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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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DOVE MUORE LA CIVILTA’

 

Tante, troppe volte ho scritto, abbiamo scritto del e sul carcere, infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi e editti che sono rimasti lettera morta.

Grosse fette della Società, delle Istituzioni, dei Governi trapassati/attuali, hanno speso parole e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e di utopie tutte a venire: nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti, che l’orda barbarica, storicamente così definita dal carcere per i suoi abitanti, s’è tramutata in una colonna sgangherata di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure quella della strada.

Il popolo della galera non ha più generazioni da consegnare alla storia, quelle che in essa si sono imbattute, sono ormai annientate e hanno portato con sé la rabbia, il furore, la follia.

Oggi rimangono in quelle celle fila male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare.

Del carcere si parla per scatti, per ripicche, per reazione, per un’Erika, per un Piatti, per un nero o per un giallo, per un ladro e per un assassino, se ne parla per non parlarne più, per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, se ne parla per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in cui il messaggio trasmesso, potente e annichilente, impedisce di intervenire.

Il detenuto non è un numero, né un oggetto ingombrante…..lo dice il messaggio cristiano, dapprima, e quello di umanità ritrovata poi, e invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità.

E’ proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben definito.

Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati all’indietro.

Carcere duro, carcere hotel, sottonumero di organici, corpi speciali e corpi adagiati stancamente su piedistalli di carta.

Lamenti e grida, sostituiscono le devastazioni, i massacri e il delirio di onnipotenza di ieri, fino a formare l’ossatura del carcere odierno, composto per lo più da una grammatura incontabile di commiserazione, che neppure intende sottrarsi alla sepoltura di ogni dignità calpestata.

Eppure, nonostante le fratture, le lacerazioni, le assenze eterne siano le fondamenta su cui poggiano le ultime speranze, è palese il tentativo di una involuzione pilotata al passato, che incoraggia al presente ideologie senza alcun Dio, se non quello della forza.

Nei decenni trascorsi tra sbarre e filo spinato, ho avuto netta l’impressione che incapacitare fosse l’unica risposta da parte di una Società e quindi uno Stato di porsi a mezzo al dilagare della violenza. Sebbene tremendo nel suo effetto il contenuto, non sorprende in quegli anni di rivolte e di ribellioni, l’intendimento di spersonalizzare e annullare l’identità del detenuto.

Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione.

A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate.

A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra.

Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è.

O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una realtà che non c’è.

E’ vero, il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare.

Rieducare, risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l’inadeguatezza al dettato Costituzionale, tanto che nell’impossibilità di rendere fattivo l’intervento rieducativo, è assai più facile trincerarsi dietro i soliti scontati "motivi di sicurezza".

Ma non usare gli strumenti trattamentali e di contro incancrenendo la convivenza, ciò equivale a dichiarare fallito l’ideale più nobile, quello della promozione umana.

Allora, sorprendersi se la funzione della pena è latitante, se la recidiva è galoppante, se le menzogne superano di gran lunga la trama di un film, è pura disonestà intellettuale.

A chi parla di privilegi, di lussi impropri, basterebbe davvero osservare volti e mani di detenuti in qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbruttimento raggiunto, di quanto questa situazione di indifferenza e solitudine imposte, di mancata applicazione di quella famosa parola a nome rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta.

Non so di quale carcere si parli, ma so di un carcere che non ha più al suo interno spinta a rinnovarsi, so di un carcere popolato di uomini vestiti non tanto e solo di rabbia o odio, ma di paura e stanchezza.

Uomini che se non aiutati a migliorare, rimangono al palo, con la sola aspettativa di scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza alcuna consapevolezza del presente, senza vista prospettica, senza figura del futuro, in una sola parola senza speranza.

Chi conosce poco del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui sfugge il senso di questo arbitrio.

Forse qualcuno pensa che inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione, comporti la fatica minore, perché così facendo egli sconta la propria condanna senza rompere le scatole a nessuno.

Ma questo agire è nuovamente un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l’esatto contrario: quel detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a un passato riprodotto e mascherato, a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se delirare fosse identico a sperare.

Rieducare ha costi elevati, comporta cadute e inciampi, ma per evitare il proliferare della criminalità, è la sola strada maestra da seguire, il resto è per davvero illusione.

Inoltre, a ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin’anche del detenuto…Ma forse è proprio questo che si vuole cancellare.

Un carcere ridondante di criminali irrecuperabili?

Ho l’impressione che il carcere italiano possa essere definito un involucro chiuso agli uomini, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista. Tutto è buonista nei riguardi del carcere, a tal punto che l’inumanità oramai è un effetto meccanico di un contesto standardizzato, e allora perché scandalizzarsi, rischiando anche di essere annoverati nel movimento dei caritatevoli, o peggio dei sostenitori del male.

Guardare da un’altra parte, quando in carcere ci sono tasselli di vita mancanti alla nostra?

L’esperienza mi insegna che coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. Ma perché ciò possa diventare terreno fertile per costruire insieme un carcere a misura di uomo, occorre parlare dei problemi veri, affinché una Società e una Giustizia equa, possano davvero sperimentare ciò che è lecito da ciò che non lo è.

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e tutor educatore Comunità Casa del Giovane Pavia


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