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L'Italia spende ancora troppo poco. E pensa più agli anziani che ai giovani

dal Redattore Sociale

Rapporto sullo Stato Sociale 2007. Distanti i sistemi di welfare europei per composizione e flussi quantitativi: le prime due voci della spesa sociale in Ue gli anziani e la sanità. Paese in ritardo per politiche del lavoro e formazione continua

ROMA -  L'Italia  spende ancora troppo poco per le politiche sociale e, a livello europeo, si trova agli ultimi posti soprattutto per la spesa per le politiche del lavoro e per la formazione continua degli adulti. E' questo uno degli elementi analizzati nel "Rapporto sullo Stato Sociale”, voluto dal Dipartimento di Economia Pubblica dell’Università di Roma Sapienza e dal Centro di Ricerche Interuniversitario sullo Stato Sociale e presentato oggi a Roma.

Modelli diversi di welfare - In Europa i sistemi di welfare sono ancora molto distanti per composizione e flussi quantitativi: nell’Ue a 25 la spesa sociale è mediamente pari al 27,3% del PIL e sale al 27,6% nell’Ue a 15. Ma le differenze nazionali sono significative: 13% nei paesi baltici, 20% nei paesi dell’Est e in Spagna, vicino al 26% in Italia, Regno Unito, Grecia e Finlandia, fino ai massimi dei paesi del Centro e Nord Europa che si avvicinano e superano anche consistentemente il 30%, arrivando quasi al 33% in Svezia. Se si considerano i valori della spesa pro capite, il valore medio dell’Ue a 15 oscilla da 189 in Lussemburgo ad oltre 150 in Svezia e Danimarca, a circa 120 in Francia e Germania, a 50 in Spagna, a valori vicini o inferiori a 10 nei paesi baltici e dell’Est; il valore italiano è 81 e il suo divario negativo è andato crescendo nell’ultimo decennio. “L’inferiorità del dato italiano diventa più sensibile se si tiene conto che esso include, del tutto impropriamente, la quota di salario differito destinato al TFR pari all’1,4% del PIL e se si considera che la trattenuta fiscale sui nostri trasferimenti pensionistici, pari al 2,4% del PIL, è mediamente superiore rispetto agli altri paesi cosicché, nel confronto tra le prestazioni effettivamente erogate, siamo ancora più lontani dalla media europea di quanto indicano i dati ufficiali”, spiega nell'introduzuione al rapporto Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia Pubblica a "La Sapienza".

Si spende più per gli anziani e per la sanitàLe  prime due voci di spesa nell’Ue a 25 riguardano le persone anziane (41%) e le politiche sanitarie (28%), ma anche in questo caso il divario è molto alto: si va per le prime dal 18% in Irlanda al 55% in Polonia e per le seconde dal 19% in Polonia al 42% in Irlanda.  Esprimendo i valori in rapporto al Pil, la spesa previdenziale italiana supera di 2,7 punti quella media dell’Ue a 15 mentre le altre voci della nostra spesa sociale sono nettamente inferiori a quelle della media europea.  Particolarmente fragile la posizione intaliana per quanto riguarda le politiche del lavoro. “La nostra spesa per le politiche del lavoro è pari a poco più della metà della media europea – spiega Pizzuti - e i trattamenti previsti per le diverse categorie di lavoratori oltre che complessivamente insufficienti, sono anche molto disomogenei. - sottolinea Pizzuti - La copertura dal rischio di disoccupazione è particolarmente inadeguata per chi più ne avrebbe bisogno, cioè i lavoratori che svolgono attività discontinue, coloro che hanno iniziato a lavorare da poco tempo e i parasubordinati; è del tutto assente per i giovani e comunque per chi è alla ricerca della prima occupazione o l’ha persa da molto tempo”. Inoltre la spesa dei sussidi ai disoccupati, pur crescendo specialmente per i dipendenti delle grandi industrie, se confrontata con il reddito degli attivi, si attesta su valori intorno alla metà rispetto alla media europea e circa cinque volte più basso che in Olanda e in Danimarca. Per quanto riguarda invece la spesa sanitaria, in Italia quella pubblica nel 2006 è cresciuta di quasi l’8% rispetto all’anno precedente; i due fattori principali dell’aumento risiedono nell’invecchiamento demografico e nei maggiori costi delle nuove cure mediche. Diverse le fragilità: inappropriatezza di alcune prestazioni, l’uso spesso inadatto delle strutture ospedaliere dovuto alla carenza dei servizi di assistenza di base e domiciliari, le liste d’attesa, l’eccesso della spesa farmaceutica. Continua inoltre il processo di riorganizzazione del Ssn sul territorio con la riduzione delle ASL che sono passate da 659 nel 1992 a 171 alla fine del 2006, mentre le aziende ospedaliere sono aumentate passando da 61 a 95.

In Ue il 16% della popolazione a rischio povertà

Più fragili anziani e minori: ''la povertà tra i cittadini over65 è simile a quella dei giovani inferiori ai quindici anni''. Si discute su come distribuire le prestazioni: universalismo o selettività?

Universalismo o selettività? E' aperta la discussione, in Italia come in Europa, su quale criterio utilizzare per la distribuzione delle prestazioni, tenendo presente che la dicotomia "non richiama necessariamente quella tra pubblico e privato”. I paesi dell’Ocse negli ultimi 20 anni sono passati dai “più costosi schemi universalistici alle misure selettive”, ma non sempre con risultati verificati apprezzabili. Ne è un esempio la lotta alla povertà, che secondo il Rapporto 2007 sullo Stato sociale “appare comunque più efficacemente perseguita dai sistemi di welfare dove sono maggiormente diffusi gli schemi universalistici”. Nell’Unione a 27 la variabilità delle situazioni di povertà “rimane rilevante”: complessivamente, le persone a rischio di povertà sono il 16% della popolazione, ma si oscilla da meno del 10% in Svezia a più del 20% in Polonia e Lituania. I paesi del Mediterraneo, Italia inclusa, si collocano nella fascia alta dei valori, intorno al 20% (si valuta la condizione di povertà relativa, che misura quanti abitanti in ciascun paese sono al di sotto del 60% del reddito mediano). I paesi a più alta povertà sono anche quelli che registrano le maggiori disuguaglianze interne: nella media europea, il reddito del quinto di popolazione più ricca è cinque volte superiore rispetto a quello del quinto di popolazione più povera; in Italia il valore è di poco superiore alla media (più di cinque e mezzo), in Portogallo si raggiunge il valore massimo (più di 8), mentre nei paesi nordici è inferiore a 3,5. 

Particolare attenzione alla povertà tra i bambini che è superiore (19%) a quella riferita all’intera popolazione (16%). In Italia secondo l’anali di Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia Pubblica a "La Sapienza", pesa il grado di istruzione dei giovani: un giovane su cinque lascia la scuola senza aver conseguito un diploma della media secondaria, mentre la media europea è del 15% e solo Spagna, Portogallo e Malta registrano valori peggiori di quelli italiani. Vi è inoltre una forte differenziazione geografica legata alle possibilità occupazionali che determina nel Mezzogiorno una incidenza della povertà cinque volte più alta di quella presente nelle regioni del Nord.

Gli anziani vivono una analoga condizione di disagio: ''nell’Ue 25 – sottolinea Pizzuti nella suia introduzione al rapporto - la povertà tra i cittadini over65 è simile a quella che si riscontra tra i giovani inferiori ai quindici anni, dunque è superiore a quella che si riscontra nell’intera popolazione”. In Italia, tra gli anziani, i poveri sono il 23%, un valore superiore di quattro punti rispetto a quello che si registra tra l’intera popolazione. Ma in tutta Europa, i redditi complessivamente disponibili dagli anziani sono mediamente inferiori a quelli fruibili dalla rimanente popolazione: i primi oscillano intorno ai due terzi dei secondi in paesi come Irlanda, Danimarca e Regno Unito, mentre superano anche il 100% in Ungheria e Polonia. In Italia la quota supera l’80%.

"Per il futuro – commenta l’economista - le proiezioni dell’intera spesa sociale legata all’invecchiamento della popolazione registrano nette differenze tra i paesi a seconda che recentemente abbiano o meno effettuato riforme pensionistiche restrittive; rispetto alla media dell’Ue a 25, l’Italia mostra una dinamica inferiore alla media con valori che sono negativi per il periodo fino al 2020”. Buone notizia invece per la speranza di vita in buona salute che ci vedono chiaramente al primo posto con più di 70 anni per gli uomini e quasi 75 per le donne, cioè, rispettivamente, circa 6 e 8 anni in più della media europea.

In Europa la chiamano ''flexicurity'', in Italia precarietà: l'analisi di Roberto Pizzuti

Conciliare la flessibilità occupazionale richiesta dalle imprese con la sicurezza dei lavoratori è un modello a cui guarda positivamente l’Europa e che in Danimarca è già una nuona pratica. Ma in Italia pesa il sistema produttivo

La chiamano “flexicurity”, ovvero conciliare la flessibilità occupazionale richiesta dalle imprese con la sicurezza data ai lavoratori. Un modello a cui guarda positivamente l’Europa e che in alcuni stati come la Danimarca non solo funziona ma rappresenta una buona pratica a cui tendere. In Italia, tuttavia, questo modello non sembra avere molte chance secondo  Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia Pubblica a "La Sapienza". “La nostra esperienza degli ultimi anni pone un fondato dubbio sulla concreta percorribilità di quel modello nel nostro sistema socio-economico”, scrive nell’introduzione al Rapporto 2007 sullo Stato sociale. Infatti in Italia, al contrario degli altri paesi in cui si applica la flexicurity, tendono a evidenziarsi gli aspetti negativi del modello: “un sistema produttivo poco dinamico e prevalentemente attratto da una flessibilità  rivolta essenzialmente alla riduzione del costo del lavoro si associa ad un sistema di welfare caratterizzato da politiche del lavoro e ammortizzatori sociali inadeguati che non fornisce la sicurezza necessaria e complementare ad una flessibilità che dovrebbe essere intesa a favorire il permanere del sistema produttivo alla frontiera qualitativa della divisione internazionale del lavoro”, scrive Pizzuti.

Se in Danimarca questo modello, seppure combinato con altre politiche economiche e dentro un contesto sociale e culturale favorevole, ha prodotto significativi miglioramenti - nel 1993 la disoccupazione superava il 10%, ora è scesa al 3% senza incidere significativamente su inflazione, bilancio pubblico e bilancia dei pagamenti del lavoro – in Italia “i percorsi concretamente seguiti dal sistema produttivo, dal mercato del lavoro e delle istituzioni del welfare possono essere letti come un’applicazione così parziale e asimmetrica di quel modello da risultare contraddittori rispetto alla sua filosofia”. La normativa che regola il mercato del lavoro italiano “ha accentuato molto gli elementi di flessibilità, specialmente quella di tipo esterno, cioè la facilità di assumere e licenziare” ma come dimostrano le statistiche europee in base all’indicatore dell’Ocse sul grado di protezione legislativa dell’occupazione l’Italia è tra  quelli con una protezione più bassa. Agli ultimi posti anche per la spesa per le politiche del lavoro e la formazione continua degli adulti. “Si tratta - spiega Pizzuti - di elementi coerenti ad un sistema produttivo dove prevalgono i settori maturi che richiedono una manodopera che non sia particolarmente qualificata ma molto flessibile e a basso costo per poter competere sui prezzi anziché sulla qualità dei prodotti”.

Infatti secondo l’indagine Isfol-Plus nel 2005 il 64% degli occupati erano lavoratori a tempo indeterminato, quasi il 9% era a tempo determinato, quasi il 4% erano collaboratori a contratto e il restante 23% erano lavoratori autonomi. E se si considerano i redditi rispetto ai contratti, si scopre che “rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato, quelli a termine hanno un reddito che mediamente è circa tre quarti e quello dei collaboratori a contratto scende sotto i due terzi”. Circa il 15% di tutti i lavoratori ha un reddito da lavoro inferiore al 60% di quello mediano, la quota sale al 22% nel caso dei dipendenti a termine e al 58% per i collaboratori a contratto. Le quote salgono sopra il 15% anche per gli occupati sotto i trent’anni (21,5%), di sesso femminile (23%) e per i dipendenti di imprese di 1-3 addetti (25%). Si hanno invece valori inferiori al 15% nel caso dei dipendenti a tempo indeterminato (8,7%), degli impiegati in aziende sopra i 50 addetti (8,6%), di sesso maschile (9,4%).

Ripensare la sussidiarietà. Bertinotti: ''Uno zainetto di diritti per tutti''

''Lo Stato da solo non può farcela''. Verso una pluralità di produttori di servizi tra cui i privati (profit o non profit) e libertà di scelta da parte degli utenti

Il Welfare deve essere difeso e rinnovato, ma oggi le condizioni sociali ed economiche non sono più quelle degli anni passati. E’ dunque sempre più probabile che lo Stato, l’istituzione che deve assicurare il welfare ai cittadini, rischi di non farcela a garantire i diritti sociali e di cittadinanza. Per questo si deve avviare un ripensamento serio anche sulle forme di sussidiarietà e sul rapporto tra i servizi di welfare offerti direttamente dallo Stato e quelli offerti dal privato sia profit, che non profit. E’ questo il senso di un messaggio che il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha voluto inviare questa mattina al professor Roberto Pizzuti e ai ricercatori del Rapporto sullo Stato sociale 2007 (edizioni Utet), curato dal dipartimento di Economia Pubblica della Sapienza e dal Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale (Criss).

Secondo Bertinotti non è detto che con la crescita del Pil si possa ridurre la povertà. Anzi pare che oggi stia succedendo l’esatto contrario: più l’economia cresce, più aumentano le fasce di povertà, che appaiono quindi non come un retaggio del passato, ma come ''un portato dell'innovazione'' del sistema produttivo. Anche la precarizzazione non è dunque un ritorno al passato ma un frutto molto moderno del presente. Tutto ciò, secondo il presidente della Camera, cambia i parametri di riferimento e visto che lo Stato ''non può farcela da solo'', dovrà essere in grado di individuare nella società i soggetti che possano intervenire per garantire i diritti. Una ricerca che, anche secondo Bertinotti, andreà fatta sia tra i soggetti profit, sia tra quelli non profit. La cosa essenziale comunque, l’obiettivo prioritario e assoluto è che si possa garantire a tutti i cittadini ''uno zainetto dei propri diritti''. Ogni cittadino dovrà cioè far parte di ''un nuovo stato sociale allargato''.

Il concetto espresso dal presidente Bertinotti lo ritroviamo – anche se in forme diverse nell’articolazione analitica – anche nelle considerazioni di sintesi con cui si apre il Rapporto 2007 sullo Stato sociale. Il professor Pizzuti, autore delle considerazioni e coordinatore di tutti i ricercatori che hanno prodotto il Rapporto, analizza le diverse situazioni-modelli: dallo Stato che detiene il monopolio dello stato sociale, alla critica liberista che vorrebbe annullare completamente (o comunque ridurre al minimo) il ruolo del pubblico, passando però per modelli-situazioni in cui si realizzano i “quasi mercati” e il “quasi monopolio pubblico”. Pizzuti analizza anche i diversi modelli basati sull’universalità o sulla selettività delle prestazioni offerte dallo Stato sociale. Alla fine delle sue considerazioni, Pizzuti spiega che sta nascendo la proposta alternativa del “quasi monopolio pubblico”. Questa proposta contemplerebbe “una pluralità di produttori che includono anche i privati (profit o non profit) e una consegente libertà di scelta da parte degli utenti”. Rispetto alle altre proposte/modelli, come quello per esempio dei “quasi mercati”, questa proposta del quasi monopolio pubblico darebbe un ruolo maggiore all’operatore pubblico “nella definizione e nella promozione dell’appropriatezza cui dovrebbe uniformarsi l’offerta anche dei privati”. In questo modello le strutture pubbliche tornerebbero ad essere centrali all’interno di una rete costituita dagli altri produttori.

Anche a proposito della sanità, sempre per Roberto Pizzuti, valgono le stesse considerazioni. “Il dibattito teorico e l’esperienza – scrive Pizzuti – insegnano che la definizione di un’organizzazione ottimale degli assetti sanitari è un compito comunque arduo, ma la valutazione comparata delle varie opzioni porta a pensare che la soluzione del quasi-monopolio pubblico sia di particolare interesse istituzionale”.


Rapporto Stato Sociale 2007


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