Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo

Ricerca

 

CARO ONOREVOLE

 

Leggo del Suo interessamento a un caso umano e storico. Leggo di tante menti alte che offrono il fianco a una causa nobile e giusta. Anch’io sono tra quelli che stimano Adriano Sofri, tra coloro che ritengono egli debba tornare in seno alla società, pur non entrando nel merito della diatriba tra colpevolisti e innocentisti.

Penso che occorra avere rispetto per l’uomo detenuto, ma anche per chi ha emesso la sentenza, nonché per i parenti della vittima.

Non è mia intenzione polemizzare con Lei, né usare Sofri come un ariete per sfondare altre porte…chiuse.

Indipendentemente dalla strumentalizzazione che il caso Sofri alimenta per il suo passato di sinistra, per le utopie e gli errori di una "rivoluzione" annunciata, per gli slogan di poco peso al confronto delle vittime all’intorno, questa marmellata di parole e pronunciamenti, non è di oggi, né di ieri, ma dell’altro ieri, quando Lei e la Sua compagine eravate al Governo.

Eppure di quella "grazia" in verità mai richiesta, perché Sofri si dichiara innocente, poco o nulla s’è fatto, anche se molto se ne è parlato, proprio come adesso, che al Governo e in Parlamento c’è la destra.

Ma perché questo Governo dovrebbe accettare un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe risolvere un nodo storico che non le appartiene, e slegare una zavorra che la sua antitesi politica non ha voluto impegnarsi a sciogliere?

Di certo si potrà obiettare che impedimenti di ordine tecnico e giuridico hanno fatto si che tale argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato alla destra, senza alcun gioco di sponda né di buca, ma in maniera diretta e frontale.

Personalmente, dalla mia ridotta specola, in forza della mia simpatia per Lei, ritengo che nessuno abbia ragione da solo e nessuno si salvi da solo, occorreva ieri, e a maggior ragione occorre oggi più coraggio per ciò in cui si crede.

Caro Onorevole, vorrei dirLe che davvero gli uomini cambiano, colpevoli e innocenti, perché l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: ciò, nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura.

In questa condanna alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più prorogabile.

La vita, anche all’interno di una prigione, può riservare incontri con te stesso e con gli altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, i valori di un tempo si accasciano nei disvalori che sono sempre stati.

Allora l’uomo che convive con la propria pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del dramma, quel bagaglio personale maledetto come non è possibile immaginare.

Può un uomo redimersi? Potrà il crimine essere cancellato attraverso la pena espiata? E qual’è la pena che può rendere giustizia agli innocenti umiliati?

Sono domande che non consentono risposte certe, ma dieci, venti, trent’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, insieme agli altri.

Caro Onorevole, chi sbaglia e paga il suo debito con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico. Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma uomini nuovi che tentano di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, e quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riparazione.

Caro Onorevole, Lei ha parlato del caso Sofri, e ritengo che sia stato un atto coraggioso, oltre che giusto, non solo per l’uomo che tutt’ora si dichiara innocente, ma anche e soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta ed equa, una Giustizia che è anche perdono, come ebbe a sottolineare il Papa, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza.

Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate. Sono convinto che non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.

Mi chiedo se è possibile perdonare, nella difficoltà di affrontare la lettura evangelica del sentimento del perdono, per non parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.

Forse sarebbe il caso di trasformare e migliorare un contesto prisonizzante disumanizzato e disumanizzante, in un tempo che non estrania dalla propria identità, dal proprio valore di persona.

Se è vero che ognuno vive il suo presente in funzione delle scelte del passato, è anche più vero che rielaborando e rivisitandone gli anfratti, può accadere che il detenuto abbandoni la mera convinzione di avere pagato il conto, di avere pagato quanto dovuto.

Occorre riconoscere il bisogno di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità.

Caro Onorevole, in conclusione che dirLe ancora, se non che quando il carcere è allo stremo fino al punto di uccidere, forse c’è davvero bisogno di cambiarlo.

Proprio perché in carcere c’è necessità di vivere, e non di sopravvivere, per poter cambiare.

Se quanto detto ha una parvenza di verità, di credibilità, credo che allora occorra guardare alle centinaia di Sofri, ai loro silenzi assordanti, con il coraggio di scegliere fra tanti dubbi, un percorso significativo su cui giocarsi un pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e detenuta.

 

Vincenzo Andraous

Carcere di Pavia e tutor Comunità "Casa del Giovane"di Pavia

Febbraio 2002


La pagina
- Educazione&Scuola©