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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Aspettando Danilo

 
 


Non è il piacere
o il dolore
che ti detta quello che devi fare
devi vedere quanto è necessario nella società

e poi
 non importa
 se tu lasci la vita


Danilo Dolci

 
 


 

" la cittànuova inizia * dove * un * bambino * impara * costruire

 * provando * rimpastare * sabbia e sogni * inarrivabili"

TUTTI SAPPIAMO ....come  è necessaria una scuola nuova.

 Si potrebbe far crescere con le idee della gente, o senza le le idee della gente. 

Siamo qui per domandarci quali sarebbero i consigli per questa scuola, come sognate una scuola per i bambini vostri, come la vorreste... ».  

Le mamme, dapprima timide e disorientate, prendono via via coraggio a parlare, raramente interrotte da una domanda, dall'invito a precisare un concetto, da una sottolineatura.

Il  Socrate che coordina il dialogo, lo pungola, lo alimenta discretamente di stimoli , non è il furbo stratega che guida i suoi Fedoni e Fedri e Critoni per una strada nota a lui solo, perché arrivino dove vuole lui: ha in mente una meta, la creazione di un nuovo centro educativo, ma non vuole  precisarla senza il contributo « della gente »; ha esperienza e cultura, ma sa ripartire alla pari con l'interlocutore più semplice, primo perché rispetta la sua esperienza e la cultura (magari analfabeta) di cui lo sa portatore, secondo perché pensa che la nuova istituzione avrà fondamenta più profonde se crescerà « con la gente » e farà crescere tutti coloro che ci lavoreranno.

Quello che gli interessa fondamentalmente è sempre un « discorso sul metodo ». Così è stato per la diga sullo Jato. Così dev'essere per la scuola nuova. Perciò comincia col far parlare le mamme, i padri, i bambini, i ragazzi, ai quali domanda - «Se dovessimo costruire una casa tutta per voi, come la vorreste? » - e  dice « casa » non « scuola », rompendo col vocabolario della tradizione, perché non vuol che i ragazzi parlino da « scolari », ma da ragazzi: che prescindano totalmente dai modelli che conoscono, che partano da zero, anche loro. O piuttosto non da zero, ma da  sé stessi: dalle loro esigenze e dalle loro fantasie, dalla loro capacità  di  reinventare il mondo. .....

da

 «Chissà se i pesci piangono» da " L'ORA" del 6 luglio 1973 di Gianni Rodari

 

 

 

 

 

PARE UNA STORIA INVENTATA, MA...


Un giorno, era il mese di Gennaio, da una città molto lontana arrivò un uomo, aveva pochi soldi in tasca ma possedeva una gran voglia di aiutare gli altri, soprattutto i poveri e i bambini.
Girava per le strade e si accorgeva che molta gente viveva in grande povertà e tanti bambini rischiavano di morire di fame.
Trascorreva le sue giornate a discutere con i contadini e i pescatori, a parlare con le donne e i bambini e a cercare insieme a loro come risolvere i problemi cercando soluzioni per migliorare le condizioni di vita.

La maggior parte delle persone lavorava in campagna, ma non guadagnava molto poiché la terra non produceva quasi niente a causa della mancanza d'acqua. Vero era che pioveva abbastanza d'inverno ma tutta quell'acqua andava a finire a mare. Era uno spreco enorme, quell'acqua d'estate, sarebbe stata una grazia di Dio per le campagne. Un giorno, parlando con un gruppo di contadini, uno di loro disse che per risolvere il problema sarebbe stato necessario un enorme, immenso bacile capace di raccogliere l'acqua piovana per poi utilizzarla d'estate per irrigare le campagne.

 Quell'uomo venuto da lontano, il cui nome era Danilo, capì che quella era una grande idea, raccogliere l'acqua piovana d'inverno e utilizzarla d'estate. La terra, con l'acqua, avrebbe dato ai contadini tanti prodotti: pomodoro, melanzane, verdura, frutta, avrebbe migliorato la loro vita, la vita di tutti quanti. Danilo cominciò a darsi da fare, incontrava ogni giorno i contadini per discutere dell'idea del "bacile" cioè di una grande diga che raccogliesse le acque.

Incontrò tantissimi uomini importanti, uomini che comandavano, che potevano decidere, che potevano trovare i soldi per costruire la diga. Ma non fu facile convincerli. Danilo e i contadini dovettero lottare. Danilo fece anche dei digiuni, scioperi della fame che durarono dei giorni. I giornali e le televisioni di tutto il mondo parlarono di lui e dei suoi amici contadini. Andò a finire in carcere per le sue lotte, ma alla fine la diga fu costruita. Grandissima, immensa, sembrava un mare, i contadini poterono cominciare ad irrigare le loro terre e se oggi è possibile irrigare ettari ed ettari di terreni che con le loro produzioni hanno migliorato le nostre condizioni di vita, lo dobbiamo a lui. Danilo era instancabile, non si fermò alla diga, cominciò a pensare e a riflettere, parlava spesso con i bambini, per loro aveva aperto un centro e dialogando con loro cominciò a nascere l'idea di costruire una scuola, una scuola diversa dalle altre.

I bambini dissero che sarebbe stato bello avere una scuola in mezzo alla natura, con una montagna vicino. Da quella scuola si doveva poter vedere il mare, che i bambini amano molto, e se vicino ci fosse stato un ruscello sarebbe stato meraviglioso. Danilo si mise subito alla ricerca del posto. Quando lo trovò cominciò a scrivere e a telefonare ai tanti suoi amici sparsi nel mondo i quali cominciarono a raccogliere dei fondi. Il terreno fu subito comprato e la scuola costruita. I bambini furono felici di avere una scuola dove era possibile durante tutto l'anno stare a contatto con la natura, gli alberi, i fiori, gli animali, la montagna, il piccolo fiume. Non fu tutto facile, per raggiungere la scuola c'era una stradina piena di sassi, stretta, pericolosa che arrivava ad un vecchio mulino ed un ponticello pericolante.

Danilo fece altri scioperi, altre proteste e digiuni per far costruire una strada nuova, grande, sicura dove gli scuolabus con i bambini potessero percorrerla e raggiungere la scuola senza problemi. Il ponte era malridotto, far passare lo scuolabus con i bambini era un grande rischio. Oggi finalmente il nuovo ponte è stato costruito e i bambini possono recarsi nella loro bellissima scuola in tutta tranquillità. Purtroppo questo grande uomo non c'è più. Ma la diga e la scuola Mirto sono rimaste ed è come se lui continuasse a vivere insieme a noi e a tutti quelli che verranno dopo di noi. Da oggi questa scuola si chiamerà Danilo Dolci-Mirto affinché il suo nome non venga mai dimenticato.

Gli alunni delle classi quinte e i loro insegnanti  Anno scolastico 2000-01  Video realizzato da alunni e  insegnanti delle classi 5° di Mirto
Pare una storia inventata.
Sembra quasi una parabola.
Invece è una storia vera.
 
 
 
 
 la cittànuova * inizia *
dove * un * bambino * impara 
* costruire * provando * rimpastare 
* sabbia e sogni * inarrivabili
 

 


 






Tre testimoni

.....
http://www.adistaonline.it/numeri/adista00/adista78.htm#t1

Il terzo uomo che voglio ricordare visse tra noi senza essere siciliano: Danilo Dolci. Arrivò in Sicilia nel 1952 spintovi da una grande passione sociale per la povera gente e da una forte vocazione pedagogica. Venne a chiamare per nome e dare voce ai poveri che vivevano nel degrado e nell'arretratezza culturale e civile. Cominciò con i poveri, con la fame e le malattie dei poveri. Lo racconta egli stesso il 24 marzo del 1956 nel pretorio di Palermo in cui era stato condotto: "Un giorno del novembre scorso [1955], vicino a casa nostra nel quartiere Spine Sante di Partinico, morì una bambina di cinque mesi - che pesava due chili e duecento grammi - buttando fuori tutte le budella. Morì perché la famiglia non aveva potuto assisterla, e non era stata ricoverata in tempo' Questo non è un episodio. A Partinico casi simili succedono spesso".
Danilo Dolci organizzava i poveri, li metteva insieme e li faceva discutere - alla maniera di Socrate - svolgendo con loro una vera opera di coscientizzazione. Pescatori, contadini e anche i giovani della piccola borghesia rurale imparavano a condividere esperienze e manifestare pubblicamente il proprio pensiero. Quella di Danilo Dolci è stata una esperienza di alto valore culturale e civile che la storia siciliana non dovrebbe dimenticare. Lo so che Danilo Dolci è una figura controversa. Ma non avesse altri meriti e qualità, la sua dedizione alla causa dei poveri non solo riscatta eventuali sue contraddizioni ma gli assegna un posto di primaria grandezza. Non c'è dubbio che i poveri sono stati il motivo della sua emarginazione. E che per questo motivo pagò prezzi notevoli.
Ho ricordato queste tre figure perché se pure diversi tra loro sono anche uguali. Tutti e tre hanno pagato di persona la loro dedizione ai poveri. Lorenzo Milani conobbe l'isolamento istituzionale (e anche fisico) inflittogli da un'autorità ecclesiastica incapace di alzarsi alle vette sulle quali abitava il priore di Barbiana. Danilo Dolci conobbe il carcere e il processo nonché lo scherno degli uomini delle istituzioni, della politica e della Chiesa: particolarmente sprovveduto quello dell'arcivescovo Ruffini. (...). È una regola costante: il potere, laico o ecclesiastico non fa differenza, colpisce sempre quando vengono sollevate questioni vive e concrete'.

 

 

Erich Fromm su Danilo Dolci


{da "Conversazioni con Danilo Dolci", G. Spagnoletti, Mondadori - 1977}


Che funzione ha Dolci per la società attuale e futura?
Dà la dimostrazione che l'uomo non ha solo capacità lavorative ma sente anche l'impulso di operare, di essere attivo e creativo senza sottostare ad alcuna organizzazione burocratica, con risultati che sono di gran lunga superiori a quelli ottenuti dall'uomo alienato e sottomesso. Danilo indica la via che conduce all'individuazione delle energie creative che portiamo in noi tutti - specialmente i bambini rinunciando ad ogni forma di persuasione, ma piuttosto stimolando e sviluppando l'interesse nell'individuo, che è un aspetto dell'amore. Tuttavia, per vivere in questa maniera si deve esercitare il senso critico e, come dice Mastro Eckhart, non bisogna ingannare gli altri ma nemmeno essere ingannati. Dolci pensa che sia possibile ciò che la maggior parte della gente ritiene impossibile è lo dimostra non tanto a parole ma attraverso le azioni nella vita quotidiana.
Se la maggioranza degli individui nel mondo occidentale non fosse così cieca davanti alla vera grandezza, Dolci sarebbe ancora più noto di quello che è. È incoraggiante tuttavia il fatto che già molti sono coloro che lo capiscono: sono le persone per le quali la sua esistenza e il successo della sua opera alimentano la speranza nella sopravvivenza dell'uomo.

http://www.traccefresche.info/monografie/fromm_dolci.html

 

2 FEBBRAIO 1956   - Fa molto scalpore l'arresto dello scrittore DANILO DOLCI.

Volendo mettere in risalto le carenti condizioni economiche in cui versa il Sud con la sua grave disoccupazione che impedisce di camminare come le altre regioni del nord, vuole, se di carenza industriale il sud soffre, che gli sia data almeno la possibilità di operare su quello che ha: la terra. Lo scrittore si era quindi messo personalmente a dissodare con alcuni braccianti le terre incolte. I proprietari latifondisti chiamata la forza pubblica;  dopo alcuni incidenti e scontri, Dolci venne poi con altre 19 persone arrestato come agitatore politico, processato e condannato per direttissima. Molti intellettuali italiani gli dimostrarono tanta solidarietà ma non abbastanza per modificare  il "sistema" e il tipo di repressione che il sistema adottava.  da  www.cronologia.it

 ***
Lo Stato che tortura

Testimonianze raccolte da Danilo Dolci


I banditi di Giuliano confessano nelle caserme, per poi ritrattare o contraddirsi davanti ai magistrati. È il canovaccio che affiora a Viterbo, e che viene preso a pretesto per negare ogni attendibilità alle accuse e alle chiamate di correo quando il bersaglio è sotto copertura. Ed eccettuando il calcolo minuto, di mezzo sta la tortura, che viene praticata regolarmente nelle caserme siciliane. È questo uno dei profili meno considerati della vicenda: quello delle confessioni estorte con la "cassetta", sovente dal famigerato don Pasquale, sottufficiale dei carabinieri, su cui pure Giuliano spende qualche parola.

Si tratta in realtà di metodi noti e tollerati, che sono transitati pari pari dal fascismo alla Repubblica. E poco dopo la parabola di Giuliano, nel '56, è Danilo Dolci, animatore di battaglie civili in quella parte dell'isola, a darne conto nel libro Processo all'articolo 4, con la trascrizione di decine di testimonianze di uomini, donne, ragazzini, nei cui confronti la giustizia ha assunto una figura torva. Se ne riporta una.

C. Ruta



La prima volta fui arrestato nell'agosto del '44 e portato alla Questura di P. Per interrogarmi mi fecero trovare preparata la cassetta che consiste in due casse di legno, messe una sull'altra, della lunghezza di circa un metro. Alla parte dove ci vanno i piedi, ci sono due anelli di ferro per legare i piedi. Le gambe sono stese sul piano della cassa superiore. Dopo i piedi legati, mi legarono le mani di dietro e una cinta di cuoio, che è al centro della cassetta, ma la passavano sopra le cosce, per così tenermi fermo. La corda che era legata alle mani la passavano in un anello di ferro piantato nella cassetta, rasente a terra. Mi applicavano la maschera antigas col tubo svitato, e mi rovesciavano all'indietro tirando la corda legata alle mani. E incominciava la tortura cioè uno sbirro tirava la corda per farmi tenere rovesciato all'indietro. Un altro sbirro con una latta grande piena di acqua e sale (e una mastella piena la tenevano vicina preparata per riempire continuamente la latta) ad-detto a buttare acqua e sale nel tubo della maschera.

Il maresciallo M., messo all'impiedi sulla cassetta, con una frusta piatta, un poco più stretta di due dita, mazziava nei piedi, e un altro sbirro che di tanto in tanto mi torcigliava i testicoli con le mani. Li pigliava con la mano e per farmi provare più dolore attorcigliava forte, ma siccome ero quasi soffocato dalla maschera che mi pareva una salvezza il poter morire quasi, il dolore ai testicoli e ai piedi lo sentivo di meno.

Essi calcolavano il tempo e quando uno arrivava proprio all'estremità, lo sollevavano. Mi domandavano se ero deciso a parlare, e alla risposta negativa, mi rovesciavano di nuovo e rifacevano da capo le stesse cose.

Con l'acqua e sale che mi gettavano nella maschera, io non potendo respirare, inghiottivo acqua. Quando si calcolavano che uno aveva lo stomaco pieno d'acqua, mi slegavano dalla cassetta e uno sbirro mi comprimeva le mani nella pancia per farmi rigettare tutta l'acqua inghiottita.

Non c'era pericolo che un vicino della caserma sentisse grida, perché erano soffocate dalla maschera piena d'acqua. Questo posto dove mi torturavano era vicino a S. Mi tiravano su e giù per quattro o cinque volte. Dopo, quando vedevano che ero ridotto all'estremità, mi slegavano, mi facevano svuotare l'acqua dallo stomaco, due sbirri mi prendevano a braccio, perché l'articolazione era aggranchita, paralizzata, e mi facevano girare nella stessa stanzetta. In fondo alla cassetta dove si appoggiava la schiena, mettevano una coperta in modo che non rimanes-sero segni dal movimento che facevo per divincolarmi, soffocato, terrorizzato com'ero: è l'istinto della salvezza.

Mi facevano girare nella stanzetta fin che potevo reggermi in piedi. Poi mi facevano vestire e mi por-tavano in camera di sicurezza.

Questa vita fu, a P., per sedici giorni continui. Poi mi portarono al carcere denunziato. Aggiungo che negli ultimi giorni avevo i piedi tanto gonfi che le scarpe non mi potevano più entrare nei piedi: mi portarono allora da questa casermetta dove facevano torture alla caserma dove dormivo, con una carrozza di piazza. In particolare il maresciallo M., perché non volevo confessare un delitto che non avevo commesso (e che poi fu pure accertato non a mio carico dai giudici), per sfregio, mi hanno acceso due cerini di cera nei piedi.

Fui arrestato ancora nel '47 e fui portato a P. in Corso. Arrivai circa alle undici di notte. Appena arrivato, senza neanche interrogarmi con le buone, mi prepararono la cassetta che era uguale all'altra di P., però qui non davano frustate ai piedi. Ma torcevano i testicoli e tutte le stesse sevizie facevano, come là. Ed il mio interrogatorio cominciò sulla cassetta: mi interrogavano di parecchi delitti che non avevano potuto trovare gli autori e insistevano, seviziandomi, per farmeli confessare a me, senza guardare se potevo essere colpevole o no.

Pur essendo innocente di tanti delitti, se avessi sa-puto rispondere una cosa qualsiasi, basta che mi avessero levato da quelle torture, avrei confessato qualsiasi cosa, che fui io che avevo ucciso Dio, che avevo incendiato Roma e tutto quello che avrebbero voluto.

Difatti tante e tante persone si sono confessate ree di delitti che non avevano mai commesso, solo per levarsi da quelle torture. E difatti sono stati riconosciuti, dopo quattro o cinque anni di processura, innocenti dalla Magistratura.

Ripiglio dove ero rimasto: alle torture. Dopo circa un'ora, un'ora e mezzo di torture mi slegarono, mi fecero muovere a braccio di due sbirri e poi invece di mettermi in camera di sicurezza, che si preoccupavano che sa m'avrei autolesionato (insomma che uno si sbatte la testa al muro, o che capita un chiodo per sfrangiarsi o un pezzo di vetro) mi legarono in una branda col telo. Mi legarono ai ferri, mani e piedi. E mi facevano andare ogni ventiquattr'ore al gabinetto e poi mi slegavano solamente, alle dieci di sera, per mettermi nuovamente alla cassetta. Questo durò per ventidue giorni escluso due sere che erano indaffarati per i fatti di Portella delle Ginestre.
da
http://www.accadeinsicilia.net/Dolci-Torture-di-Stato.htm


***

 

IDEE E VALORI TOLSTOIANI NELL’IMPEGNO CIVILE E PEDAGOGICO DI DANILO DOLCI*

 

Interrogarsi sul valore dell’opera e della vita di Danilo Dolci significa ripercorrere a filo della memoria tappe del nostro recente passato,

momenti cruciali del nostro esistere come società civile; agitatore (nel senso più nobile del termine) di problemi e di coscienze, Dolci ha testimoniato,

attraverso la resistenza nonviolenta all’ingiustizia e al sopruso, un modo nuovo, almeno per l’Italia, di affrontare le emergenze più gravi

dando voce a chi non l’aveva mai avuta e sfidando i centri occulti del potere mafioso come mai nessuno aveva osato fare

.

Al di là degli esiti, pur rimarchevoli, di tante battaglie civili, Dolci ha significato molto per la Sicilia, sua terra d’elezione, sul piano ideale, per aver indicato come possibile il riscatto morale di un popolo su cui per troppo tempo hanno pesato da un lato le vessazioni mafiose, dall’altro l’abbandono dello Stato. Capace di progettare il futuro sulla base di un’attenta analisi della situazione presente, Dolci ha saputo coniugare fantasia e realismo, non limitandosi ad osservare il mondo, ma cercando di cambiarlo; ecco perché non è possibile scindere lo studioso dal riformatore sociale, il sociologo e l’educatore dall’appassionato utopista[1]. Un uomo, dunque, che sa leggere il presente per proiettare sul futuro la propria idea di progresso civile, di giustizia, di umanità; in questo senso il paragone istituito da Lucio Villari tra Dolci e Pierre Bezuchov, l’alter ego tolstoiano in Guerra e pace, dà concretezza di immagine alla profonda affinità spirituale che consente di ritrovare in un uomo in carne ed ossa tratti di un personaggio indimenticabile e vivo nella coscienza di chi ne ha amato la ricerca appassionata ed umanissima del significato di vivere[2].

Tolstoiano, Dolci lo è stato certamente, nell’impegno sociale così come nei progetti pedagogici; eppure, al di là di questi stessi aspetti, pur importantissimi, la lezione di Tolstoj rivive in Dolci soprattutto come fede nell’uomo, nella sua possibilità di perfezionamento morale[3], nella sua capacità di impostare i rapporti coi propri simili e col mondo su basi nuove, nonviolente, che siano di effettiva promozione: un’utopia forse, ma necessaria per vivere, almeno per un uomo come Dolci.

 

Senza un vivo rapporto coi principi, senza tensione a fini e ideali sufficientemente vasti, i nostri interessi appassiscono, si rinchiudono, e tutta la nostra vita immiserisce. E tanto necessario per gli uomini è avere tesi i propri interessi che, se non ne hanno, ne inventano dei surrogati [...]. Molte indicazioni, molti principi fondamentali sono stati chiariti finora dalla ricerca e dall’esperienza dell’umanità: ma spesso non sono stati rapportati organicamente, dosati giustamente, stanno ammucchiati in noi confusamente e spesso un aspetto è stato preso per il tutto[4].

 

La ricerca scientifica, l’analisi attenta della realtà diventano, nel pensiero di Dolci, fasi propedeutiche al concreto impegno sociale, momento qualificante di un’azione che non deve isolarsi ma vivere e nutrirsi degli ideali comuni del gruppo nel cui ambito si opera. Tolstoj, riconosciuto da Dolci tra i propri maestri spirituali[5], aveva invece sempre agito da isolato (retaggio forse di una visione romantica ed individualistica del ruolo dell’intellettuale), combattendo le proprie battaglie civili con ardore, esponendosi generosamente in prima persona agli attacchi del potere, ma concedendo sempre scarso credito agli stessi movimenti d’opinione nati dall’adesione spontanea di uomini e donne alle sue idee.

Al di là comunque della diversa tattica adottata nei metodi di conduzione della lotta, gli ideali, i traguardi, le finalità sono le stesse: identica, in Tolstoj e in Dolci, l’indignazione per la sorte della parte più debole della società, identica la convinzione che ogni possibile riscatto debba passare attraverso il rinnovamento profondo dei metodi dell’educazione popolare, identico, infine, il carattere nonviolento di ogni iniziativa intrapresa. E se Tolstoj aveva respinto con fermezza i metodi di lotta dei rivoluzionari, Dolci, certo in un contesto storico e sociale molto diverso, chiarisce a sé e a noi il suo concetto di rivoluzione attraverso il rigore e la limpidezza dei versi: «Rivoluzione/è distinguere il buono/già vivente, sapendolo godere/sani, senza rimorsi,/amore, riconoscersi con gioia./Rivoluzione è curare il curabile/profondamente e presto,/è rendere ciascuno responsabile/coscientemente ed effettivamente,/non credendo che solo la violenza/possa cambiare»[6]; parole, queste, che Tolstoj avrebbe potuto far proprie e nelle quali si legge la convinzione profonda che la rivoluzione più radicale e sconvolgente è quella che, avvenendo nella coscienza di ogni uomo, muta le prospettive e rende consapevoli del fatto che ogni scelta (come anche ogni rinuncia a scegliere) ha un peso nella definizione degli obiettivi comuni. Intervenendo sul rapporto tra pace, educazione e sviluppo, Dolci applica questa fondamentale intuizione ad uno scenario più vasto.

 

E’ indispensabile un’azione dal basso affinché le popolazioni prendano coscienza dei loro problemi e delle relative soluzioni, partecipino ad azioni locali, anche piccole ma precise e ben fatte, che diano il senso dell’enorme possibilità dell’agire comune con prospettiva: in questo, molto è contenuto relativo alla pace. E’ fondamentale che ogni individuo, ogni gruppo, ogni popolo, cooperando e integrandosi a tutti i livelli, verifichino i loro problemi, cosa vogliono, quali sono le effettive soluzioni. Occorre promuovere pianificazioni organiche aperte, nonviolente, il più possibile dal basso, che facciano nelle popolazioni stesse nascere e crescere le ricerche-indicazioni-azioni locali, i piani regionali, e via via i più vasti, con i loro autori-esecutori[7].

 

Scettico sulla capacità di redenzione di popoli traviati dal patriottismo e abbagliati dal miraggio di insignificanti vantaggi materiali[8], Tolstoj appare possibilista e addirittura fiducioso nell’affermazione di un mondo più giusto, allorché affida il proprio messaggio ai ragazzi e alle ragazze che stanno uscendo dall’infanzia e si pongono le prime impegnative domande sulla vita e sul futuro.

 

Non dovete credere che sia impossibile realizzare il bene e la verità nella vostra anima. Realizzare il bene e la verità non soltanto non è impossibile nella vostra anima, ma tutta la vita, sia la vostra che quella di tutti gli uomini, sta unicamente in questo, e solamente questa realizzazione in ciascun uomo porterà non soltanto a un miglior assetto della società intera, ma anche a tutto quel bene dell’umanità che ad essa è destinato, e che potrà realizzarsi soltanto con gli sforzi personali di ogni singolo uomo[9].

 

Il tono è fortemente ispirato, proprio di chi, pur essendosi mosso da emergenze della vita concreta, rivolga infine lo sguardo sull’interiorità, considerata unica fonte di ogni possibile rigenerazione morale. Per Dolci il momento dell’autocoscienza non costituisce un approdo, ma la fase preliminare all’esperienza maieutica, che è essenzialmente confronto, disponibilità a mettere in discussione se stessi, apertura all’altro.

 

Una levatrice aiuta a far nascere la nuova vita che una persona ha in sé. Così il domandarsi, il domandare cosa è la speranza, l’amore, la vita, tende a far nascere una risposta in quanto ciascuno ha sperato, amato, vissuto, cioè già possiede in sé i semi della risposta [...]. Occorre individuare oltre la favola socratica -e il modello socratico stesso- il nodo essenziale: come approfondire e allargare l’osservazione; come esercitarla ed esprimerla in forme diverse, come approfondire e valorizzare l’esperienza personale per cercare di risolvere i problemi che la vita ci chiede di risolvere[10].

 

Il richiamo alla responsabilità individuale, così forte in Tolstoj, è sicuramente fondamentale ma, secondo Dolci, pecca di astratto moralismo chi ritiene che per risolvere i problemi sia sufficiente essere puri[11]. In realtà gli stessi ideali che ispirano le nostre azioni devono liberarsi di quel carattere esclusivamente introspettivo che per troppo tempo ne ha attutito l’impatto sociale; così, ad esempio, in relazione all’obiezione di coscienza, «il rifiuto non basta, anche se spesso è indispensabile, ma va irrobustito, sostanziato in opposizione creativa, secondo i propri principi, le proprie ipotesi, i propri metodi»[12].

Alla luce di queste affermazioni, l’invito tolstoiano a deporre le armi, in nome dell’adesione al Vangelo, può sembrare semplicistico, poco articolato e carente sul piano dell’analisi; critiche forse calzanti, ma non in grado di scalfire la forte tensione morale che sprigiona dalle parole di scritti come Non uccidere e Carthago delenda est e giunge intatta fino a noi, scuotendo le coscienze con la durezza delle parole, convincendo con la semplicità delle argomentazioni.

Le posizioni di Dolci, sugli stessi temi affrontati da Tolstoj (nonviolenza, ma anche educazione, progresso), pur motivate dalle stesse esigenze di ordine etico, appaiono certamente più complesse, ricche di maggiori implicazioni e richiami; ma, senza dubbio, più complessa e difficile, fors’anche più subdola e rischiosa, è stata la realtà in cui Dolci ha operato e che probabilmente richiedeva per essere compresa strumenti di analisi più affinati.

Se l’impegno civile di Danilo Dolci ha avuto modo di svolgersi in molteplici direzioni, nella convinta adesione a cause differenziate nel tempo, ma sempre sostenute con forza e degne di essere combattute, è stato l’interesse per la pedagogia a costituire una componente costante della sua attività di studioso e sperimentatore sociale. Nell’articolo Esperienze educative a Partinico, inserito, insieme ad altri scritti di carattere pedagogico, nel libro Il ponte screpolato, Dolci ripercorre le tappe che hanno condotto alla nascita del Centro educativo di Mirto ed analizza i problemi che, a poco più di un anno dall’inizio dell’esperienza, ancora restano da risolvere (l’articolo è datato agosto 1975). I bambini che frequentano il centro appartengono per lo più a famiglie povere, come i piccoli mužiki della scuola di Jasnaja Poljana; la differenza sostanziale rispetto all’esperienza tolstoiana consiste nel forte radicamento al territorio (il che implica considerazione ai suoi problemi) e nell’attenta puntualizzazione dei fini del processo educativo che dovrà risultare «una leva antimafia e antifascista»[13]. Le ipotesi d’avvio dell’attività pedagogica sono in puro stile rousseauiano e tolstoiano: «scoprire e sviluppare coi bambini i loro più profondi interessi. Tendere a trasformare la naturale curiosità in metodo di ricerca e di scoperta».[14] Il terreno scelto per la creazione del centro, Mirto, offre ai bambini la possibilità di osservare per una buona parte dell’anno fiori, piante, animali, stabilendo un contatto diretto con la natura, sulla base di un interesse spontaneo che Tolstoj aveva sempre assecondato nei propri allievi. Bandita ogni forma di costrizione, il piccolo viene coinvolto nella vita del centro, che a poco a poco considererà non un ambiente estraneo, ma «un ampliamento del suo nido»[15]. Per Dolci è essenziale che i bambini si trattengano al centro solo se lo desiderano; allo stesso modo Tolstoj non obbligava i propri allievi a frequentare la scuola, riservandosi la facoltà di allontanare i ragazzi dall’aula, ma al contempo riconoscendo loro il diritto di disertare le lezioni[16]. Nel centro di Mirto i bambini partecipano ogni mattina alla discussione sulle attività da svolgere, mentre l’educatore, che riveste il ruolo di coordinatore del gruppo, cerca di armonizzare le scelte; è della massima importanza che i bambini imparino a pianificare, personalmente e in gruppo, attraverso il confronto delle idee. L’apprendimento viene suscitato dalle occasioni e, dal momento che nessuna nozione viene impartita in astratto, anche la lettura e la scrittura vengono affrontate allorché diventano indispensabili all’approfondimento e all’organizzazione del sapere di ciascun bambino.

Massimo rispetto dei ritmi di crescita individuali, assenza di ogni forzatura, presenza attenta ma non coercitiva degli adulti: un sistema educativo che si regga su questi principi, a differenza di quel che si potrebbe credere, richiede istinto pedagogico, dedizione, notevoli capacità umane e disponibilità a porsi continuamente in discussione. Elisa Medolla



*Articolo apparso sul n. 3 di “Scuola e Città”, 31 marzo 1998.

[1] Sul valore dell’utopia, cfr. quanto Dolci ha detto intervenendo nel corso di un seminario sulla educazione svoltosi nel febbraio 1976 al Centro di formazione di Trappeto: «per quanto riguarda scavare e costruire utopia: è ovvio come può avere implicazioni enormemente pratiche. Vediamo come a persone ispirate dalla visione di “nuovo cielo e nuova terra” (...), l’elemento di continua attrazione-tensione determina una dinamica nella loro vita [...]. Qualcuno può dire: ma che rilevanza può avere questo per i bambini a Mirto? Una rilevanza enorme se apprendono a fare quello che decidono avendolo sognato prima. Il tendere a determina un particolare processo: la visione, l’ipotesi da verificare diviene senso della direzione, dinamica essenziale ogni giorno per ognuno di noi» (D. Dolci, Il ponte screpolato, Torino, Stampatori ,1979, p. 27).

 

 

 

 

http://www.amicisciascia.it/html/lavori/scritte/libri/6.html

.......Pochi mesi dopo Sciascia, iniziava la collaborazione anche Danilo Dolci, intellettuale-apostolo radicalmente diverso da Leonardo, che da illuminista siciliano e antipopulista per vocazione qual era, non ne sopportava né la "filosofia" né la predicazione e i metodi di lotta che trovava del tutto estranei alla Sicilia. Inoltre, per quanto Sciascia era sobrio e riservato, quasi timoroso di infastidire, Dolci era di un attivismo spesso ingombrante, e non solo per le notevoli dimensioni del suo fisico. Poiché la sua collaborazione si protrasse per l'intero periodo della mia direzione, sia pure con lunghe parentesi dovute ai suoi frequenti viaggi all'estero, ebbi occasione di non pochi incontri con lui. Arrivava puntualmente con una grande borsa gonfia di carte, estraeva la sua brava agenda e, punto per punto, sviluppava con veloce eloquio ma dettagliatamente quanto aveva da riferire sul tema che lo interessava e sulle singole puntate che pensava di scrivere. Da seguace di quella sorta di divinità che a quei tempi era la Pianificazione, stella polare dei paesi socialisti, Dolci era un accanito pianificatore anche con se stesso. Sebbene ne avessi stima e rispetto, finì che non riuscivo e non avevo neppure il tempo di seguirlo. Come si accorse lui stesso, e una volta annotò nel suo diario, lo guardavo ma senza ascoltarlo. Alla fine, fu un altro in redazione a tenere i rapporti di lavoro con lui.

A differenza di Dolci, rimasto, nonostante i molti articoli pubblicati, un collaboratore esterno senza alcun contatto con la vita della redazione, Sciascia era per tutti noi - da me al cronista più giovane - uno di casa: sempre pronto a intervenire anche nella cronaca diretta o nel fuoco delle polemiche, con le sue riflessioni stringenti e in più di un caso con le sue ire, e sempre con un rispetto puntiglioso della puntualità. Insomma, facendo alto giornalismo. E questo me lo rendeva, ce lo rendeva particolarmente vicino..................
 
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Per una poetica del concreto: "Con il cuore fermo, Sicilia" (Film-documento di Gianfranco Mingozzi)
di Francesca Esposito

L'incisione della realtà
...stralci

L'origine dell'idea risiede in un progetto sviluppato insieme a Cesare Zavattini. Avrebbero dovuto realizzare un film documentario: La Violenza. Il soggetto del film prevedeva un'inchiesta serrata su una Sicilia vista dagli occhi di un testimone esterno. La persona più adatta a coprire quest'esigenza era Danilo Dolci. La sua esperienza di lavoro di trasformazione sociale di un paesino di pescatori vicino a Partinico (Pa) aveva tutte le caratteristiche per confortare l'idea di una visione esterna: ovvero non co-implicata, non annebbiata dal sentimento di appartenenza, non forgiata su una formazione culturale omogenea ai luoghi; ma non per questo la visione era meno partecipata. Danilo Dolci si era infatti trasferito in Sicilia nel 1952 a Trappeto, paesino in cui innesca un meccanismo, assolutamente nuovo per i luoghi, di lotta non violenta. La popolazione aveva creduto in lui da subito per via della sua capacità di essere credibile come estraneo. Sin dall'inizio, aveva fatto qualsiasi mestiere e la sera organizzava le sue famose "conversazioni", vere e proprie sedute di presa di coscienza dei problemi oggettivi della popolazione. Da queste sedute erano nate varie manifestazione di ribellione pacifica: il digiuno fatto sul letto dove era morto di fame un bambino, il digiuno di mille pescatori sulla spiaggia a Trappeto, lo sciopero "ribaltato" nel suo contrario: gli abitanti, disoccupati e non, lavorarono per giorni a spietrare una "trazzera", piccolissima stradina di transito, con impegno e convinzione. E poi cominciò a denunciare la mafia e le sue collusioni col potere. Dolci arrivò così alla ribalta della nazione e subì vari processi. Si formarono comitati di solidarietà nei suoi confronti a cui parteciparono anche intellettuali come Moravia, Pratolini, Sereni, Carlo Bo, Fellini, Sartre. Alcuni di questi, Vittorini e Carlo Levi, vennero addirittura chiamati a testimoniare in un processo del 1956 divenuto famoso anche perché pubblicato da Einaudi con il titolo: Processo all'articolo 4.

Danilo Dolci era dunque, quasi naturalmente, l'ideale testimone per raccontare la Sicilia di quegli anni.

Il produttore trovato da Zavattini era uno dei più importanti: De Laurentiis. Dopo qualche mese di riprese, difficili da realizzare (per via dello stremato stato sociale di allora in Sicilia e anche per il diffuso problema dell'omertà) ma straordinarie per l'importanza documentativa, De Laurentiis ferma la produzione senza un motivo valido. Il problema è che Mingozzi stava toccando, per la prima volta in Italia, problemi scottanti che fino ad allora erano stati raccontati letterariamente o con film di fiction. Probabilmente, come lo stesso Mingozzi ha sottolineato in varie occasioni, il produttore, impegnato nella produzione de La Bibbia, ebbe delle pressioni o comunque pensò che questo documentario potesse nuocere al suo lavoro. Era un atteggiamento, questo, considerabile come una cartina al tornasole di un più diffuso atteggiamento politico.

Mingozzi aveva filmato e intervistato politici (Minichini Farrias, Pio La Torre), intellettuali (Buttitta, Mauro di Mauro) e la gente comune, comprese le famiglie delle vittime di mafia che per la prima volta avevano dato una testimonianza cruda e diretta dei fatti e dei moventi dei delitti. Era, insomma, una sorta di pugno allo stomaco per chi non voleva che si parlasse di mafia. Molti pensavano e dicevano che la mafia era un'invenzione letteraria appartenente alla categoria del folklore locale. La denuncia del documentario era talmente forte che De Laurentiis decise di sospendere i finanziamenti.

Mingozzi non si fermò, e dopo molte richieste di spiegazioni (inevase), si auto-tassò per continuare le sue ricerche sul campo. Il film La Violenza rimase incompiuto e si trasformò in qualcosa di diverso ma molto affine all'idea di una descrizione ferma e realistica della "Sicilia dei problemi". La storia di questo film non realizzato è raccontata dallo stesso Mingozzi in una sorta di meta-documentario, La Terra dell'Uomo (1963-1988), che la Rai gli affidò per continuare, dopo vent'anni, la sua ricerca (documentario purtroppo mai trasmesso). Nella prima parte di questo documentario, Come muore un film, si cerca di capire il perché di una vicenda produttiva così sfortunata, ed emergono a tratti verità parziali e piccole omertà da parte dei protagonisti: ".mi ricordo vagamente, no.così.non mi ricordo per la verità.", recita lo stesso De Laurentiis interrogato sulla vicenda.

Una storia piuttosto oscura che dovrebbe farci riflettere sulle condizioni di chi vorrebbe operare, con lo strumento del documentario, e invece viene fermato non appena tocca temi e problemi che possono intaccare il potere e i suoi gestori.

Mingozzi, a cui non manca uno spirito d'iniziativa forte dovuto all'amore per il mestiere che esercita, decise di ricavare dal materiale non ancora sequestrato (De Laurentiis fece fallire la casa di produzione creata apposta per il film.) un film intitolato Con il cuore fermo, Sicilia. Chiese il testo del commento a Leonardo Sciascia e decise poi di presentarlo al Festival del Cinema di Venezia: il successo fu strepitoso e il film vinse il Leone D'Oro.


Gran Premio Leone D'Oro al Festival di Venezia '65
Prix Simone Dubrheuil al Festival di Mannheim '65
Festival di Londra '65
Festival di San Francisco '65
Nastro d'Argento '65
Selezionato per il Premio Oscar '66.


http://www2.unibo.it/parol/articles/mingozzi.htm


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LA MARCIA DELLA PROTESTA E DELLA SPERANZA
Servizio di Giuseppe Impastato


Da "L'Idea Socialista", 1967

Il 5 di marzo, domenica, un grande convegno popolare, presieduto da Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Corrado Corghi (consigliere nazionale della D.C.), Salvo Riela, Bruno Zevi, Angelo Ganazzoli (presidente dell'E.S.A.) e Leonardo Di Salvo, nella sala del cinema "Nuovo" di Partanna, analizza con attenzione tutti i più gravi problemi che affliggono incessantemente le genti delle valli del Belice, del Carboj e dello Jato e mette dettagliatamente a fuoco gli obiettivi della manifestazione popolare che deve avere il suo inizio nella mattinata del giorno seguente. La relazione di base, nella prima parte della giornata, viene svolta da Lorenzo Barbera, dirigente del centro di pianificazione delle valli. Egli ribadisce innanzi tutto la necessità che vengano costruite o definite le dighe: Arancio sul Carboj, per ora funzionante al 50%, Poma sullo Jato, Garcia sul Belice destro, Cicio sul Modione, Malvello sulla sorgente Malvello. Definendo o costruendo queste dighe si verrebbero a creare infatti 36.100 posti nuovi in agricoltura.
Il suo secondo appunto è rivolto alla riforma agraria: in seguito alla vecchia riforma sono stati assegnati circa 1.400 lotti. La superficie investita dalla riforma è di circa il 2,8% dell'intera superficie della valle del Belice. Ogni lotto misura circa 4 ettari ed ha un reddito lordo scarsissimo che va dalle 200 alle 350 mila lire annue. Tutto questo naturalmente perché sono stati assegnati i terreni peggiori, senza possibilità alcuna di trasformazione.
Di questi 1.400 lotti circa 670 sono stati fomiti di case coloniche che sono a loro volta rimaste per molti anni prive di ogni servizio come l'acqua, la scuola etc. Tra il 1952 e il 1958 sono stati spesi circa 2 miliardi e 700 milioni di lire per munire di attrezzature queste abitazioni, ma attualmente delle 670 case soltanto 260 sono abitate con una certa stabilità. Soltanto uno di tutti i villaggi è effettivamente abitato e funzionante: Piano Cavaliere, che la D.C. utilizza come propaganda del suo regime con frequenti fotografie su certe riviste.
Terzo punto messo in evidenza da Barbera è quello delle scuole per tutti: nei 35 Comuni che aderiscono alla manifestazione gli abitanti sono complessivamente 342.000. Gli analfabeti sono circa 103.000.
Nei prossimi cinque anni è quindi auspicabile un piano atto ad istruire almeno 54.000 persone, per cui sono necessarie 2200 classi di scuole popolari. Nella zona a sua volta il corpo insegnanti è presente nel numero di circa 5000 di cui quasi 4000 sono disoccupati. Il piano per l'istruzione popolare verrebbe quindi ad occupare gli insegnanti disoccupati. Dopo il Barbera sono intervenuti più o meno brevemente Michele Mandillo, Salvo Riela ed Angelo Ganazzoli; a quest'ultimo si deve un duro e frontale attacco alla mafia: "Non è arrestando Liggio e Panzeca che si combatte la mafia - ha detto - bisogna colpire i colletti duri, cioè le persone che stanno dietro gli esecutori. Solo così possono venir fuori i nomi di uomini politici, di professionisti, di notabili".
Nel pomeriggio di poi, sotto la presidenza di Bruno Zevi, è intervenuto per primo Simone Gatto ribadendo con fermezza la necessità di ristrutturare la Sicilia in Comuni e in comprensori di Comuni, eliminando così le ormai superate province. Sono intervenuti tra gli altri Michele Pantaleone e V. Giacalone.
Il 6 di marzo, lunedì, alle 10 circa da Partanna, parte il lungo corteo della marcia della protesta e della speranza per la pace e per lo sviluppo socio-economico della Sicilia occidentale. Guidano la colonna Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera ed il piccolo e timido vietnamita VO VAN AI, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, delicato poeta e sociologo di indiscussa preparazione. Lungo il percorso che da Partanna porta a Castelvetrano, punto di arrivo della prima tappa, alla vistosissima schiera di marciatori si aggiungono gruppi di gente, contadini, operai della valle del Belice. Hanno portato "pane e tumazzu" per fare colazione durante le soste della estenuante marcia. Dai loro volti segnati dalle fatiche dei lavoro e dalle lunghe sofferenze traspaiono fermezza e soddisfazione: uno stato d'animo veramente sorprendente per la gente di questa zona che conosce molto da vicino la prepotenza di certi personaggi, il "bavagghiu" alla bocca e la lupara.
Attraverso Castelvetrano la colonna conclude la prima tappa alla diga Delia alle 16.
Il giorno successivo, 7 di marzo, martedì, la suggestiva marcia da Castelvetrano raggiunge Menfi, dove i pubblici discorsi di Dolci e di Lucio Lombardo Radice tracciano i programmi e le caratteristiche della manifestazione, auspicando un maggiore benessere per i lavoratori e per i contadini siciliani che lottano per una Sicilia nuova.
Il mercoledì 8 marzo, la colonna arriva a conclusione della terza tappa della marcia, a S. Margherita Belice. L'incontro tra la popolazione della cittadina ed i marciatori avviene in uno stanzone fresco di intonaco posto sul corso principale.
Dopo il solito discorso chiarificatore di Dolci, prende la parola Ernesto Treccani dichiarando con commossa semplicità e con grande chiarezza il suo scopo preciso, che è quello di contribuire con i suoi mezzi alla rinascita ed al risveglio della povera gente di Sicilia e spiegando quale è il senso del lavoro di un pittore, come esso può contribuire attraverso il segno grafico a dare una spinta di vita sociale. È intervenuto quindi Carlo Levi parlando delle sue esperienze compiute nel 1935 nei paesini della Lucania dove egli fu costretto ad abitare per lunghi anni come esiliato politico. Il mondo già espresso nei suoi libri Cristo si è fermato ad Eboli e Le parole sono pietre. È venuto così fuori in un discorso di estrema semplicità.
È intervenuto infine lo scultore palermitano Giacomo Baragli che ha accomunato la sua esperienza di "emigrato" a quella ancor più grave dei contadini presenti in sala che sono stati costretti in questi anni ad espatriare all'estero.
Il giovedì 9 marzo si giunge, nel tardo pomeriggio, a Roccamena
L'incontro con il pubblico del paese viene interamente dedicato alla pace. Si proietta un documentario sulle atrocità che gli americani compiono nel Vietnam e vengono letti alcuni stralci di reportages e di testimonianze di questa guerra balorda:
"Prendono un Viet e gli fanno mettere le mani sulle guance, poi prendono un filo di ferro e glielo fanno passare attraverso la guancia, fin dentro la bocca, poi fanno passare il filo attraverso l'altra guancia e l'altro mano, poi tirano il filo". La voce è di Vito Cipolla.
Si conclude a Partinico in piazza Garibaldi la quinta e penultima tappa, senza dubbio una delle più dure (30 Km), nella serata del venerdì 10 marzo con un pubblico incontro tra gli organizzatori ed il popolo della cittadina e con la lettura di un messaggio d'adesione e di solidarietà inviato da Roma ai manifestanti dai pittori Renato Guttuso e Corrado Cagli. Altrettanto lunga ed estenuante è l'ultima tappa che da Partinico, attraverso Borgetto, Pioppo e Monreale, conduce i marciatori a Palermo. La colonna, che durante il percorso si era vistosamente infoltita diventa nutritissima alle porte della città. Gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace ed allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti che per il corso Calatafimi scende rumorosamente, e per le grida di protesta e per le richieste, fatte ad alta voce, del diritto alla vita ed alla libertà, verso il centro della città.
In piazza Kalsa alle 17,30 avviene il festosissimo incontro tra i marciatori e la Palermo operaia.
E una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l'inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell'isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Per primo dalla tribuna interviene D. Dolci leggendo alla cittadinanza la risoluzione del convegno di Partanna e ribadendo in secondo luogo la necessità che la commissione parlamentare antimafia renda pubblici gli atti in suo possesso.
Altri interventi fanno registrare Nino D'Angelo, Sergio Rapisardi, Lorenzo Barbera e Carlo Levi che definisce la manifestazione "un Parlamento democratico, che è sorto come presa di coscienza che rappresenta una realtà unitaria".
Conclude la serie di interventi molto drammaticamente VO VAN AI: "Tutta la mia infanzia e quella della mia generazione non ha conosciuto che la guerra. A tredici anni ho conosciuto la prigione. La prima notte che mi hanno arrestato, nella camera degli interrogatori ho visto coi miei occhi cinque miei compatrioti torturati fino alla morte. Ho visto donne violentate, villaggi incendiati, bambini gettati nel fuoco. Ma tutte queste immagini esprimono soltanto la milionesima parte di quanto avviene attualmente nel Sud Vietnam, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Avete mai visto dei bambini napalmizzati? Avete mai visto madri divenire folli davanti ad atrocità incommensurabili? Immaginate il cielo della Sicilia tutta ad un tratto stracciato da migliaia di aerei della morte, il cui solo rumore dei motori ci rende folli? Immaginate le vostre case e le vostre spiagge divenire d'un tratto basi militari?
Ora nel Sud Vietnam una prostituta può nutrire quattro persone (la ruffiana che l'alberga, il protettore, l'uomo che col triciclo le porta il cliente e lei stessa), mentre un operaio specializzato non ha il lavoro per guadagnarsi il suo pane. Ci sono ragazze che scambiano il loro corpo per un pezzo di pane o per una bottiglia di latte.
E chi deve ricevere aiuti governativi vede che le sue somme attraversando tante mani burocratiche divengono un niente.
Né la libertà, né democrazia ora esistono nel Sud Vietnam. Chi parla di pace e di neutralismo viene tacciato come comunista, imprigionato ed ucciso.
Affinché una soluzione sia realizzabile, è necessario che tutti i popoli del mondo facciano pressione sui loro governi perché questi all'unanimità domandino:
1) La cessazione immediata di tutti i bombardamenti americani nel Vietnam.
2) La cessazione del sostegno americano al governo Ky nel Sud Vietnam.
3) La costituzione al Sud di un governo civile eletto dal popolo, indipendente da tutte le ingerenze straniere, che possa lavorare effettivamente per la pace, negoziando per la cessazione delle ostilità e tendendo alla riunificazione.
Voi avete sentito che i nostri problemi sono anche vostri; come io sento che i vostri problemi sono anche i miei.
La soluzione dei problemi fondamentali nel Vietnam, nella Sicilia, in ogni paese del mondo è necessaria non solo al singolo paese ma a ciascuno al mondo. Viva il Vietnam e la Sicilia".
Jerry Cooper, cantante negro ha cantato infine uno spiritual.
http://www.centroimpastato.it/conoscere/idea_socialista.php3
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La proposta del Professor Aldo Visalberghi

Propongo che il primo premio internazionale "Educazione e Pace" venga attribuito alla memoria di Danilo Dolci, recentemente scomparso. Si tratta della figura più rilevante di fautore attivo della pace che abbia avuto negli ultimi decenni il nostro paese. Pagando di persona per attività non violente di grande impegno morale e sociale, sviluppando anche in ambito culturale e letterario le posizioni improntate alla massima apertura universalistica verso ogni genuina espressione dell'uomo, ha raggiunto fama eccezionale anche fuori dell'Italia per le sue opere e il suo carisma di uomo e di artista, comprovata anche dall'eco eccezionale che ha avuto la sua scomparsa.

Danilo Dolci (Italia)
Protagonista del Movimento non violento in Italia e fautore attivo della pace. Danilo Dolci è stato il creatore di esperienze e istituzioni culturali ed educative in Sicilia, ispirate dai principi di fratellanza e universalismo.
La sua eccezionale visione di un uomo liberato dai condizionamenti sociali e culturali praticati contro l'autenticità e la consapevolezza individuali ha preso anche forma artistica nella sua produzione letteraria e poetica, conosciuta ed apprezzata anche fuori d'Italia. Danilo Dolci è scomparso nel 1998.

Missionario laico finito anche in carcere per i suoi "scioperi alla rovescia", provocatorie giornate di lavoro volontario organizzate coi disoccupati delle aree più arretrate della Sicilia occidentale, contro la mafia

Contro la scuola che opprime e non comunica,
 contro la miseria,
 la fame e la guerra,
contro il dispotismo del potere che si abbandona al virus del dominio.

Una rivoluzione senz'armi, quella di Danilo Dolci, pioniere italiano della non-violenza: poeta tra gli umili, educatore tra i diseredati, scomodo animatore di iniziative di pace contro la mafia siciliana, contro lo sfruttamento dei poveri, contro le guerre di tutto il mondo. Missionario laico e combattente inesauribile, finito anche in carcere per i suoi "scioperi alla rovescia", provocatorie giornate di lavoro volontario organizzate coi disoccupati delle aree più arretrate della Sicilia occidentale: per ottenere strade e fognature, una vita più civile, opportunità di lavoro non schiavistico attraverso la riforma dell'agricoltura grazie alle dighe sui fiumi siciliani fatte costruire a colpi di marce di protesta e scioperi della fame. E dopo gli anni eroici nell'immediato dopoguerra, l'impegno sul fronte dell'educazione che ha richiamato in Sicilia i più importanti intellettuali europei: per una scuola diversa, libera, creativa, fondata sulla partecipazione e sul dialogo con gli allievi, grazie al metodo maieutico sperimentato da Socrate......


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Il metodo nonviolento nell'esperienza di Danilo Dolci
di  Cosimo Scordato


La complessita' di Danilo Dolci ci impone il dovere di tornare a piu' riprese e da diverse prospettive alla sua figura; non pretendendo di offrire un approccio complessivo, ci limiteremo a ricostruire alcune sue sfaccettature a partire dagli incontri personali dai quali e' nata non solo
quella grande attenzione che ha fatto maturare anche alcune precise scelte del nostro centro sociale, ma anche la franca e sincera amicizia scandita da incontri, telefonate, la nostra visita al borgo di Dio e, viceversa, gli interventi di Danilo presso il nostro centro.
L'intervento ha anche il duplice valore della personale testimonianza ad un uomo che ha saputo amare la Sicilia, sposandone ricchezze e poverta'; e della riconoscenza-riconoscimento che tante delle intuizioni che hanno
ispirato il lavoro del nostro centro hanno avuto origine dalla esperienza socio-culturale e politica di Danilo.
La scansione temporale diventa anche un pretesto per evidenziare alcuni degli aspetti piu' rilevanti della complessita' della sua figura.

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L'incontro e la curiosita'
Il primo incontro di conoscenza risale al 1971 quando, essendo studente di teologia a Roma, un mio amico, interessato ad un elaborato sulla nonviolenza, mi chiedeva informazioni su Danilo; ma io, uscito da poco dal seminario, non seppi fornirgliele; senonche' la cosa comincio' ad interessarmi e cosi', prima lui stesso cerco' di entrare in contatto, successivamente anche io decisi di fare una visita a Partinico, dove potei incontrarlo insieme con Francesco Stabile.
Mi ricordo soprattutto l'atmosfera di quel luogo, tappezzato di manifesti, scritte e, tra le altre, la famosa immagine dei due asini di fronte a due balle di paglia con la scritta "cooperation"; lui non pote' dedicarci troppo tempo, ma servi' per avere una prima idea di alcune delle sue iniziative soprattutto sul versante pedagogico (con seminari, incontri di studio,
esperienze con bambini...); ma l'incontro servi' piu' a creare il contatto che non a dare una compiuta informazione su tutto quello che avveniva in quel luogo ed intorno ad esso.
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Il profilo intellettuale
L'anno seguente cominciai le mie letture a partire dai Racconti siciliani;
l'impatto, inizialmente strano, a poco a poco mi faceva intravedere, dietro il genere letterario singolare della narrazione dalla viva voce dei vari personaggi, l'interesse che Danilo dedicava all'ascolto, raccogliendo anche le briciole delle inflessioni dialettali e, dietro di esso, quel genere letterario narrativo che nella gente privilegia le cose e non le parole in un tentativo di presa diretta sulla realta'; storie di vita dalle quali si profilano vicende, emozioni non mediate se non da una parola che le concretizza; storie di vita che rappresentano anche uno spaccato di quella gente, per lo piu' proveniente dal mondo rurale, alle prese con l'inserimento lavorativo, con le difficolta' a farsi strada in una societa' che non sempre e' ospitale (emigrazione); frammenti di vita familiare, a mo'
di bozzetti, che lasciano intravedere la concretezza di una cultura (il modo
di pensare, di agire, di interferire...); ma, la cosa che ancor piu' mi tocco' era l'attenzione a questa povera gente che diventava soggetto
narrante e soggetto narrato e tutto questo mi faceva percepire il profilo popolare dell'antropologia di Danilo.
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Le autoanalisi popolari
Dimensione popolare che scoprivo ancor piu' successivamente quando, leggendo
Inchiesta a Palermo, mi rendevo conto da un lato del suo desiderio di conoscenza non compromesso da letture presuntuose, ma alimentato dal dare la parola e dalla voglia di leggerci dentro in profondita'; dall'altro lato, mi
rendevo conto della sua attenzione a questo soggetto comunitario col quale voleva concrescere attraverso quel difficile percorso dell'autoanalisi popolare da cui doveva scaturire una piu' articolata comprensione della
realta', ma orientata ad una soggettualita' politica, capace di rivendicare diritti senza alcuna violenza, con la sola arma della partecipazione democratica e della rivendicazione dignitosa del proprio riscatto.
*
La saggezza popolare
L'attenzione alla gente ed alla cultura popolare costituiva una delle sue fonti di pensiero; era come se si fosse assegnato non solo di dare voce alla gente, ma anche di dare da pensare raccogliendo le osservazioni che
soprattutto la vita di ogni giorno (in campagna o in mare) faceva maturare nella vita di ognuno, dando forma ad un pensiero, spesso implicito, ma che richiede molta attenzione se vuole essere apprezzato.
A tal proposito, mi ricordo il suo intervento in un convegno di educazione alla mondialita', nel quale era stato inserito un suo gruppo di lavoro; abbiamo partecipato al momento conclusivo nel quale Danilo doveva valutare i
risultati della partecipazione emersi dal laboratorio; due cose mi colpirono in quell'incontro nel quale egli raccolse ed evidenzio' con un'attenzione meticolosa i frammenti dell'esperienza di ciascuno; la prima fu l'attenzione che rivolse al peduncolo del limone; essa nasceva da un dialogo con un
contadino il quale gli aveva fatto notare sia l'importanza del peduncolo nella pianta, sia l'importanza del modo come raccogliere il frutto; nel peduncolo, infatti, si dava questo interscambio che porta la pianta a fruttificare e, viceversa, che tiene in vita il frutto in quanto collegato vitalmente alla pianta; cosi', lui stesso mi propose di leggere un testo che
raccontava di questo dialogo, e a stento ci trattenemmo dalla commozione per
la cura con cui tutte le considerazioni venivano osservate, raccolte e date a pensare.
*
La maieutica e la reciprocita' della comunicazione
Altro tema importante che lui stesso presento' al nostro centro era quello della comunicazione; era il momento nel quale stava lavorando al manifesto "dal trasmettere al comunicare" intorno al quale era riuscito a raccogliere
un consenso ampio e qualificato; era sostenuto da molte firme illustri e non, e soprattutto era diventata la proposta per un ripensamento della vita politica e della stessa pedagogia scolastica: il trasmettere, infatti, e'
fonte di violenza, solo il comunicare rispetta l'altro e crea le condizioni per la reciprocita' personale.
In questo contesto, non solo riprendeva il tema classico della maieutica socratica, ma metteva in evidenza anche il valore della reciprocita' proprio a partire dalla esperienza della gravidanza e della maternita': la donna da'
tutto al bambino, ma il bambino da' alla donna di diventare madre; intuizione bellissima di grande intensita' umana e di grande portato
antropologico; non c'e' nessuno talmente povero che non abbia qualcosa da dire e da dare e viceversa non c'e' nessuno talmente generoso che non abbia qualcosa da ricevere.
*
La Nota a Uscire dal fatalismo
L'ultimo riferimento e' a quella Nota che con tanto affetto e cura egli scrisse come Introduzione al volumetto Uscire dal fatalismo (Edizioni Paoline, Alba 1991); per noi del Centro sociale si trattava di un' esplicitazione del profondo filo rosso che ci legava a Danilo al di la' delle genealogie bibliografiche; con la solita padronanza delle tematiche della contemporaneita' egli coglieva nel segno nel momento in cui, apprezzando il nostro lavoro e soprattutto sollecitandolo a nuovi approfondimenti, indicava nel frammento del lavoro quotidiano in un quartiere popolare la possibilita' di resistere alla condizione dispersa
dell'omile umano, come a volere restituire alla dimensione del territorio ed ai fili della tessitura quotidiana di rapporti, di collaborazioni, di sinergie volti tutti alla liberazione dell'uomo, la dignita' di una presenza che sara' tanto piu' globale quanto piu' sapra' sporcarsi le mani nel particolare di un luogo e di un tempo precisi e delimitati.
*
Religiosita'
Non mi risulta che Danilo fosse credente nel senso stretto della parola; ne', mi pare, che avesse avuto modo di intrattenere rapporti particolari con comunita' o persone religiose dell'Isola; per di piu' la sua opera non ebbe
particolare accoglienza all'interno della comunita' cristiana se il cardinale Ruffini nella lettera pastorale "Il vero volto della Sicilia" si
permise di includere, tra i mali della Sicilia, proprio la persona di Danilo Dolci; la qual cosa certamente lo avra' amareggiato; rimasi, pero', edificato allorquando, avendogli ricordato detto episodio, egli mi sorrise e si limito' a commentare dicendo: "erano altri tempi".
Solo una volta mi  capito' di sfiorare la tematica religiosa ed ho capito che egli era interessato piuttosto a tutte le esperienze religiose in
quanto, ciascuna a modo proprio, sono portatrici di elementi di saggezza umana; mi piace, pero', recuperare il tema da un altro punto di vista: il profondo senso di religiosita' della vita; balza agli occhi di tutti,
infatti, la leggerezza di un pensiero che vuole restituire la poesia al senso delle cose; il fatto che, dopo tante pubblicazioni caratterizzate da fine osservazione fenomenologica e da attento acume socio-culturale, senti' il bisogno di ricorrere al linguaggio della poesia, non va ricondotto soltanto a quella attitudine che emerge in tante persone di accompagnare le
proprie esperienze col taccuino delle espressioni poetiche, quanto piuttosto va ricondotto a quella segreta attenzione al mondo della vita, al quale si addice il linguaggio poetico in quanto capace di evocare la bellezza che
sorprende, di creare nessi linguistici che hanno il compito di restituire il tessuto vivente delle creature, di far palpitare di fronte alla complessita' della realta', di esprimere il senso di stupore di fronte alla gratuita' dell'esserci e del ritrovarsi...
Si tratta di una strada diversa che fa intravedere il senso della trascendenza non in un superamento-allontanamento dalle cose, piuttosto nel farsi prendere da esse e dallo sporgere oltre di esse; ma ci basti, al momento, avere appena insinuato un possibile percorso.


 
 
DANILO DOLCI
 

Nato a Sesana (Trieste) il 28 giugno 1924 da Enrico, impiegato nelle Ferrovie dello Stato e da Meli Kontely, di origine slava. Studia in Lombardia diplomandosi presso il Liceo Artistico di Breva ed iscrivendosi successivamente alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Nel 1943 è arrestato, a Genova, dai nazifascisti e imprigionato riesce a fuggire. Si rifugia nelle montagne abruzzesi per raggiungere da lì, successivamente, Roma.   Conosce don Zeno Saltini e condivide con lui per qualche tempo l'esperienza di Nomadelfia, una comunità di accoglienza ai bambini privi di genitori, nata a Fossoli nell'ex campo di concentramento nazista non lontano da Capri, in Emilia.
Il padre era stato capostazione a Trappeto, il paesino in Sicilia, in provincia di Palermo. Nel '52 Danilo decide di tornare proprio lì, per le immagini di estrema miseria del paese che gli erano rimaste fin da bambino. In quel paesino comincia a tentare percorsi per creare occasioni di lavoro e superare lo stato di disoccupazione della zona.

Sposa Vincenzina, una vedova povera con cinque figli, e da lei ne avrà altrettanti (tra cui Cielo, che diventerà più tardi uno dei più noti suonatori italiani di flauto dolce, Libera, poi insegnante di scuola materna e Amico).

Nell’area dei comuni che si affacciano sul Golfo di Castellamare, vicino a Palermo, nel corso degli anni ’50 e ’60, svolge un’attiva opera di intervento sociale per il riscatto delle società locali dalle condizioni di miseria e l’avvio di un’esperienza di sviluppo endogeno orientata verso forme di auto-organizzazione. I principi che informano la sua azione sono sostanzialmente quello della nonviolenza attiva - digiuni, scioperi alla rovescia, “pressioni” sociali etc. - e quello educativo, teso a innalzare il tenore di vita della comunità e a favorire lo sviluppo della cooperazione e di azioni solidaristiche, attraverso la ricerca di un dialogo costante con la società locale.

Nel 1952, quando fonda il Borgo di Dio, il banditismo era al tracollo, ma i tassi di violenza che si registravano nel territorio da lui prescelto per la sua azione, erano tra i più elevati d’Italia. Un bracciante o un pescatore guadagnavano 400 lire per una giornata di dodici ore di lavoro, quando si riusciva a trovarlo. Nel quartiere Spine Sante a Partinico, su 330 famiglie 319 non avevano acqua in casa, i due terzi delle case non avevano fognature, il tasso delle malattie mentali era elevato. Se nel quartiere della Via Madonna il banditismo era apparso come il rimedio naturale alla impossibilità di trovare delle vie legali alla sicurezza sociale della popolazione, a Spine Sante non si registrava neanche questo atteggiamento ribellistico. Qui regnavano le malattie endemiche e la follia. Emblematica di questa condizione di diffusa miseria è la sua prima inchiesta sociologica nella zona di Palermo, ripresa poi in Fare presto (e bene) perché si muore (La Nuova Italia, Firenze 1954).

I suoi metodi di lotta nonviolenta, contrassegnati da approdi concreti, diventano ben presto famosi: il 14 ottobre 1952 Danilo inizia il suo primo digiuno sul letto di un bambino morto per fame; nel novembre 1955 un secondo digiuno a Spinesante (Partinico), mira a sollevare il problema della diga sul fiume Jato. Nel corso delle sue ricerche Danilo aveva scoperto che, per migliorare la situazione agricola ed economica della zona, era stato fatto un progetto che, da molti anni, giaceva sepolto in qualche ufficio ministeriale: una diga sul fiume Jato. Essa avrebbe permesso di creare un bacino per irrigare i campi delle zone vicine, risolvendo così uno dei più gravi problemi della zona, dato che, a periodi brevi di forti piogge, che slavavano il terreno, succedevano periodi lunghissimi di siccità che rendevano, a propria volta, i terreni quasi improduttivi. Ma la mafia si era coalizzata contro il progetto, perché temeva potesse rivoluzionare l’assetto politico-economico della zona, e l’aveva fatto affossare. Solo col digiuno del 1962, che sarà seguito da una grande manifestazione popolare, riuscirà a scuotere le autorità che faranno riemergere il progetto dal fondo dei cassetti e autorizzeranno l'inizio dei lavori, alla cui realizzazione Danilo collabora, con i fondi del premio per la pace e di tanti comitati di amici nati in Italia e all’estero, organizzando, in varie zone, servizi di assistenza agricola che dovevano aiutare i contadini a passare da una agricoltura senza acqua ad una che sfruttasse i benefici dell’acqua incanalata. E' in questa occasione che Danilo ed i suoi collaboratori, hanno a che fare con la mafia, e Danilo riceve anche qualche minaccia.

In cella, conosce dei banditi che avevano fatto parte della banda di Giuliano. Da quell'esperienza, ha origine un altro libro: Banditi a Partinico (1955).

Nel ‘55 pubblica su Nuovi Argomenti, la rivista diretta da Moravia e Carocci, dei racconti autobiografici di ragazzi che vivevano negli ambienti degradati di Palermo, il lavoro preliminare di Inchiesta a Palermo. Dolci subisce dal Ministero degli Interni, presieduto da Tambroni, il ritiro del passaporto, con l'assurda motivazione di avere con le sue opere diffamato l'Italia all'estero, e un processo a porte chiuse, più che mai immotivato, per pornografia. Troviamo a difenderlo Carlo Arturo Jemolo, lo storico della Chiesa, e accanto a lui avvocati di grido, intellettuali, comuni cittadini. Per il libro Inchiesta a Palermo Dolci otterrà nel ‘58 il premio Viareggio e lo stesso anno il Premio Lenin per la pace, i proventi del quale verranno utilizzati nella fondazione del Centro Studi e Iniziative a Partinico.

Il 30 gennaio del 1956 si colloca il digiuno dei mille" sulla spiaggia di San Cataldo (Trappeto), seguito il 2 febbraio dello stesso anno dallo sciopero alla rovescia a Partinico, nel corso del quale Danilo stesso e qualche centinaio di contadini della zona, avevano occupato una vecchia "trazzera" (strada vicinale tra i campi) e avevano cominciato ad aggiustarla, per mettere in evidenza il fatto che i lavori da eseguire da parte della collettività erano tanti e che i contadini avevano il diritto a lavorare, diritto riconosciuto loro anche dalla Costituzione Italiana, all’art. 4. Molti di loro, per sottolineare il carattere di protesta nonviolenta, avevano fatto anche un digiuno. La loro richiesta era che lo Stato non si proponesse in Sicilia solo in funzione di poliziotto, ma piuttosto, col volto di assistente sociale e di aiuto allo sviluppo. Fu "caricato" dalla polizia, denunciato come individuo con spiccate capacità a delinquere, messo in galera all'Ucciardone per due mesi con i sindacalisti che lo avevano appoggiato (Salvatore Termini, Ignazio Speciale e tanti altri), processato e condannato. Il processo che verrà intentato contro Danilo e i contadini, per occupazione abusiva di suolo pubblico, servirà a far conoscere al mondo il suo lavoro. Ne esce un vero e proprio "Caso Dolci" che vede numerosi intellettuali italiani e stranieri (Silone, Parri, Pratolini,Carlo Ho, Sereni, Moravia, Fellini, Cagli, Mauriac, Sartre) schierati in comitati di solidarietà e mozioni di protesta: si registrano inoltre le interrogazioni alla Camera di Li Causi, De Martino. La Malfa.  Sono solidali con lui i suoi stessi avvocati (Carandini, Piero Calamandrei, Fausto Tarsitano ecc.) e altri studiosi di vari settori, come gli economisti Sylos Labini e Gunnar Myrdal, oppure il filosofo-pedagogista Aldo Capitini che gli sarà maestro ed amico.
Tutto l'iter processuale consumato dal 24 al 30 marzo a Palermo (vi intervengono, tra gli altri, in qualità di testimoni a difesa Carlo Levi, Elio Vinorini, Lucio Lombardo Radice) confluisce in un altro libro di una certa notorietà, Processo all'articolo 4, pubblicato da Einaudi nel `56.

In seguito al "Congresso per la piena occupazione" (1957), cui partecipano Alfred Sauvy, Bruno Zevi, Giorgio Napolitano, Paolo Sylos Labini, si verifica l'altro significativo, drammatico digiuno di Danilo e Franco Alasia a Cortile Cascino (é da ricordare in questa occasione la visita del celebre giornalista e scrittore Robert Jungk), per denunciare lo stato di miseria (da lui illustrato anche in Inchiesta a Palermo) in cui gli abitanti erano costretti a vivere, e per chiedere una politica della casa più coraggiosa. In seguito a questo digiuno ed al lavoro fatto in uno dei cortili più famigerati, il già citato Cortile Cascino, questo verrà risanato.

Il piano di interventi trova intanto nel 1958 il punto di coagulo progettuale e operativo nella fondazione a Partinico del "Centro Studi e Iniziative". Il Centro è frequentato da molti suoi amici: Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Eric Fromm, Johan Galtung, Emma Castelnuovo, Clotilde Pontecorvo, Paolo Freire, e tanti altri. L’esperienza del Centro è sicuramente una tra quelle più rilevanti di sviluppo di comunità (insieme alle esperienze attivate dal Movimento di Comunità, promosso da Adriano Olivetti) sviluppatesi in Italia nell’immediato dopoguerra. Alla costruzione del progetto comunitario e di pianificazione organica fondata sulla partecipazione e promozione sociale, collaborano attivamente esponenti di diverse discipline (urbanisti-architetti, sociologi, agronomi, economisti etc.), tra i quali Ludovico Quaroni, Carlo Doglio, Bruno Zevi, Edoardo Caracciolo, Giovanni Michelucci, Lamberto Borghi, Paolo Sylos Labini, Sergio Steve, Giorgio Fuà, Giovanni Haussmann, Carlo Levi, Georges Friedmann, Alfred Sauvy.
All’interno di questa esperienza assume connotati peculiari sia il processo di pianificazione dal basso, che si fonda sul lavoro di gruppo e sull’interazione dialogica, sia la traduzione di obiettivi di sviluppo in concrete azioni, secondo una prospettiva pragmatistica ispirata al pensiero di Dewey.

Dopo le azioni di lotta per la diga sul Belice (digiuno a Roccamena del 29 ottobre 1963 e occupazione nonviolenta della piazza municipale), il 7 marzo dello stesso anno, Dolci dà vita alla sua espressa opera di denuncia delle connivenze politico-mafiose offrendo precisi documenti in un Convegno di Studi organizzato a Roma al Circolo della Stampa da alcune riviste ("Nuovi argomenti", L'Espresso. Astrolabio. Il Ponte. Cronache Meridionali).

Ciò provoca le dimissioni di Messeri da sottosegretario al Commercio Estero e l'esclusione di Mattarella dal terzo gabinetto Moro: in cambio il tribunale di Roma condanna lo scrittore per diffamazione a due anni di prigione su denuncia di Mattarella, dell'onorevole Calogero Volpe e di numerosi notabili siciliani indicati nella conferenza stampa come aventi rapporti con la mafia. Danilo digiuna ancora il 10 gennaio 1966 a Castellammare del Golfo. Qui vengono letti pubblicamente documenti antimafia, seguiti da discussione.

Sono poi del 1967 i duecento chilometri di marcia "per la Sicilia Occidentale e per un mondo nuovo": la protesta antimatia davanti al Parlamento a Roma e alla sede della Commissione antimafia; la "Marcia per la Pace nel Vietnam" , oltre mille chilometri da Milano a Roma e da Napoli a Roma.

Nel ‘68 viene fondato a Trappeto il Centro di formazione per la Pianificazione Organica che si mobilita per prestare soccorsi nella zona terremotata dal Belice e progetta, inviandolo alle autorità, un piano di ricostruzione e sviluppo della zona disastrata. Il 26 marzo 1970, dopo un giorno solo di vita, viene distrutta e sequestrata la "Radio libera di Partinico", fondata su iniziativa del Centro di Dolci per dar voce ai poveri cristi.

Danilo, per conto del giornale di Palermo, L’Ora, viaggia anche in vari paesi d’Europa e nell’Est, studiando forme di programmazione e le relative problematiche scrivendo molti articoli su questo argomento. Gli articoli saranno pubblicati in volume (Verso un mondo nuovo), e – tradotti in varie lingue all’estero – faranno apprezzare Dolci in molti ambienti progressisti interessati alla pianificazione economica e urbanistica.

Negli anni più recenti, dal 1970, Dolci appare volto più a fondo sul versante dell'impegno educativo, che si esprimerà concretamente nel Centro sperimentale di Mirto, nato nel 1974. Danilo orienta la propria azione sulla costruzione di un sistema educativo ispirato ai principi dell’attivismo pedagogico, alternativo a quello tradizionale e in questa direzione prosegue la propria esperienza di “valorizzatore” sociale.

Nel ‘75 gli viene attribuito il premio Etna-Taormina per la poesia. Danilo svolge in questi anni un’intensa attività in seminari a cui partecipano esperti come Paulo Freire, Johan Galtung, Ernesto Treccani e altri, e lavora alla elaborazione di un progetto poetico che riunisce tutte le sue precedenti raccolte, col titolo emblematico di Creatura di creature progetto che sottopone ad un continuo lavoro di rifinitura formale, rinnovamento e integrazione concettuale.

Continuo é il contatto con il mondo dei giovani, che lo porta dalle università di Princeton, Standford, Berkeley, Columbia, Georgetown, Chicago, Hiroshima, Ahmedabad, New Delhy, alle scuole medie ed elementari del sud e nord Italia.

Ma sarà a causa del Centro di Mirto e della sua attività educativa che Danilo avrà i maggiori ‘grattacapi’. Gli insegnanti della scuola infatti, probabilmente non pagati regolarmente per la difficoltà di trovare fondi tra i sostenitori i quali, dopo il primo periodo di grande entusiasmo, vanno progressivamente diminuendo, si coalizzano e gli intentano causa. La stampa italiana da' grande pubblicità a questo fatto, e Danilo, di cui ormai non si parla da molti anni, è presentato al pubblico italiano come sfruttatore e disonesto. Da allora, solo piccoli gruppi di insegnanti, particolarmente impegnati, interessati alla sua metodologia, a loro nota tramite i suoi libri (Dal trasmettere al comunicare, e Variazioni sul tema Comunicare), l’hanno chiamato a condurre seminari e incontri di formazione. A peggiorare la fama di Danilo, almeno per l’opinione pubblica del nostro Paese, è la separazione con Vincenzina, la madre di cinque suoi figli, e la decisione di convivere con una giornalista svedese, da cui ha altri due figli, ma che, dopo qualche anno, lo lascia.

In Scandinavia, nel 1981, viene proposto per il premio Nobel alla pace.

Nell’88 lancia un’iniziativa per la costituzione di un Manifesto sulla comunicazione, cui partecipai. Avverte i pericoli connessi alla cosiddetta "comunicazione di massa", ossia al dilagare della televisione e degli altri mass-media che non generano più un vero contesto comunicativo, ma soltanto trasmissivo, unilaterale. E' molto preoccupato dall’unilateralità del nuovo modo di comunicare, che influenza i destini relazionali, impedendo un rapporto diretto e immediato; ma più che altro ne faceva una questione di potere: chi controlla la comunicazione globale acquista un potere enorme, che va messo in discussione e controllato. Al manifesto sulla comunicazione prendono parte i suoi amici di tutto il mondo, grandi personaggi della cultura internazionale tra i quali Galtung, Chomski, Freire, scienziati come Rubbia, Levi Montalcini, Cavalli Sforza, protagonisti della cultura della solidarietà come don Ciotti e monsignor Bello in Italia e Ernesto Cardenal in Sudamerica.

Nel ‘91 contribuisce alla fondazione della Associazione per l’identificazione e lo sviluppo nonviolento della Calabria.

La salute di Danilo comincia quindi a peggiorare, per problemi di diabete, e infine un arresto cardiaco ne provoca la morte il 30 dicembre del 1997, a 73 anni.

(dalle biografie di Alberto L'Abate, Giuseppe Casarrubea, Giuseppe Fontanelli, S. Pennisi)

 

Riconoscimenti

Oltre alla candidatura per il Premio Nobel per la Pace, Dolci ha ricevuto la Medaglia d'oro per aver tenuto alti gli ideali della Resistenza (1956); il Premio Viareggio per Inchiesta a Palermo (1958); il Premio Lenin per la Pace (1958); La laurea honoris causa in Pedagogia dall'Università di Berna (1968); il Premio Socrate di Stoccolma per "l'attività svolta in favore della pace, per i contributi di portata mondiale dati nel settore dell'educazione" (1970); il Premio Prato per la Resistenza per la poesia di "11 limone lunare" (1970); il Premio sonning dell'Università di Copenhagen per "il suo contributo alla civilizzazione europea" (1970); la laurea honoris causa presso l'Università di Bologna nel 1996.

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Associazione dedicata all'opera e all'azione di Danilo Dolci. Il sito raccoglie materiali documentali e si propone come punto di riferimento e raccordo dell'azione dei gruppi maieutici che continuano a operare e pensare secondo il suo pensiero
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Sito che raccoglie il materiale presente in Rete che riguarda questo grande intellettuale
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Circolo di Trappeto, Palermo, dedicato all'educatore Danilo Dolci

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da

http://www.romacivica.net/anpiroma/larepubblica/repubblicabiografie5.htm

link

http://danilo1970.interfree.it/prop.html
http://danilo1970.interfree.it/ghersi.html
http://www.danilodolci.toscana.it/pennisibibliografia.htm
http://www.ateneonline-aol.it/010531coga.html


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