica. Analizzando infatti l’intensità della povertà (una misura molto importante per capire quanto i poveri sono al di sotto della linea di povertà), si scopre che il fenomeno è molto più forte al sud, ma che si stia anche diffondendo in altre regioni dove aumenta in generale l’area del disagio. Rispetto sempre alle dinamiche colpisce poi un altro fatto. In alcune regioni sembrano diminuire le differenze tra i ricchi e i poveri. Ma tali diminuzioni, spiegano i ricercatori della Commissione di indagine, riflettono non tanto la diminuzione della povertà, quanto piuttosto il fatto che le famiglie più benestanti hanno mostrato negli ultimi cinque o sei anni un aumento dei loro livelli di spesa mediamente meno accentuato di quello osservato per il resto delle famiglie. In altre parole la soglia di riferimento è stata modificata per l’effetto di un minor consumo da parte delle famiglie più ricche che magari hanno dirottato su investimenti mobiliari e immobiliari le loro risorse finanziarie.

 

Detto tutto ciò, dunque, passiamo ad alcuni dati sugli effetti reali delle politiche contro la povertà. Il primo dato che emerge, nell’analisi delle politiche dell’ultima legislatura, quella del governo Berlusconi, è la riduzione sostanziale delle risorse del Fondo Nazionale per le politiche sociali. Solo per l’anno 2005, per esempio, le risorse destinate al Fondo sono state pari a 1.308.080.940 euro, con una diminuzione complessiva, rispetto al 2004, di 576.266.000 euro. Quelli che sono stati maggiormente tagliati, nel calderone generale, sono i fondi destinati alle Regioni e all’Inps, mentre sono rimasti pressocché invariati i fondi destinati ai Comuni. Con la legge finanziaria 2006-2008, l’ultima del governo Berlusconi, quella firmata dal ministro Tremonti, ha previsto per il triennio una ulteriore riduzione del Fondo. Oltre ai tagli al Fondo sociale, quello che sta complicando parecchio le politiche è la macchinosità di un sistema che si è modificato con la modificazione del Titolo V e lo spostamento verso le Regioni di politiche prima appannaggio dello Stato nazionale. Oltre tutto si registra un doppio passaggio nella destinazione delle risorse, dallo Stato alle Regioni e poi dalle Regioni ai Comuni.

 

Dal Rapporto emerge anche la conferma che l’Italia continua a spendere meno del resto dell’Europa nel campo delle politiche sociali. In Italia l’incidenza della spesa sociale in rapporto al Pil è pari al 30,2% nel 2004, cosa che colloca il nostro paese in una posizione intermedia rispetto agli altri paesi dell’Unione. Siamo oggi a due punti percentuali sotto la Germania e a un punto sopra il Regno Unito. In realtà si dovrebbero anche confrontare le singole voci che compongono la spesa sociale complessiva e si dovrebbe mettere in relazione la quota destinata alle politiche sociali nella più generale voce della spesa pubblica. Da questo punto di vista, in rapporto alla spesa pubblica totale, in Italia la quota destinata alla spesa sociale è stata nel 2004 pari al 62,2%, valore inferiore di oltre quattro punti percentuali rispetto alla media della Ue.

Nel Rapporto della Commissione di indagine italiana si segnalano anche i punti più salienti delle politiche attuate. Li riassumiamo in maniera sintetica: 1) segnali incoraggianti sul fronte della povertà relativa nella popolazione anziana, come effetto dei trasferimenti monetari di natura previdenziale (le famose pensioni al minino aumentate da Berlusconi, anche se sono andate a premiare solo una parte degli anziani pensionati); 2) decisamente allarmante la crescita della povertà dei minori, a causa sia della sempre più elevata incidenza della povertà tra le famiglie con figli piccoli, sia della povertà nella classi di età giovanili. Secondo la commissione “la povertà delle famiglie con minori e con giovani adulti rappresenta una obbiettiva emergenza economica e sociale”; 3) colpiscono anche i ritardi rispetto alle politiche sulla famiglia. Da questo punto di vista la legislatura berlusconiana è stata un fallimento perché a parte il bonus per il secondo figlio che non era stato concecipito come una misura di sostegno alla povertà, non ci sono state politiche in grado di frenare il fenomeno dell’impoverimento relativo; 4) anche l’esperimento del reddito minimo di inserimento è stato subito accantonato; 5) anche le politiche fiscali che sono state messe in atto durante i cinque anni del governo di centrodestra non sono andate in favore delle famiglie povere, come è ampiamente stato dimostrato sia dalle rilevazioni statistiche, sia dal grande dibattito che si è sviluppato prima e dopo le elezioni sulle tasse: 6) si fa sempre più strada sia tra gli esperti, che nel dibattito politico, la necessità di rivedere gli strumenti di intervento delle singole politiche sociali. Si tratta di avviare una riflessione sui nuovi rapporti tra la sfera pubblica statale e la sfera pubblica del privato sociale nell’esigenza generale di garantire a tutti quel diritto al servizio universale previsto dalle leggi (anche le più recenti del nuovo secolo), ma che non si traduce in realtà quotidiana.

 

(Paolo Andruccioli)

 

 

Secondo l''Istat la povertà in Italia viene calcolata sulla base di due distinte soglie convenzionali:


soglia relativa : determinata annualmente rispetto alla spesa media mensile procapite per consumi delle famiglie italiane a cui si applica una scala di equivalenza a seconda del numero dei componenti delle singole famiglie. In base a questo criterio è considerata povera una famiglia di due persone con una spesa mensile per consumi pari o inferiore alla spesa media procapite nazionale.

soglia assoluta : basata sul valore monetario di un paniere di beni e servizi essenziali, aggiornato ogni anno tenendo conto della variazione dei prezzi al consumo.

 

Povertà, il ministro Ferrero: ''Situazione drammatica per larghe fasce della popolazione italiana''

Rapporto Istat, il ministro della Solidarietà sociale: ''Il problema non è la tassazione, ma la scarsità di spesa pubblica. E le tanto vituperate pensioni sono l'unico strumento che difenda alcune fasce sociali''

Anche il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ha voluto commentare i dati diffusi dall’Istat e relativi alla povertà in Italia.

Afferma Ferrero: “I dati sulla povertà contenuti nel rapporto presentato oggi dall’Istat fotografano una situazione drammatica per larghe fasce della popolazione italiana. Tre mi paiono i punti da sottolineare. In primo luogo l’emergenza italiana non è il livello della tassazione ma la scarsità di spesa pubblica dedicata ai ceti meno abbienti e le scarse opportunità di lavoro nel mezzogiorno d’Italia. Le polemiche sull’aumento della tassazione appaiono alla luce di questi dati completamente ingiustificate. In secondo luogo i dati ci dicono che le tanto vituperate pensioni sono l’unico strumento che difenda alcune fasce sociali dalla povertà. Infatti, se la percentuale di poveri non cresce con l’età e se la fascia degli over 65 vede un tasso di povertà in linea con la media europea è proprio grazie al sistema pensionistico che da molte parti è messo sotto accusa. In terzo luogo, l’addensamento della povertà nelle famiglie numerose conferma la bontà della scelta fatta nella legge finanziaria di incrementare notevolmente i trasferimenti verso le famiglie con figli aventi redditi medio bassi”.

“In conclusione – afferma Ferrero - questo rapporto ripropone con forza il tema delle abitazioni e del livello degli affitti in una situazione in cui l’89% degli sfratti avviene per morosità. La necessità di stanziare in finanziaria risorse adeguate per il piano casa trova in questo rapporto una ulteriore conferma”.

 

Il ministro Bindi: ''Contro la povertà, misure strutturali in Finanziaria''

Il ministro delle Politiche per la famiglia commenta il Rapporto Istat: ''Non ci conforta affatto il dato di 7 milioni e mezzo di poveri, l'11 per cento delle famiglie. Per questo l'opera di risanamento, avviata dal governo, deve continuare''

ROMA – “La descrizione fatta oggi dall’Istat sulle principali caratteristiche delle famiglie in condizioni di povertà, indica che con la Finanziaria 2007 abbiamo visto giusto disegnando una manovra che mira a coniugare con interventi strutturali sviluppo ed giustizia sociale. Le famiglie numerose o con figli minori, quelle con un componente in cerca di occupazione e con anziani sono quelle più soggette al rischio di povertà”. Ad affermarlo è il ministro delle Politiche per la famiglia, Rosy Bindi, che commenta così i risultati del Rapporto Istat sulla povertà relativa in Italia.

 

“Per queste famiglie – continua la Bindi - ci sono ora le prime risposte concrete: la riforma degli assegni familiari, innanzi tutto e una marcata accentuazione delle detrazioni per figli a carico nella rimodulazione dell’Irpef, l’aumento della no tax area per tutte le tipologie di lavoratori e per i pensionati, la previsione di ripristinare il Reddito minimo d’inserimento, così come l’impegno ad avviare il Fondo per la non autosufficienza; le norme sull’emersione del lavoro nero e sulla stabilizzazione del lavoro precario, il riconoscimento del diritto alla maternità anche alle lavoratrici a tempo determinato”.

“Tutta la manovra, inoltre – continua -, con un sforzo notevole di investimenti diretti e incentivi alle imprese, pone una particolare attenzione al Mezzogiorno, che come la ricerca evidenzia è ancora di gran lunga l’area del Paese con il maggior tasso di povertà. Queste sono misure che non impoveriscono gli italiani, come cerca di fare credere l’opposizione. Tutt’altro: è una manovra che nel suo complesso punta a costruire una nuova politica sociale, attraverso un insieme coerente di politiche fiscali, trasferimenti diretti di denaro e rilancio dei servizi, affinché la famiglia esca stabilmente da una condizione di marginalità sociale e possa rappresentare un perno fondamentale per il rilancio del Paese”.

“Per questo – conclude la Bindi - non ci conforta affatto il dato di  7 milioni e mezzo di poveri, l’11 per cento delle famiglie. In un Paese che si vanta di essere in prima fila tra quelli industrializzati, sono ancora troppi e per questo l’opera di risanamento del Paese, avviata dal governo, deve continuare”.


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