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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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UNA FUNE SULL’ABISSO

Inutile  nasconderlo, la prigione non riesce a piegarsi a nessuno scopo sociale condivisibile, essa sequestra i bisogni-desideri, e stabilisce quando questi debbono essere soddisfatti, persino decidendo quando e dove sarà  possibile realizzarli.

E’ in questa dinamica che  la mente finisce in un anfratto remoto, in un angolo dove non è più possibile vedere niente.

Penso che fino a quando  non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa non dimensione spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. E’ una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere  vita nè speranza, non rammentando che l’uomo privato della speranza è un uomo già morto.

Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente  e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro, e allora riconoscere i propri errori è un’impresa ardua.

Le analisi sistematiche a questo punto servono  poco, per rendere più umano l’inumano: dalla mia ridotta specola sono più propenso a credere che occorre  convincersi  dal di  dentro, della  possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volersi un po’ bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica.

Finchè i ragionamenti saranno  un’estensione degli atteggiamenti negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno  in eventi negativi.

Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo, ma chi vive in quest’agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà solamente comprendendo che l’intorno non parla, perché noi non parliamo, e peggio non siamo capaci di  aprirci.

Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi sono sempre mancati, e finchè noi continueremo a pensare di sopravvivere senza il bisogno dell’altro, nel lungo tempo ci  ritornerà questo annichilimento con la stessa intensità e precisione.

Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi nella mente, l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà con un fatto concreto.

Ecco perché sono dell’idea che finchè il carcere, ma meglio dire tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente con il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si predisporrà ad aiutare chi è nell’errore a ritenersi capace di essere in costante e continuo miglioramento, ebbene, questa indifferenza e questo disinteresse collettivo  continuerà a seppellire quei “dettagli” che invece servono  per migliorarci tutti.

 


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