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Il tempo "non" è denaro
Riflessioni di Raffaele Iosa su uno dei temi più discussi in questa stagione di riforma

Seguo con tiepida apatia il tormentone tempo pieno sì/no, che pare avrà forse un pareggio tra destri e sinistri, con la possibile garanzia della mensa svolta dalle insegnanti. Volevo vedere, altrimenti.

Non c’è solo in gioco la Cgil Scuola, che aumenterebbe i suoi voti nelle RSU. C’è anche la middle class lumbard che preferisce le maestre a mensa e non le bidelle. Il tempo fa voti.

Non basta ridurre le tasse, ma si deve anche tenere i figli a scuola fino alle 17. Gratis, se possibile. Se fosse possibile anche il sabato, che c’è la parrucchiera!

L’apatia deriva dal fatto che questi mesi sono stati compromessi da argomenti surreali, a fronte di una questione così seria come quella dei tempi di apprendimento, di relazione, di socialità.

Il tiepido invece un po’ rimane, perché ho dato un lungo pezzo della mia vita al tempo pieno, ai moduli, ai rientri pomeridiani, alle mense. Ma non sono in disarmo intellettuale. Tutt’altro.

Il fatto è che, per me, questa querelle è lontana dalle vere questioni cruciali dell’educazione e dei bambini di oggi, e serve parlarne solo per la cronaca. Per ora si tratta solo di tenere l’esistente. Passerà . Non è il futuro. C’è ben altro che conta.

Delle riforme epocali di sistema ormai ne hanno voglia solo gli ingegneri dello scolasticismo. Seguiti dai disciplinaristi, simili tra loro, i curricolari di prima e i fans dei piani di studio adesso.

Prima verrebbe la pedagogia, assieme ai valori. Poi l’ingegneria. Ma dei primi due non c’è molto. Il tempo dei bambini è sempre pieno.

Si dice che le proposte Bertagna vogliono “rompere” il tempo scolastico (meno ore di scuola, scelte private dei genitori, il sociale affidato alla libertà, alla carità e ai comuni) perché c’è un’idea “liberista” di istruzione. Lo direbbe anche Giancarlo Cerini.
Massimo Nutini, dell’ANCI, si è chiesto e risposto “La scuola si ritira?”. Ha risposto sì. E non sa forse neppure lui quanto è vicino al vero.

Per me, più banalmente, questi anni confermano la crisi epocale della scuola italiana ai tempi della modernità. Crisi che è iniziata ben prima di questo quinquennio.
Il resto è la politica, tutta, che deve fare i conti con la crisi economica, con gli interessi e con i voti.

 La solita Italia, insomma, tendente più agli usi che ai costumi, come dice Leopardi.
La crisi della scuola è antica, inizia con la scomparsa delle lucciole, quando cioè le case, le strade, le piazze, le scuole, sono state invase dalla nuova ideologia che Marc Augè chiama surmodernità. Basta vedere i giornali di ieri: 1.300 spot al mese visti in tv dai bambini, che stanno tre ore medie al giorno davanti al video. Basta vedere il mito di Internet, che annega la fantasia ma aiuta a trovare gli orari dei treni, e qualche volta un po’ di tette. Suggerisco, al proposito, di leggere l’ultimo libro di Postman (“Come sopravvivere al futuro”), quello della scomparsa dell’infanzia.
Come non vedere la paurosa china verso la quale mandiamo i nostri bambini? Una piccola massa di neo-bambini figli quasi sempre unici di trenta/quarantenni alla Muccino, bisognosi di padri più che capaci di paternità. Neo-bambini nati per l’hic e il nunc dell’io narciso genitoriale e non per dare loro un futuro, un destino, una speranza. Al massimo le Nike, forse se va bene anche i boy scouts.

Bambini travolti dalla frenesia, spesso soli, mai fermi e mai lenti, quasi mai ormai bambini.

Quale tempo diamo a questi bambini e bambine? Tempo di vita, non solo di scuola.
Per il bambino e la bambina il tempo è sempre pieno. E passa una volta sola, quando si cresce. Se passa male e con affanno è perduto per sempre. Riprenderlo più avanti è impossibile.

Questo tempo, prima di tutto, oggi è denaro. E poiché i bambini non sono amati ma idolatrati da masse genitoriali travolte dall’adultismo e da pubblicitari in cerca di royalties, sono inesorabilmente vittime di un frenetico attivismo che supera ogni ragionevole fatica. Spezzettare il tempo è dunque una necessità economica: quella di distribuire l’infanzia tra tanti soggetti in cerca di ruolo e di euro.

Basti vedere quelle patetiche sfilate di carnevale fatte in tutti i comuni italiani, nei quali tristissimi bambini vestiti da Zorro (ma così grassi da sembrare il sergente Garcia) sono costretti a divertirsi per riuscire bene nel video che babbo sta girando. Un sindaco senza carnevale perde voti.

Cosa c’entra tutto questo con la scuola a tempo pieno di Don Milani e Bruno Ciari, la Legge 820, la 517 e anche la 148, nata quando le lucciole erano ormai quasi scomparse?

Merita, forse, ricordare che quell’epoca era quella della scoperta dell’infanzia come età propria della vita, diversa dall’adulto, con diritti di spazi e tempi propri all’esistere dei bambini. Certo c’erano anche due idee un po’ comuniste, a quei tempi: quella che più tempo avrebbe aiutato i più poveri e che con più tempo si sarebbe smontato il quartier generale dei saperi dominanti.

Cose tipo tradizione, autoritarismo, tabù, ecc.. Cose forse abbattute più da Raffaella Carrà che dai maestri barbudos con l’eskimo e dalle femministe del tempo pieno.
Ma è l’inizio della fine della scoperta dell’infanzia l’icona che rilevo come epifenomeno della crisi. C’è di più e riguarda i saperi. Siamo passati in pochissimo tempo dall’epoca della penuria alfabetica, quella dove per imparare si doveva per forza andare a scuola, a quella dell’obesità cognitiva, quella cioè dove si impara dappertutto e in dosi massicce, ma nessuna cosa viene digerita. I nostri bambini sanno troppe cose, ma per nessuna hanno tempo per pensarci a fondo. Nella surmodernità, a cosa serve approfondire le cose? La scuola non è, appunto, una perdita di tempo?

In questo tempo pienissimo dei neo-bambini attuali, è sempre meno presente l’ozio attivo, la trasgressione volitiva, la creatività divergente, l’amore per i particolari, il desiderio, l’attesa. Oggetti che nel tempo pieno degli albori erano materie fondamentali e quotidiane.

Questo è il cuore vero della crisi della scuola: serva sciocca dei saperi superficiali che si prendono meglio fuori, marginale rispetto ai miti surmoderni che vogliono i bambini scattanti, vincenti, parolai, consumatori, venali. Se possibile, anche furbi. Sapienti e non saggi.

A cosa serviamo ormai noi della scuola? A riempire le pause tra uno spot/sport e l’altro? Dalla crisi alla speranza per una nuova scuola dei bambini.

Oggi tra tempo pieno e tempo modulare la differenza non è più data dal modello temporale, ma dalle persone in carne ed ossa che ci lavorano, sia insegnanti che genitori. Ho visto spesso tempi pieni che erano solo scuole tradizionali con due maestre. Almeno, però, i bambini andavano a casa mangiati e studiati. Pronti per stare con gli affari propri. Ma oggi la questione prioritaria non è solo quanto tempo, è la sua qualità intrinseca che interessa.

Questa nostra scuola elementare, che è tra le migliori in Europa, negli anni 90 è stata infatti devastata non dalla pluralità dei docenti (che anzi riduceva il rischio di insegnanti monodeliranti), e neppure da tanto o poco tempo, ma dalla surmodernità che ha indotto nelle maestre la fregola della quantità: di fotocopie, di progetti, di attività, di gite, di feste, di tabelloni, adesso di slides. Quindi, obesità fuori e obesità dentro la scuola. Conferma dell’inizio della fine dell’infanzia.

Questa nostra scuola elementare avrebbe invece bisogno di prendersi in carico (tutti noi adulti!) l’obesità e i tempi dei bambini per ricostruire un luogo di pace, di quiete, di disintossicazione.

Ecco una speranza per la scuola: diventare la koinè dei bambini. Ci sono segni in arrivo per questa speranza, non tutto è perduto. Sento in giro un bel po’ di nausea per questa vacua surmodernità.

Sono, ad esempio, sorpreso da un programma televisivo amatissimo dai bambini (e anche dagli adulti) dal nome Art Attack, dove Giovanni Muciaccia libera i bambini dai cellulari e dai computer, offre loro con un po’ di colla, cartoncino e spago la possibilità di pensare creando. Oggi Muciaccia ha fatto un missile con tubi di carta igienica e dentro dei cioccolatini. Sarà contento mister Bush?

Muciaccia si permette frasi rivoluzionarie. Si presenta ogni volta così: “Ciao bambini. Con questo programma ognuno di voi, anche chi non prende mai dieci e lode, può diventare un’artista”.

Ma guarda un po’: non la personalizzazione. Possono farlo tutti!

Sento genitori e insegnanti interessati ad una vita meno consumistica, più sobria, più profonda. Per esempio, seguo con simpatia quelle mamme che sbuffano perché a fine anno si devono sorbire feste orgiastiche a scuola, piene di bambine veline e di improbabili ballerini. Ho simpatia per quei genitori che dicono sempre no al secondo gelato. Amo quei genitori pudichi che non raccontano le proprie fisime ai figli, che parlano solo il giusto, che accettano anche i maglioni usati del cugino.
E amo quelle maestre solide che non si fanno sedurre dall’ultima Guida, che fanno la geometria con cartone e forbici, che seminano fagioli nei barattoli, che ai genitori non dicono “potrebbe fare di più”, ma “forse se facessimo insieme così”.

Che sanno aspettare, che insegnano ad aspettare, soprattutto i primi che così aiutano gli ultimi. Tutto questo dà ancora una speranza alla nostra scuola dei bambini e della bambine. Per un tempo pieno di vita.

Possiamo riparlare di tempo della scuola solo se definiamo assieme tutto il tempo dei bambini. Se la società tutta ripensa ai suoi tempi con i propri bambini. Il tempo (non) è denaro. E’ la vita di tutti. Quindi, la sfida è ridare tempo ai bambini, il loro tempo, in ogni momento della giornata e dell’anno. Scuola, tempo libero, vita familiare possono essere galere o paradisi. Dipende da noi.

Dipende da noi se ai bambini ridaremo la gioia di leggere Hukleberry Finn.
C’è un futuro per la scuola, pieno di vita. La scuola rimane, bene o male, una delle poche comunità sociali democratiche: ci stanno dentro tutti, convive la noia mescolata alla gioia. Sempre insieme.

Questa scuola è una rara opportunità da non perdere. Può salvare i bambini. E ha bisogno di tempo. Deve offrire ai bambini non solo più tempo, ma soprattutto tempo più lento. Ha bisogno del tempo dei bambini, non delle maestre, né delle società sportive, neppure quello delle mamme e dei papà.

Non c’è dubbio che tra tempo degli adulti e tempo dei bambini c’è ormai un abisso. Va accorciato.

Il lavoro obbliga gli adulti a stare fuori di casa. Ma cosa rimane ai bambini del loro spazio personale se sono trottole spostate di qua e di là secondo le frenesie della surmodernità?

Paradossalmente la scuola, con la sua lenta solidità, può essere più a misura di bambino che le sale fitness, i maestri di sci, le corifee del balletto in tutù. Non si può riempire questo tempo neppure di televisione o di guardianìa scolastica, e neppure di cooperative allupate di ore di controllo.

La scuola come luogo fisico e sociale dei bambini ha bisogno di tempo. Una scuola per la saggezza, più interessata all’ermeneutica che all’epistemologia. Diamogli tutto il tempo che serve, facciamo un patto con le famiglie perchè il tempo non sia speso a nevrotizzare, ma sia pieno di bambinità critica, sia cognitivamente rigoroso e affettivamente aperto. Soprattutto lasciamo all’autonomia delle scuole decidere il tempo e l’organizzazione. Non si invada l’autonomia con decreti che impongono rigidità, lo spezzettamento del tempo, le tante attività privatistiche. Si abbia invece fiducia nella scuola: pochi obiettivi nazionali uguali per tutti, risorse quelle giuste e poi libertà di organizzazione e di didattica.

Serve quindi una slow scuola. Perché dobbiamo volere il bene dei bambini. Dobbiamo.
Accenno appena qui al fatto che un tempo slow serve prima di tutto ai bambini che fanno fatica. E serve a quelli che ne fanno meno per diventare cittadini solidali.

La scuola rimane, che si voglia o meno, terreno dei patti umani tra genitori e insegnanti. Non della vittoria di uno sull’altro. Spero che la scuola possa essere una delle poche neo piazze concrete che aiutano gli adulti ad essere comunità educante, condividendo l’esperienza di educare facendola insieme, per prove ed errori, senza alcun modello organizzativo precostituito, ma con molta autonomia, che è prima di tutto responsabilità adulta. La vera libertà.Che non può che partire dal basso. E’ la sussidiarietà orizzontale la vera sfida di un futuro migliore. Per questo ho lavorato con passione al Regolamento dell’autonomia, la bella speranza.

Sono nato il giorno e l’anno in cui è morto John Dewey. Non mi monto la testa, ma la data mi aiuta a pensare che la scuola sia il luogo sociale per eccellenza.
Imparare e imparare a vivere sono due facce della stessa medaglia. La scuola è società, la società è scuola, volenti o no. Ce lo insegna Dewey e anche Gianni Rodari.
Il futuro dei bambini e dei giovani non è separabile in un angolo scolastico e in un altro sociale, è prima di tutto questione sociale e civile generale. Non c’è Davide (la scuola) e Golia (la società), ma due fratelli siamesi. La scuola autonoma è un nuovo ente locale che è educazione del territorio. Per me, ruolo sociale della scuola e ruolo educativo del territorio sono oggetto comune, insieme a faticare per dare diritti e felicità a tutti nel massimo possibile.

Insieme se ne esce, non alla scuola le tabelline, ai comuni il carnevale, alle cooperative la carità, ai bambini cattivi il Prozac. Salviamo il tempo della scuola dei bambini, che sia lungo e lento. Passa una volta sola.Come dice il Talmud “Il mondo esiste per il respiro dei bambini che vanno a scuola”.


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