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GIUSTIZIA E PERDONO

 

Il Papa nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace ci ha detto: "Non c’è Pace senza Giustizia, non c’è Giustizia senza Perdono".

Leggendo quelle righe, pesanti come la storia che ci portiamo addosso, nasce la spinta a ripensare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che vorremo finalmente essere.

Il Papa ha parlato alle genti, agli Stati, affinché le guerre abbiano a scomparire, e alle persone sia dato tempo e possibilità di vivere e confrontarsi, senza per questo dover scavare a forza la propria fossa.

In quelle note c’è il non senso di governi e politiche fondate sul rancore, sull’odio, sulla vendetta, su quei sentimenti che non consentono giustizie sociali né pace per alcuno, perché è vero: la violenza regna dove l’ingiustizia ingrassa.

Il Papa ha parlato per coloro che hanno voltato le spalle alla propria umanità, per chi ha dipinto la propria assenza-sconfitta nelle ferite inferte.

Ha parlato anche per chi pensa che al male si risponde con altro male, nell’illusoria convinzione di risolvere i drammi individuali e le tragedie collettive.

Non è facile capire questo mondo continuamente in rotta di collisione, non è facile conoscere fino in fondo la sofferenza dell’anima, non è facile ascoltare le parole del Papa se non con il cuore aperto.

Giustizia e Perdono.

Personalmente, ho molto di cui non essere fiero, sono sicuro di dovere assai a chi mi è vicino, come a chi in assenza eterna è divenuto una presenza costante.

Senza queste consapevolezze, ho creduto di sopravvivere a me stesso, in un carcere, in una cella scambiata per un tempio, dove gli occhi non vedevano, le orecchie non sentivano né ascoltavano, mentre il corpo restava inerte.

Nelle stagioni chiuse è scomparsa la ragione, tramortita la fede, persino l’ultima volontà di un perdono.

Il Papa ha detto: "Non c’è Giustizia senza Perdono".

Per quanto mi riguarda, conosco il sentire comune del "chi sbaglia paga", è in questa affermazione, più dura di ogni sentenza, che si spiega la difficoltà a coniugare una giusta e doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima di un reato, a una possibilità concreta di riscatto e riparazione in chi ha offeso l’altro.

Spesso mi sono chiesto se è possibile perdonare. Se è consentito all’uomo elevare la propria umanità. La risposta è stata sì. Ho ricordato alcuni uomini che con la morte nel cuore, accanto ai corpi senza vita dei loro cari sono stati capaci di alzare gli occhi al cielo, sussurrando lacrime di perdono per l’altro che ha causato tanto dolore.

E’ davvero difficile affrontare una lettura evangelica del sentimento del perdono, per chi ha sbagliato, come per chi ha ricevuto l’offesa, infatti la risposta attuale ad ogni perdita sta nel solo carcere, nella sola pena inflitta, e sono passaggi che appartengono al potere giudiziario, legislativo, esecutivo, mentre forse occorrerebbe ritornare a quel riferimento che più conosciamo, a quel riferimento che si chiama persona.

Alla luce dei miei inciampi, della mia irresponsabilità di ieri, mi accorgo che la richiesta intima del perdono è atto che riguarda la persona. Nessuno si salva, se non sa perdonarsi, se non trova nell’altro gesti e parole d’amore.

Pagare il proprio debito alla società non può significare la creazione di una nuova dimensione di violenza, in una pena distruttiva e immutabile.

Un contesto disumanizzato e disumanizzante, come quello del carcere, toglie all’uomo la speranza, non solo privandolo della libertà, ma estraniandolo dalla propria dignità.

Privare la persona della possibilità di rendersi conto dei propri errori, significa non consentirle di fare i conti con il peso delle proprie colpe, con le lacerazioni che hanno prodotto la rottura del vivere civile.

Quanto è difficile chiedere perdono in queste condizioni? E quanto essere perdonati? Ciascuno vive il suo presente in funzione delle scelte fatte nel passato, non per un sottile gioco delle maschere, ma perché le azioni del cuore se non condivise non consentono di essere scelte.

Allora ricostruirsi sottende capacità e forza per riparare al male fatto, richiama l’altro-gli altri ad accorciare le distanze, affinché conoscere comporti la scelta più giusta, ove l’uomo della condanna, l’uomo del reato, non è l’uomo della pena, l’uomo che chiede perdono non con le parole, non con i megafoni, nè con la pietistica abbinata alle più alte celebrazioni religiose, bensì nei silenzi che divengono assordanti, nei gesti ripetuti, nei comportamenti quotidiani.

Rimangono le responsabilità e gli abissi dell’anima, nulla è cancellato, niente è dimenticato, ma sentire dentro il bisogno di perdonarsi, di avere pietà di se stessi, indica la via maestra per l’altro bisogno: essere perdonati per ciò che si è nel presente, nella consapevolezza degli errori disegnati a ogni passo in avanti, condividendo quel bene comune che è intorno a noi.

Perdonarsi e chiedere perdono è voce che parla al cuore con note forti, per tentare di tramutare l’ansia e il dolore delle vittime in una riconciliazione che sia cambiamento fruibile per la collettività tutta.

Penso che una vendetta che ripara teatralmente non produca nulla di positivo, e neppure un carcere che mantenga inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato.

La richiesta di perdono che cammina lentamente ma fortemente oltre il muro di un carcere, è una preghiera che non ha necessità di parole, ma di atti vissuti giorno dopo giorno, per andare incontro all’altro, e a se stessi rinnovati.

L’umanità, quando è ferita, richiede maggiore severità nelle pene da espiare, mentre la persona detenuta sconta la propria pena convincendosi di aver pareggiato il conto, di aver pagato quanto dovuto. Invece, riconoscere il bisogno di perdonarsi e perdonare, sottolinea l’urgenza di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e reciprocità, nell’accettazione di una possibile trasformazione e di un fattivo cambiamento di mentalità.

La difficoltà di una lettura evangelica in un carcere è tutta nella contraddizione che scaturisce dalla persistente stigmatizzazione e disattenzione, che circondano l’uomo in colpa e chi il male l’ha subito.

In questa condizione, quel sentimento di gratuità-amore-perdono, che può essere solo donato e perciò privo di parentele con qualsiasi aspettativa speculativa, cozza con l’indurimento prodotto da una stasi subculturale, che pone le persone davanti al rischio di una infantilizzazione neanche troppo velata.

Il Papa ha parlato di Perdono e di Giustizia, ciò può e deve essere, se ognuno di noi diviene un entronauta, un viaggiatore contempl-attivo, persino in un carcere, in una pena finalmente accettata e vivibile.

A ben pensarci, perdonare è un dono che ha origini divine, per questo non viene colto dalla nostra memoria corta: c’è un carico di domande legittime e di risposte distanti, tant’è che chiedere perdono, a volte, non è più facile che concederlo, e ancor più appare incomprensibile quel comando di amore "settanta volte sette".

E’ così distante quel verbo nella nostra umanità lacerata……..Eppure non può esistere umana vita senza la speranza di una vita migliore, e la speranza è, sì, scienza del non ancora, ma essa avverrà con l’impegno di tutti: colpevoli e innocenti.

Ecco cosa il Papa ha detto a me.

 

Vincenzo Andraous

Carcere di Pavia e tutor Comunità "Casa del Giovane" di Pavia

Natale 2001


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