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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 
 
 
La nuova parola zapatista

di
 
Marco Revelli

 

     Ho un ricordo vivissimo di quel primo di gennaio del 1994. In particolare dell’emozione che colse molti di noi quando giunsero sui teleschermi le prime immagini di quei piccoli uomini, dal volto coperto, comparsi quasi per magia nelle strade di San Cristóbal de Las Casas la notte dell’ultimo dell’anno. Erano immagini povere, un po’ sfocate, di gente povera, tra case povere. Camminavano come contadini, si vedeva che non erano guerrieri, uno aveva anche un cavallo [sapremo solo molto più tardi che era il sub-comandante Marcos]. Avrebbero potuto apparire patetici, nel regno della velocità e delle macchine da guerra. E allora perché tutta quell’emozione, in qualche misura sproporzionata rispetto a quanto allora si sapeva dell’evento?

     Certo, era la prima rottura della quiete mondiale seguita alla grande caduta dell’89-91. La prima crepa nella superficie compatta dell’ordine planetario dopo la fine del comunismo. Com’è stato più volte detto, quella zapatista si presentava come la prima rivolta contro il neoliberismo nel mondo: la «prima rivoluzione contro [e dentro] la globalizzazione». Era, in qualche modo - o poteva apparire - la storia che riprendeva dopo la «fine della storia». E poi c’era quel carattere esilarante di beffa nella data scelta, il giorno in cui ufficialmente e in gran pompa il Messico avrebbe dovuto entrare nel «Primo mondo», nel salotto buono dei privilegiati dello sviluppo economico e finanziario, con l’adesione formale al Nafta [il Trattato di libero scambio nordamericano, entrato in vigore esattamente il primo gennaio 1994]. Nell’azione zapatista si avvertiva quel sapore di «festa dei ricchi» rovinata dalla presenza scandalosa e impropria dei poveri, degli ultimi, dei piccoli, malvestiti, malnutriti, impresentabili e fino ad allora invisibili indios, a rubare la scena e i teleschermi alle tronfie figure dei presidenti, ministri, industriali e banchieri, che contrassegna tutte le leggende sociali, da Robin Hood a Zorro. Ma forse neppure questo basta a spiegare del tutto i nostri sentimenti di allora.

     Credo che dietro quell’emozione così intensa e prolungata, ci fosse qualcosa di più profondo delle semplici immagini di rivolta. Non so bene come dirlo, ma c’era la percezione di una «rottura linguistica».
Di un salto di qualità del linguaggio che annunciava la presenza di un fenomeno [di rottura] qualitativamente nuovo. Potremmo dire antropologicamente ed esistenzialmente nuovo. Quella gente parlava un linguaggio diverso da tutti gli altri linguaggi politici ascoltati fino ad allora. «Più vero». Comunque più radicato in una dimensione collocata al di là della superficie politica. Un linguaggio stellarmente lontano da quello stracco, liso, delle nostre vecchie sinistre occidentali, ma anche dal gergo freddo e formalizzato delle tante guerriglie degli anni precedenti. Un linguaggio che non nascondeva, ma al contrario rivelava gli uomini in carne ed ossa che gli stavano dietro.

     La cosa era già percepibile fin dal primo giorno, dalla lettura di quella Primera declaración de la Selva Lacandona, che incominciava con l’indimenticabile «Hoy decimos basta!» - «Oggi diciamo basta» -; e conteneva le undici richieste, semplici, elementari, drammatiche nella loro essenzialità. Quello che a tutti gli uomini dovrebbe essere dato integralmente e che ad alcuni, evidentemente, è negato del tutto, se devono occupare in armi sette città per rivendicarlo: «Trabajo, tierra, techo, alimentación, salud, educación, indipendencia, libertad, democracia, justicia y paz».

     Ma divenne pienamente visibile - per lo meno io ne ebbi piena consapevolezza - qualche giorno più tardi, dopo la battaglia di Ocosingo, quando fu resa nota la risposta dell’Ezln all’offerta di «perdono» del presidente Salinas, a condizione che gli indigeni deponessero le armi e si pentissero del loro «alzamiento». Ricordo che fu letto in una grande assemblea all’Università, e produsse su tutti noi quello strano effetto «elettrizzante» - di incantamento, di «cattura», di rapimento - che viene, appunto, dalla scoperta di un inatteso «potere della parola»; l’identificazione stupefacente e trascinante tra voce narrante e collettività in ascolto, che avevo osservato una sola volta, prima, proprio all’inizio del Sessantotto, nelle prime assemblee di Palazzo Campana, quando si era verificato il prodigio di un salto linguistico radicale che era anche il segno di una svolta nella natura stessa della politica.

«Chi deve chiedere perdono?»

     Conteneva due domande trancianti, quel documento [un foglio di carta appena, o poco più]. La prima: «Di che cosa dobbiamo chiedere perdono? Di non essere ancora morti di fame? Di non tacere la nostra miseria? Di non aver accettato umilmente l’immenso fardello storico del disprezzo e dell’abbandono?». E soprattutto la seconda: «Chi deve chiedere perdono e chi può concederlo?», con il suo seguito sconvolgente di contro-domande: «Forse quelli che per tanti anni si sono seduti a una tavola imbandita e si sono saziati, mentre accanto a noi scendeva la morte, divenuta una presenza così quotidiana, così vicina, che abbiamo smesso di averne paura? Chi deve chiedere perdono? I morti, i nostri morti, così mortalmente morti di morte naturale, cioè di morbillo, pertosse, malaria, colera, tifo, mononucleosi, tetano, polmonite e altre squisitezze gastrointestinali e polmonari? I nostri morti, così maggioritariamente morti, così democraticamente morti di sofferenze perché nessuno faceva nulla, perché tutti i morti, i nostri morti, se ne andavano semplicemente così, senza che nessuno ne tenesse il conto, senza che nessuno dicesse finalmente quell’adesso basta che avrebbe dato un senso a quei morti, senza che nessuno chiedesse ai morti di sempre, i nostri morti, che tornassero a morire ancora, ma questa volta per vivere?».

     C’era in quell’elenco impietoso di malattie [in prevalenza infantili], in quel richiamo diretto alla vita stentata e alla morte incombente e insieme insensata perché avvolta nell’indifferenza di tutti, in quei termini tratti dal linguaggio comune, parlato in prima persona dagli uomini e dalle donne comuni e in quel rinvio ai corpi, alla loro capacità di soffrire e morire, e stentare, lo stesso carattere d’irruzione della quotidianità nella politica, a romperne il carattere separato, di «ceto», di «professione specialistica», e anche di tecnica indifferente alle persone, che aveva caratterizzato, appunto, la «rivoluzione linguistica» del Sessantotto.Che ne aveva fatto un possibile «nuovo inizio» politico. Chi - ricordo che mi chiesi allora - è ancora capace di parlare un linguaggio così? Chi sono questi che riescono ancora a fare di un proclama politico una poesia?

     Sulla crucialità dell’operazione linguistica nella pratica zapatista ha già detto ciò che si doveva dire Luis Hernández Navarro, quando ha scritto che «la ribellione ha detto no» al vocabolario degli altri - del potere, di quello locale e nazionale ma anche di quello globale, del potere imperiale - «e ha fabbricato un suo proprio linguaggio. In un’epoca di confusione e perplessità, ha preso la parola senza permesso e ha detto qualcosa di diverso dal già detto… Di fronte alla pretesa di far apparire la narrazione neoliberista come inalterabile, ha raccontato cose nuove in forma inedita. Ha dato a se stessa il diritto di nominare con coraggio l’intollerabile e, facendolo, ha ridato vita alla speranza e prodotto senso dove c’era rumore»1. Si può solo aggiungere che quella «rivoluzione linguistica» ha prodotto anche, e nel contempo, una parallela «rivoluzione ottica». Un rovesciamento di 180 gradi nella prospettiva attraverso cui si guarda il mondo e gli uomini si guardano l’un l’altro. Dunque - il che è lo stesso - un «salto antropologico».

Il rovesciamento dello sguardo

     Ce lo siamo ripetuto tante volte, quanto sia importante questo «gioco di sguardi». Quanto esso costituisca la misura del «rapporto con l’altro». E quanto riveli il «peccato originale» dell’Occidente - la ragione della sua illegittimità a porre la propria candidatura all’egemonia globale e anche solo a proporre il proprio statuto come modello di norma per il mondo -, consistente appunto nella sua incapacità di guardare [anzi, di vedere] gli altri. Peggio, nella sua ubris, nell’arrogante imposizione agli altri [a quelli che sono fuori dal cerchio magico del privilegio, al mondo rinominato «terzo» per dire «ultimo»] di guardare se stessi con i nostri occhi - con gli occhi di chi sta in alto -, e di vergognarsi per quel sé che con quello sguardo vedevano là, in basso, alla periferia, dove vivevano la propria marginale esistenza [questo è stato il prodotto tossico del colonialismo]. Bene, ora quegli indios, quegli «invisibili» da sempre, gettando via il vocabolario dei vincitori, inaugurando un nuovo lessico poeticamente proprio per raccontarsi, mutavano alla radice la direzione dello sguardo. Rovesciavano la prospettiva spostandone il vertice dalla propria parte: smettevano di guardare se stessi con i nostri occhi, e incominciavano a guardarsi e soprattutto a guardare noi con i loro occhi. Così facendo [affermando, per dirla con Marramao, il «vertice ottico della differenza»2 ], essi assumevano in proprio un «potere costituente»: davano origine a un nuovo «paradigma politico». A una nuova forma della politica per un mondo riconosciuto come qualitativamente diverso da quello del racconto ufficiale.

     Non mancò certo chi, allora e negli anni successivi, continuò a considerare quella come una sorta di esperienza «esotica», rispettabile ma marginale - periferica in tutti i sensi, non solo dal punto di vista geografico -, convinti, secondo i canoni di una lunga tradizione politica occidentale, che la partita vera si giocasse comunque altrove, qui, sulla cuspide dello sviluppo tecnico, economico, culturale. Qui, dove il conflitto capitale-lavoro resta cruciale, dove l’accumulazione di potenza da parte del soggetto antagonistico può competere alla pari con l’avversario, e dove, appunto, tutto si è sempre deciso. Non furono pochi quelli che anche allora simpatizzarono magari per i piccoli indigeni, ma rimasero inguaribilmente scettici sulla possibilità che dalla selva Lacandona - da dentro «una selva»!, non dagli uffici studi delle potenti organizzazioni del movimento operaio europeo, o dalle prestigiose università occidentali zeppe di intellettuali non più organici ma pur sempre impegnati - potesse uscire un nuovo «ordine del discorso» politico. Una cultura della resistenza e della trasformazione in grado di aiutare l’agonizzante sinistra mondiale. E invece io credo che sia proprio così. Che da dentro la selva, quegli uomini apparentemente «ingenui» - forse proprio per la loro «semplicità», per quella che si può chiamare in senso proprio «innocenza» - ci dicano una verità sul mondo che il nostro sguardo smaliziato e opulento non aveva colto. Che ci raccontino il mondo - quello vero, quello composto dai quattro quinti dell’umanità, dalla stragrande maggioranza della popolazione della nostra «terra-patria», quello in cui si può, appunto, continuare a morire a milioni «semplicemente così, senza che nessuno ne tenga il conto» e ne tenga conto - in termini assai più autentici di quanto non siamo in grado di nominarlo noi.


     È certamente una rivoluzione copernicana: l’universo raccontato dalla sua periferia in forma assai più credibile di quanto non sia più possibile farlo dal «centro». La nuova geo-società cartografata dal basso con un profilo assai più preciso di quanto non sia possibile farlo dall’alto delle tecnologie satellitari. Ma è nello stesso tempo, per molti versi, una rivoluzione attesa, ora che la globalizzazione, provocando la «morte della distanza», ha cancellato ogni possibilità di separazione e distinzione tra centro e periferia. Ha destituito di significato ogni gerarchia spaziale. E così può accadere che l’embrione di un nuovo «paradigma politico», innovativo e decostruente rispetto a quello consolidato «dei moderni» al cui lessico noi siamo ancora legati come alla classica macina che trascina sott’acqua, prenda forma là, in quel «fuori» divenuto improvvisamente interno al nostro orizzonte di uomini «planetari». Non certo nella forma del modello da imitare o da esportare, del «paese guida», del «partito guida», della «teoria ortodossa», ecc... - va da sé che lo zapatismo non può essere riprodotto altrove, tante sono le specificità storiche, culturali, geografiche, etniche, dichiarate e rivendicate, che lo connotano. Ma nella dimensione dell’annuncio che un’altra grammatica del discorso politico è possibile. Che un’altra metodologia d’approccio alla questione cruciale dell’elaborazione di un «ordine giusto» per il pianeta è oggi per lo meno pensabile.

     In questo, io credo, lo zapatismo è parte integrante del percorso di ricerca di una possibile «politica del futuro». Si colloca, in qualche modo, già nel nuovo secolo [o forse, meglio, nel nuovo millennio]. Comunque, per usare l’espressione coniata da Gigi Sullo, al di là della «linea di faglia» che segna l’uscita dal Novecento e che, spezzando il tempo, separa il futuro che è già cominciato dal passato prossimo che ancora tenta di trattenerci. Non per niente, nel bel saggio dedicato alle «Linee centrali del discorso zapatista», Ana Esther Cecena ha scritto che «il primo gennaio 1994 è il giorno in cui il terzo millennio irrompe in Messico» [e non solo in Messico].

Oltre il fossato del Novecento

     Quel discorso che esce dalla selva non ignora la tradizione novecentesca del movimento operaio e in particolare della sua componente rivoluzionaria, ma si colloca esplicitamente oltre il fossato scavato dalla loro caduta. Come un «nuovo inizio», di cui risultano evidenti i tanti «fili tagliati», gli imponenti «slittamenti», le clamorose «decostruzioni».

     Si consideri l’identikit del «soggetto rivoluzionario» che in quel saggio, appunto, Ana Esther Cecena tracciava a partire dallo zapatismo e dal suo grado di innovazione: «Il suo luogo - vi affermava - non è la fabbrica ma le profondità sociali. Il suo nome non è proletariato, ma essere umano; il suo carattere non è quello di sfruttato, ma di escluso. Il suo linguaggio è metaforico, la sua condizione indigena, la sua convinzione democratica, il suo essere collettivo» 3.

     Esso contiene, in quelle antitesi semplici ma nette, tanto evidenti quanto impegnative, la ricapitolazione sintetica degli aspetti qualificanti della «grande trasformazione» tecnica, produttiva, sociale e cultuale che ha cambiato il volto del mondo negli ultimi decenni, e su cui tante [spesso prolisse] analisi sono state prodotte. Passaggio dal fordismo al post-fordismo, implosione della fabbrica, deverticalizzazione, delocalizzazione, decentralizzazione della produzione e articolazione territoriale dei processi produttivi, caduta della rigida distinzione tra lavoro dipendente e autonomo con la conseguente moltiplicazione delle figure del lavoro e l’éclatement della «società salariale», sostituita da compagini destrutturate e mobili, abitate da forme estreme e diffuse di precarizzazione e di ambivalenza che cancellano la bella disarmonia simmetrica della struttura e del conflitto «di classe».

     Tutto ciò - e altro ancora - occhieggia tra le pieghe di quell’identikit inedito, quantomeno come retroterra del discorso alternativo zapatista, e ci mostra quanto esso parli effettivamente di noi, pur da quella distanza. Ci dica, molto più di quanto siamo fino ad ora stati disponibili a riconoscere, in quale misura anche noi siamo ormai lontani dai presupposti delle nostre obsolete identità ribelli. Quanto ci sia cambiato sotto i piedi il nostro stesso mondo [in quale ampiezza e a quale profondità si sia estesa la faglia]. Cosicché l’identità ribelle, se vuole continuare ad abitarlo, non può che mutare le proprie forme di azione, le proprie modalità di esercizio dell’antagonismo e della resistenza. In una parola: il proprio «paradigma politico», con una rottura che è ben più profonda del semplice livello della «tattica». O della «teoria dell’organizzazione». Una rottura che potremmo definire «epistemologica» e «antropologica» insieme, affondata nei moduli della conoscenza e della relazione, della percezione del mondo e della forma dell’abitarlo.

     Se devo tentare una sintesi [che è pur sempre una «riduzione» della complessità] e una rappresentazione schematica dei termini di quella «rottura epistemologica» che sta dietro, o sotto, l’innovazione zapatista, la strutturerei in tre livelli differenti ma complementari e circolarmente connessi di antitesi. In tre coppie antitetiche, che convergono a definire in modo polarizzato la differenza tra i due paradigmi: Spazio versus Potere; Autonomia versus Centralizzazione; Cultura versus Forza [o violenza]
Esaminiamoli separatamente.

1] Spazio versus Potere

     Sulla questione del Potere non ci sono dubbi. Che lo zapatismo si sia caratterizzato, fin da subito, per la rottura esplicita con il modello politico dominante nella sinistra rivoluzionaria novecentesca, fondato sulla centralità del problema e dell’obiettivo della «conquista del potere» - che questo cioè sia uno dei suoi tratti caratterizzanti, forse il principale - è cosa risaputa. Il concetto è espresso in modo inequivocabile nei «Principios» del Frente zapatista de liberación nacional, al terzo punto, dove si afferma con chiarezza che «l’alzamiento zapatista del 1994... mostrò la necessità e la possibilità di una nuova forma di azione politica, senza aspirare alla conquista del potere [«a la toma del Poder»] e senza posizioni avanguardiste, sulla cui base riconobbe e stabilì punti in comune con un movimento civile e pacifico, non partitico ed eterogeneo, emergente: la società civile» 4. E ritorna in un’infinità di documenti, prese di posizione, dichiarazioni di Marcos e dell’Ezln. Meno nota è invece la questione dello Spazio.

     La crucialità che il tema della spazialità assume in alternativa a quella del potere [e della potenza]. Eppure era già esplicita fin dalla Seconda dichiarazione della selva Lacandona dove si leggeva, appunto: «...la rivoluzione non si realizzerà in una nuova classe, fazione o gruppo al potere, ma in uno ‘spazio’ libero e democratico di lotta politica... Nascerà un rapporto politico nuovo. Una nuova politica». E ritorna, questo tema dello spazio, senza ostentazioni, certo - come non si ostenta ciò che di per sé è evidente - in quasi tutti i documenti zapatisti, declinato nelle sue diverse forme e accezioni: di «luogo fisico», terra, territorio, villaggio, «posto« dove materialmente si svolge la vita quotidiana e si intrecciano le relazioni fondamentali tra gli uomini; di «luogo simbolico« della rappresentazione e auto-rappresentazione della comunità, spazio pubblico mentale in cui si definisce l’identità e si pratica il confronto, dove s’incontra l’altro in forma di discorso [le «aguascalientes» sono state appunto questo]; persino di «luogo istituzionale», cioè ambito della democrazia intesa come comando dal basso su chi comanda, luogo di condensazione di una volontà collettiva prodotta dal molteplice e capace di espressione e di parola nei confronti del «potere» [il «Caracol» promette di diventare appunto ciò].

     E poi, naturalmente - ed è l’accezione che le attraversa tutte - lo «spazio» come contesto in cui si radica la resistenza, non più affidata alla mitica conquista di un potere statale centrale da cui esercitare la propria volontà, ma come jus excludendi, possibilità di preservare il proprio essere comunità, rete di relazioni autodecise e autodirette, dallo sradicamento che viene dall’esterno [o, il che è lo stesso, «dall’alto»]. Dalle incursioni, distruttive, di poteri arbitrari e di una cultura [si fa per dire] dominante indifferente a tutto [storia, identità, ragioni, credenze e bisogni] tranne che a se stessa e alla propria utilità.

     È per molti versi questa la pars construens del paradigma zapatista: la chiave attraverso la quale si tenta di sottrarre la politica alla catastrofe della sua riduzione novecentesca alla pura dimensione strumentale [quella che assolutizza l’efficacia del mezzi] e all’orrore della sua «autonomia», per ricondurla, attraverso una nuova via, all’ambito del sociale. Alla sua densità relazionale. All’espressività e al linguaggio della quotidianità vissuta.

     Come ha osservato, con espressione felice, Márgara Millán, in un bel saggio dedicato alle donne zapatiste «di fine millennio»: «Lo zapatismo, così come va definendosi attualmente, è interessato a costruire uno spazio pubblico, uno spazio in cui i diversi possano comunicare e parlare tra loro. Uno spazio pubblico che sia lo spazio del politico, negato dalla modernità a causa della professionalizzazione della politica parlamentare, soppiantato dal mercato e monopolizzato dal capitale. Spazio dei e per i soggetti sociali, oggi inesistente e ostacolato dalla razionalità del valore, del profitto e della teoria sulla sicurezza nazionale che protegge l’assetto mondiale dei monopoli» 5

     Per questa via lo zapatismo incrocia uno dei nodi qualificanti - per certi versi l’aspetto essenziale - della globalizzazione intesa, appunto, nella sua natura più propria, come «rivoluzione spaziale»: violenta sovversione della spazialità consolidata, estrema manipolazione tecnica dello spazio - sua compressione assoluta, «morte della distanza», unificazione planetaria e apertura di essa alla piena operatività dei «flussi» contro i «luoghi», ecc. - così da trasformarlo in ambito unificato globale per la megamacchina planetaria. Pone, cioè, l’accento su quello che è il tratto dominante - la variabile indipendente, direbbe un sociologo - della costituzione materiale del nostro tempo storico [della nostra modernità post-novecentesca«, si potrebbe dire, se non si ama il termine post-moderno; o del tempo dello «spazio imperiale», se non si amano i «post»]. E affronta, come nessun’altra identità politica della vecchia o della nuova sinistra aveva finora fatto, il nodo cruciale di come «si sta» - ci si colloca e si lotta - tra «globale» e «locale».

     Di come, insomma, si risponde alla sfida del pensiero unico e della mobilitazione totale del mondo al servizio di un capitalismo oligarchico e transnazionale, restando in qualche modo se stessi e nello stesso tempo muovendosi con un raggio d’azione e una capacità di «alterità» adeguati alla sfida.

     Quello spazio apparentemente minuscolo, «tenuto aperto» a forza di braccia nel cuore della selva Lacandona - vorrei dire «sufficientemente minuscolo» da permettere ancora a quegli uomini e a quelle donne di guardarsi in faccia, nei loro volti di invisibili, attraverso il passamontagna, e di nominarsi a vicenda chiamandosi per nome, il vecchio Antonio, il piccolo Heriberto con la sua macchinina giocattolo, o il Beto, l’Ismita, il Nabor... -, e insieme dilatato su scala planetaria, capace di parlare un linguaggio immediato, non formale, suscettibile di far vibrare corde ormai mute, e di mobilitare appoggio, simpatia, identificazione universali, la dice lunga su questa inedita capacità di «maneggiare lo spazio». E di muoversi a proprio agio nella dimensione ossimorica di una modernità esplosa a tal punto da non lasciarsi più «lavorare» entro le consuete coordinate spazio-temporali, e da richiedere, appunto, un «salto di paradigma». Una rottura epistemologica.

2] Autonomia versus Centralizzazione

     È forse l’aspetto più conosciuto, e condiviso. Tutti i documenti zapatisti, radicati in un’antica tradizione india, rispettosi di quella tradizione, insistono instancabilmente sul tema dell’Autonomia. È in fondo l’altra faccia della crucialità del tema dello Spazio. La territorializzazione dell’azione politica, il ruolo decisivo che assume in essa lo spazio territoriale, è direttamente in funzione dell’auto-organizzazione e dell’auto-governo delle comunità. Lo spazio è appunto lo spazio entro il quale la comunità elabora e difende la propria autonomia: il suo essere sovrana su se stessa. Il proprio essere il soggetto irriducibile alla dimensione indifferenziata [e indifferente] della spazialità statale; e tuttavia, proprio perché irriducibile, soggetto che si riconosce necessariamente «con altri». Che afferma e difende la propria identità in quanto differenza destinata a convivere con le altre identità, in una concezione radicalmente egualitaria e insieme differenzialista. Identitaria e pluralista. Soprattutto pluralista.

     Un tratto che colpisce, nella pubblicistica zapatista, è l’insistenza sull’eterogeneità. Sulla molteplicità delle etnie, dei linguaggi, delle culture che confluiscono e si vorrebbe che convivessero nell’universo locale zapatista. Ritorna continuamente, nelle forme più diverse. Il 12 giugno del 1994, per esempio, quando aveva dovuto rispondere alla proposta di resa del governo, Marcos l’aveva aperto con una lunga lista di «chiamate» - «Signori, correte! Avvisate i mazahuas, gli amizgos, i tlapanechi, i nahuatlacas...» - allineando 47 [quarantasette!] nomi di popolazioni indigene del Messico e dell’America, ognuna con il suo nome originario, prima di giungere agli studenti della Ceu, agli operai e ai contadini senza terra, a «quelli di Barzón, le casalinghe, i coloni, i maestri...», ecc. E nell’introduzione della Quarta dichiarazione della selva Lacandona, riferendosi alla «ribellione che oggi ha il volto bruno e una lingua vera» aveva elencato tutte le 63 lingue parlate nei diversi «pueblos» del Chiapas e del Messico, senza trascurarne o dimenticarne nessuna - cominciando con la lingua náhuatl per arrivare a qualle kikapú - prima di giungere infine, ma solo infine, al castigliano. D’altra parte, non aveva forse soprannominato «Aguacalientes» - quel primo insediamento strappato dagli indigeni alla selva nell’estate del 1994 per accogliervi la prima Convenzione nazionale democratica convocata dall’Ezln: quel primo «spazio» costruito per ospitarvi il «confronto pubblico» - come una sorta di «Torre di Babele», o anche un’«arca di Noè», a sottolineare l’eterogeneità dei partecipanti, la molteplicità delle identità coinvolte, la polifonia dei linguaggi?

    E anche in questo c’è il segno di un’innovazione radicale rispetto alla consolidata matrice politica novecentesca. Là dove infatti lo zapatismo pratica [e teorizza] l’arte dell’eterogeneità, la necessità [e la capacità] di far coesistere e convivere nel medesimo spazio i diversi, la politica novecentesca - quella fondata sul modello Partito/ Stato, sulla logica della potenza e della coppia «amico/nemico» - orientava tutti i propri sforzi nella concentrazione degli omogenei nella costruzione di contenitori di potenza nei quali far confluire ciò che condivideva la medesima sostanza [ideologica, culturale, sociale], i medesimi interessi, l’identica «visione del mondo». Là dove l’uno [il nuovo] tenta di «far stare insieme» i diversi senza sopprimere le loro diversità [la forma civile e «compatibile» con l’esistenza di un mondo pacifico], l’altro [il vecchio] si proponeva di centralizzare le forze ricondicibili al medesimo progetto per strutturare e possibilmente vincere il conflitto su cui poggiava [e si sostanziava] la propria «politicità».

     Là dove il Novecento si proponeva di fare del mondo il «proprio mondo» - attraverso una qualche reductio ad unum diversa a seconda delle culture politiche, ma per tutto affidata a strumenti di potenza - la politica che nasce su quelle macerie si propone, al contrario di immaginare [e di tradurre in pratica, non solo domani, o chissà quando, ma da ora, nella propria prassi] un mondo nel quale ci sia «posto per tanti mondi»: «Nel mondo del potere - si legge nella Quarta dichiarazione già ampiamente citata - c’è posto solo per esso e i suoi servi. Nel mondo che vogliamo noi c’è posto per tutti. Nel mondo che vogliamo noi c’è posto per molti mondi».

3] Cultura versus Forza [o violenza]

     Non vorrei essere frainteso. L’Ezln non è il simbolo della non-violenza. Non è neppure un’organizzazione «pacifista». Come dice il suo stesso nome, è un esercito. Anzi un «Esercito», struttura militare fin nella sua stessa denominazione. La sua prima comparsa pubblica sulla scena «globale» è avvenuta con una «dichiarazione di guerra» [tale era appunto quell’«Hoy decimos basta!» del 2 gennaio 1994, in cui si affermava: «Noi uomini e donne integri e liberi, siamo coscienti che la guerra che dichiariamo è una misura estrema ma giusta»]. «Soldati» si dichiarano i suoi appartenenti, anche se soldati sui generis, «soldati che sono soldati affinché un giorno nessuno più debba essere soldato».

     Erano scesi dalle montagne, avevano abbandonato i «pueblos» della selva, con l’intenzione proclamata di fare una guerra disperata e terribile, di uccidere e soprattutto di morire. E tuttavia neppure allora la «strada del fuoco», come la chiamavano, era la principale; stava dietro, e sotto, l’altra linea, la strada «de la palabra». La Parola ha avuto, sin dall’inizio, sin dal primo comunicato, un ruolo di primo piano nella pratica zapatista.
«Sembrar la palabra», seminare in senso tecnico [come fa il contadino] la parola era la condizione per raccogliere: per «vincere».

     E quando hanno incontrato un’altra grande forza, di cui non avevano immaginato l’esistenza, comunque non nelle dimensioni in cui si è rivelata, fedeli al metodo anti-avanguardistico del «caminar preguntando» - del camminare domandando e, soprattutto, dell’imparare camminando -, hanno saputo ascoltarla. Cercare di capirla, decodificarne il linguaggio, e, senza l’arroganza che invece tradizionalemente ha accompagnato i gruppi guerriglieri e le minoranze rivoluzionarie, accettarne i consigli. Quella forza li implorava di evitare lo spargimento di sangue. Di arrestare la guerra sulla soglia dell’irreparabile. Chiedeva ai soldati - ai «professionisti della violenza» - di sospendere la propria «missione» per tentare qualcosa di completamente diverso, imprevisto e imprevedibile.

     E loro l’hanno ascoltata: «Siamo venuti in città armati di verità e armi da fuoco, per parlare con la violenza il primo giorno dell’anno, oggi siamo tornati in città, sempre per parlare, ma non con il fuoco - diranno nel comunicato del 23 febbraio 1994, nella Cattedrale di San Cristóbal - sono rimaste mute le nostre armi di fuoco e di morte, e si è aperta la strada per permettere alla parola di tornare a regnare nel luogo da cui mai avrebbe dovuto andarsene: la nostra terra». Non significava l’addio alle armi, né l’approdo a una strategia gandhiana. Restava nell’aria, drammatica, la domanda cruciale: «Se è possibile che non siano più necessarie le armi né gli eserciti, che non ci sia più bisogno di sangue e fuoco per lavare la storia, sia così.

     Ma se invece non è così? E se la parola non riesce a superare la barriera della superbia e dell’incomprensione?» E fin che non fu possibile rispondere a quella domanda se le tennero, le armi. Ma sta di fatto che non furono quelle che li salvarono dalla indubbia volontà di vendetta dell’establishment messicano e dei più potenti [e feroci] poteri imperiali.

     Non furono i piccoli fucili di legno che stringevano tra le mani, simbolo di un coraggio estremo, non certo di una potenza invincibile. Furono le parole - sì, proprio le parole - a salvarli, facendosi racconto globale, innervandosi nella rete, raggiungendo orecchie disponibili ad ascoltare e a imparare. Fu l’arte della comunicazione non omologata, di un linguaggio non estenuato nella genericità formalizzata dei media, in sostanza fu la loro «cultura» la chiave della loro «forza». Non li salvò certo una potenza tecnica che non possedevano. Né un deterrente militare che appariva a chiunque spaventosamente asimmetrico rispetto a quello dell’avversario. Li salvò la capacità di tessere rapporti, relazioni lunghe, reti globali alimentate dalla densità della loro relazionalità locale.

     Li salvò la Parola: quella che anche nella loro Bibbia sta all’inizio di tutto [e che i materialisti volgari di tutte le sette tardonovecentesche non smettono di irridere come simbolo dell’«impotenza» velleitaria]. Se le tennero, le armi. Ma non le usarono più, e tutta la loro storia successiva parla il linguaggio di un lungo «addio».

[1] Luis Hernández Navarro, «Cinco miradas para asomarse al puente zapatista», tr.it.: «Cinque sguardi sul ponte zapatista»,
in «Carta» n. 46 del 2003
[2] Giacomo Marramao, «Passaggio a Occidente»,
Bollati Boringhieri, Torino 2003.
[3] Ana Esther Cecena, «Per l’umanità contro il neoliberismo.
Linee centrali del discorso zapatista»
[4] Frente zapatista de liberación nacional,
«Documentos basicos, Principios»,
in
www.fzln. org.mx/modules
[5] Márgara Millán, «Le zapatiste di fine millennio.
Verso politiche di autorappresentazione delle donne indigene», in Alessandro Marucci [a cura], «Camminare domandando.
La rivoluzione zapatista», Derive/Approdi, Roma 1999, p.221.

Da Carta,

La nuova parola zapatista

per gentile concessione di Gigi Sullo

 

LA NUEVA PALABRA ZAPATISTA

di

Marco Revelli

Traduzione di Liliana Rivero

Tengo un recuerdo muy claro de aquel primero de enero de 1994. Sobretodo de la emoción que muchos de nosotros sentimos cuando vimos por la televisión las primeras imágenes de aquellos pequeños hombres con la cara cubierta que en la noche vieja hicieron su aparición, como por arte de magia, por las calles de San Cristóbal de Las Casas. Eran imágenes pobres, un poco borrosas, de gente pobre, entre casas pobres. Caminaban como campesinos, se veía que no eran guerreros, uno tenía un caballo (sólo mucho después sabremos que era el subcomandante Marcos). Hasta podrían haber parecido patéticos, en el reino de la velocidad y de las máquinas de guerra. Y entonces ¿por qué toda esa emoción hasta cierto punto desproporcionada para lo que se sabía del evento?

 

Claro, era la primera ruptura de la calma mundial, después de la gran caída de 1989-91. Era la primera grieta en la compacta superficie del orden planetario después del fin del comunismo. Como ya muchas veces se ha dicho, el movimiento zapatista se presentaba como la primera revuelta contra el neoliberalismo en el mundo: la "primera revolución contra ( y dentro) la globalización". Era, en cierto modo – o podía parecer – la historia que se reanudaba después del "fin de la historia". Y además se sentía ese carácter hilarante de burla en la elección intencional de la fecha, el día en que oficialmente y en gran pompa México habría tenido que entrar en el "Primer Mundo", en el salón de los privilegiados del desarrollo económico financiero, con la adesión formal al NAFTA (Tratado de libre comercio de Norteamérica, entrado en vigor exactamente el primero de enero de 1994). En la acción zapatista se advertía ese sabor de "fiesta de ricos" arruinada con la presencia escandalosa e impropia de los pobres, de los últimos, de lo humildes, malvestidos, malnutridos, impresentables y, hasta ese momento, invisibles indios que robaban la escena y las pantallas a las ampulosas figuras de los presidentes, ministros, industriales y banqueros. Cuadro, por lo demás, que contraseña todas la leyendas sociales, desde Robin Hood hasta Zorro. Pero quizás ni siquiera esto basta para explicar enteramente nuestros sentimientos de entonces.

 

Creo que detrás de aquella emoción tan intensa y prolongada había algo más profundo que las simples imágenes de revuelta. No sé bien cómo decirlo, pero se tenía la percepción de una "ruptura lingüística". De un salto de cualidad en el lenguaje que anunciaba la presencia de un fenómeno (de ruptura) cualitativamente nuevo. Podríamos decir, antropológica y existencialmente nuevo. Esa gente hablaba un lenguaje diferente a todos los otros lenguajes políticos escuchados hasta entonces. "Más verdadero". En todo caso, en una dimensión más profunda de la superficie política. Un lenguaje inmensamente lejano de aquel desgastado, raído de nuestras viejas izquierdas occidentales y también de la jerga fría y formalizada de las tantas guerrillas de los años anteriores. No era un lenguaje encubierto sino todo lo contrario revelaba a los hombres de carne y hueso.

 

Esto ya era perceptible desde el primer día, desde la lectura de la Primera Declaración de la Selva Lacandona que comenzaba con la frase inolvidable ¡HOY DECIMOS BASTA! y contenía once pedidos simples, elementales, dramáticos dentro de su misma esencialidad. Se deben alzar en armas y ocupar 7 ciudades para revindicar lo que se debería dar integralmente a todos y que evidentemente se les ha negado completamente a algunos: "Trabajo, tierra, techo, alimentación, salud, educación, independencia, libertad, democracia, justicia y paz". Pero llegó a ser plenamente visible – al menos yo tuve esa neta certeza – algunos días más tarde, después de la batalla de Ocosingo cuando comunicaron la respuesta del EZLN a la oferta de "perdón" del presidente Salinas siempre que los indígenas depusieran las armas y se arrepintieran del "alzamiento". Recuerdo que fue leída en una gran asamblea en la universidad y produjo sobre todos nosotros aquel extraño efecto electrizante, de encantamiento, de "captura", de rapto, que viene del descubrimiento repentino del "poder de la palabra"; la identificación asombrosa y cautivante entre voz que narra y colectividad que escucha. La había ya observado una vez en el inicio del 68, en las primeras asambleas de Palazzo Campana, cuando se había verificado el prodigio de un salto lingüístico radical que era además la señal de un viraje en la esencia misma de la política.

 

Ese documento contenía, en una sola hoja de papel o algo más, dos preguntas terminantes. La primera: "¿De qué tenemos que pedir perdón? ¿De no morirnos de hambre? ¿De no callarnos en nuestra miseria?¿De no haber aceptado humildemente la gigantesca carga histórica de desprecio y abandono?". Y sobretodo la segunda: «¿Quién tiene que pedir perdón y quién puede otorgarlo? » Con la serie sobrecogedora de repreguntas: «¿Los que durante años y años se sentaron ante una mesa llena y se saciaron mientras con nosotros se sentaba la muerte, tan cotidiana, tan nuestra que acabamos por dejarle de tener miedo? ¿Quién tiene que pedir perdón? ¿Los muertos, nuestros muertos, tan mortalmente muertos de muerte "natural", es decir, de sarampión, tosferina, dengue, cólera, tifoidea, mononucleosis, tétanos, pulmonía, paludismo y otras lindezas gastrointestinales y pulmonares? ¿Nuestros muertos, tan mayoritariamente muertos, tan democráticamente muertos de pena porque nadie hacía nada, porque todos los muertos, nuestros muertos, se iban así nomás, sin que nadie llevara la cuenta, sin que nadie dijera ¡YA BASTA! que devolviera a esas muertes su sentido, sin que nadie pidiera a los muertos de siempre, nuestros muertos, que regresaran a morir otra vez pero ahora para vivir? ».

 

Había en aquel elenco despiadado de enfermedades (sobretodo infantiles), en aquella llamada directa que a su vez es insensata ya que envuelta en la indiferencia de todos, en aquellas palabras del lenguaje común expresadas en primera persona por hombres y mujeres comunes y en aquel constante resalto de los cuerpos, a su capacidad de sufrir y morir y carecer, el mismo carácter de irrupción de la cotidianidad en la política que había caracterizado la "revolución lingüística" del 68, rompiendo el carácter separado, de "rango", de "especialización" así como de técnica indiferente a las personas. El mismo que había permitido un posible "nuevo inicio" político. Recuerdo que yo me preguntaba ¿quién tiene todavía la capacidad de hablar un lenguaje de ese tipo? . ¿ Quiénes son estos que otra vez logran que una proclama sea una poesía?

 

Sobre el momento crucial de la operación lingüística en la práctica zapatista ya dijo lo que se tenía que decir Luis Hernández Navarro cuando escribió que "la rebelión dijo no" al vocabulario de los otros – del poder, no sólo local y nacional sino también global, del poder imperial – «y se fabricó su propio lenguaje. En una época de confusión y perplejidad tomó la palabra sin permiso y dijo algo distinto de lo ya dicho. Frente a la pretensión de hacer aparecer el relato neoliberal como inalterable, contó cosas nuevas de manera novedosa. Se dio a sí misma el derecho de nombrar con coraje lo intolerable y, al hacerlo, hizo renacer la esperanza y produjo sentido donde había ruido». Solamentre se puede añadir que esa "revolución lingüística" ha producido al mismo tiempo una paralela "revolución óptica" Un cambio de 180 grados en la perspectiva a través de la cual se mira el mundo y el modo como las personas se miran unas a otras. Por lo tanto, se ha producido – lo cual es lo mismo - un "salto antropológico".

Lo hemos dicho muchas veces cuánto es importante este "juego de miradas". Cuánto esto constituya la medida de la "relación con el otro". Y cuánto revele el "pecado original" de Occidente – motivo éste de su ilegitimidad en el presentar la propia candidatura a la hegemonía global o ya sólo en el proponer el propio estatuto como modelo de norma para el mundo – que consiste en su incapacidad de mirar (o más bien de VER) a los otros. Peor aún en su ibris: en la arrogante imposición a los otros (a los que están fuera del círculo mágico del privilegio, al llamado "tercer mundo", por no decir "último") de mirarse a sí mismos con nuestros ojos – con los ojos de quien está en alto - , y de avergonzarse de tener que ver con esa mirada lo que hay allá, abajo, en la periferia, donde viven la propia marginal existencia (este ha sido el producto tóxico del colonialismo). Pues ahora esos indios, esos "invisibles" de siempre, arrojando el vocabulario de los vencedores, inaugurando un nuevo léxico poéticamente propio para contar el mundo, cambiaban desde la raíz la dirección de la mirada. Volcaban la perspectiva desplazando el vértice hacia la parte de ellos: dejaban de mirarse con "nuestros ojos" y empezaban a mirarse a sí mismos y sobretodo a nosotros con "sus propios ojos". Haciendo así (afirmando, como diría Marramao, el "vértice óptico de la diferencia"), ellos asumían por su cuenta un "poder constituyente": daban origen a un nuevo "paradigma político"; a una nueva forma de política destinada a un mundo reconocido como cualitativamente diferente a la del relato oficial.

Por supuesto no faltó quien en aquel momento y en los años siguientes continuó considerando esa experiencia como algo "exótico", respetable pero marginal – periférico en todo sentido, no sólo desde el punto de vista geográfico – convencidos, según los cánones de una larga tradición política occidental, que la partida se jugaba en otra parte, aquí, donde el conflicto capital-trabajo permanece crucial, donde la acumulación de potencia por parte del sujeto antagonista puede competir de igual a igual con el adversario y donde "todo se ha decidido siempre". No fueron pocos los que también entonces simpatizaron con los pequeños indios, pero se quedaron irremediablemente escépticos sobre la posibilidad de que desde la Selva Lacandona – desde el interior de ¡"una selva"!, no desde los estudio-oficinas de las potentes organizaciones del movimiento obrero europeo o desde las prestigiosas universidades occidentales llenas de intelectuales ya no orgánicos, pero siempre alineados – pudiera salir un nuevo "orden del discurso" político. Una cultura de la resistencia y de la transformación en grado de ayudar a la agonizante izquierda mundial. En cambio, yo creo que justamente es así. Que desde dentro de la selva, esos hombres aparentemente "ingenuos" – quizás precisamente por su misma "simplicidad" o por lo que exactamente se entiende por "inocencia" – se dicen una verdad sobre el mundo que nuestra mirada avispada y opulenta no había entendido. Dicen el mundo – el verdadero, el compuesto por cuatro quintas partes de nuestra "tierra-patria", ese mundo en el que se puede continuar a morir por millones "simplemente así nomás, sin que nadie lleve la cuenta" y sin que nadie lo tenga en cuenta – en términos mucho más auténticos de lo que nosotros somos capaces, aunque sólo nombrándolo.

Seguramente es una revolución copérnica: el universo relatado desde la periferia con una credibilidad que ya no es posible hacerlo desde el "centro" La nueva geo-sociedad cartografiada desde abajo con un perfil mucho más preciso de lo que pueden hacer desde arriba las tecnologías del satélite. Pero es al mismo tiempo, en muchos sentidos, una revolución esperada, ahora que la globalización, con la consiguiente "muerte de la distancia", ha borrado toda posibilidad de separación y distinción entre centro y periferia, ha dejado de tener significado toda jerarquía espacial. Y de este modo puede suceder que el embrión de un nuevo "paradigma político" innovativo y desconstructivo - en relación al consolidado "de los modernos" a cuyo léxico estamos todavía ligados como a la clásica muela que se arrastra bajo el agua - tome forma allá, en ese "afuera" convertido inesperadamente "interior" en nuestro horizonte de hombres "planetarios". Evidentemente no se trata de imitar o exportar la forma del modelo, del "país guía", del "partido guía", de la "teoría ortodoxa", etc…Se sabe que el zapatismo no puede ser reproducido en otro lugar, ya que son tantas las particularidades históricas, culturales, geográficas, étnicas, declaradas y reivindicadas que lo connotan. Pero sí se puede anunciar que es posible otra gramática del discurso político, que otra metodología de enfoque a la cuestión crucial de la elaboración de un "orden justo" para el planeta hoy puede ser al menos pensable.

Sobre esto, yo creo que el zapatismo es parte integrante de una vía de investigación sobre una posible "política del futuro". Ya se sitúa, en cierto modo, en el nuevo siglo ( o mejor, en el nuevo milenio). De todos modos, usando la expresión acuñada por Gigi Sullo, más allá de la línea de falla que marca la salida del Novecientos y que, rompiendo el tiempo, separa el futuro que ya ha comenzado desde el pasado próximo que todavía trata de retenernos. No por nada, en el precioso ensayo dedicado a las Líneas centrales del discurso zapatista, Ana Esther Cecena ha escrito que "el primero de enero de 1994 es el día en que el tercer milenio irrumpe en México" (y no sólo en México). Ese discurso que sale de la selva, no ignora la tradición del movimiento obrero del novecientos y en particular de su componente revolucionaria, pero se coloca explícitamente más allá del foso escavado con su propia caída. Como un "nuevo inicio", del cual resultan evidentes los tantos "hilos cortados", los imponentes "deslizamientos", las clamorosas "desconstrucciones". Se considere el identikit del "sujeto revolucionario" que en dicho ensayo Ana Ester Cecena trazaba a partir del zapatismo y de su grado de innovación: «Su lugar no es la fábrica sino las profundidades sociales. Su nombre no es proletario sino ser humano; su carácter no es el de explotado sino el de excluido. Su lenguaje es metafórico, su condición indígena, su convicción democrática, su ser colectivo».

Aquellas antítesis simples, pero netas, tan evidentes como arduas de entender, contienen la recapitulación sintética de los aspectos cualificantes de la "gran transformación" técnica, productiva, social y cultural que ha cambiado la faz del mundo en los últimos decenios y sobre la que tantos (y muchas veces prolijos) análisis se han producido. Pasaje del fordismo al posfordismo, implosión de la fábrica, desverticalización, deslocalización, descentralización de la producción y articulación territorial de los procesos productivos, caída de la rígida distinción entre trabajo dependiente y autónomo con la consiguiente multiplicación de las figuras del trabajo y el éclatement de la "sociedad salarial", sustituída por estrechas uniones desestructuradas y móviles, habitadas por formas extremas y difusas de precarización y de ambivalencia que borran la bella desarmonía simétrica de la estructura y del conflicto "de clase". Todo esto – y más aún – se entrevé entre los recovecos de ese identikit inédito, por lo menos como bagaje del discurso alternativo zapatista, y nos muestra cuánto ése hable efectivamente de nosotros, aunque sea a esa distancia; nos diga, mucho más de lo que hasta ahora hemos estado dispuestos a reconocer, en qué medida nosotros ya estamos lejos de los presupuestos de nuestras absoletas identidades rebeldes; cuánto haya cambiado bajo los pies nuestro mismo mundo ( en qué amplitud y en qué profundidad se haya extendido la falla). De modo que la identidad rebelde, si quiere continuar a habitarlo, tiene que cambiar las propias formas de acción, las propias modalidades de ejercicio del antagonismo y de la resistencia; en una palabra, el proprio "paradigma político", con una ruptura que es mucho más profunda que el simple nivel de la "táctica", o de la "teoría de la organización". Una ruptura que podríamos definir al mismo tiempo"epistemológica" y "antropológica", hundida en los módulos del conocimiento y de la relación, de la percepción del mundo y de la forma de habitarlo.

 

Si debo intentar una síntesis ( que es siempre una "reducción" de la complejidad) y una representación esquemática de los términos de esa "ruptura epistemológica" que está detrás, o debajo, de la innovación zapatista, las estructuraría en tres niveles diferentes pero complementarios y circularmente conexos de antítesis. En tres parejas antitéticas, que convergen en el definir de modo polarizado la diferencia entre dos paradigmas:

 

Espacio versus Poder

 

Autonomía versus Centralización

 

Cultura versus Fuerza (o violencia)

 

Tratemos de examinarlos separadamente.

 

Espacio versus Poder

Sobre la cuestión del poder no hay ninguna duda. Que el zapatismo se haya caracterizado, desde siempre, por la ruptura explícita con el modelo político dominante de la izquierda revolucionaria del novecientos, fundado en la centralidad del problema y del objetivo de la "toma del poder" – que esto sea uno de los razgos caracterizantes, quizás el principal – es algo resabido. El concepto está expresado muy claramente en los Principios del Frente Zapatista de Liberación Nacional, en el tercer punto donde se afirma que « el alzamiento zapatista de 1994...mostró la necesidad y posibilidad de una nueva forma de hacer política, sin aspirar a la toma del poder y sin posiciones vanguardistas, además de que reconoció y estableció puentes con un movimiento civil y pacífico, no partidario y heterogéneo, emergente: la sociedad civil».

Y regresa en una inifinidad de documentos, tomas de posición, declaraciones de Marcos y del EZLN. En cambio, menos conocida es la cuestión del Espacio. El punto crucial que el tema de la espacialidad asume en alternativa a la del poder (y de la potencia). Sin embargo, ya era explícita desde la Segunda declaración de la Selva Lacandona donde se leía: "...la revolución no se realizará en una nueva clase, facción o grupo en el poder, sino en un "espacio" libre y democrático de lucha política... Nacerá una relación política nueva. Una nueva política". Y se regresa a este tema del espacio, cierto que sin ostentaciones – como no se ostenta lo que de por sí es evidente – en casi todos los documentos zapatistas, declinado en todas sus distintas formas y acepciones: de "lugar físico", tierra, territorio, aldea, sitio donde materialmente se desarrolla la vida cotidiana y se enlazan las relaciones fundamentales entre los hombres; de "lugar simbólico" de la representación y autorepresentación de la comunidad, espacio público mental en el que se define la identidad y se practica la interrelación, donde se encuentra al otro en el discurso (los "aguacalientes" han sido esto); hasta inclusive de "lugar institucional", o sea de ámbito de democracia entendida como mando desde abajo sobre quien manda, lugar de condenzación de una voluntad colectiva producida por la multitud y capaz de expresión y de palabra en relación al poder (el "Caracol" promete llegar a ser eso). Y además, naturalmente – y es la acepción que las atraviesa todas- el "espacio" como contexto en el que se arrraiga la resistencia, ya no en manos de la mítica conquista de un poder estatal central desde la cual ejercitar la propia voluntad, sino como jus excludendi, posibilidad de preservar el propio ser comunidad, red de relaciones autodecididas y autodirigidas, del desarraigo que viene del externo ( o, lo que es lo mismo, "de arriba"); de las irrupciones, destructivas, de poderes arbitrarios y de una cultura (por decirlo así) dominante, indiferente a todo (historia, identidad, razones, creencias y necesidades) excepto que a sí misma y a la propia utilidad.

 

Y en muchos aspectos esta es la pars construens del paradigma zapatista: la clave a través de la cual se trata de apartar la política de la catástrofe reduccionista del novecientos como pura dimensión instrumental ( la que absolutiza la eficacia de los medios) y del horror de su "autonomía" para reconducirla, a través de una nueva vía, al ámbito de lo social. A su densidad relacional. A la expresividad y al lenguaje de la cotidianidad vivencial. Como ha observado muy acertadamente Márgara Millán, en un valioso ensayo dedicado a las mujeres zapatistas "de fin de milenio", «El zapatismo, así como se está definiendo actualmente, se interesa en construir un espacio público, un espacio en el cual los diversos puedan comunicar y hablar entre ellos. Un espacio público que sea el espacio de lo político, negado por la modernidad a causa de la profesionalización de la política parlamentaria, suplantado por el mercado y monopolizado por el capital. Espacio de y para los sujetos sociales, hoy inexistente y obstaculizado por la racionalidad del valor, del provecho y de la teoría sobre la seguridad nacional que protege el orden mundial de los monopolios ».

 

Por esta via el zapatismo atraviesa uno de los nudos relevantes – en ciertos aspectos esenciales – de la globalización entendida como "revolución espacial": violenta subversión de la espacialidad consolidada, extrema manipulación técnica del espacio – su comprensión absoluta, "muerte de la distancia", unificación planetaria y apertura de ésta a la plena operatividad de los "flujos" en contra de los "lugares", etc. – al punto de transformarlo en ámbito unificado global para la megamáquina planetaria. O sea, acentúa lo que es el rasgo dominante – la variable independiente, diría un sociólogo – de la constitución material de nuestro tiempo histórico (de nuestra modernidad "pos-siglo XX" se podría decir si se prefiere al término posmoderno; o del tiempo del "espacio imperial" si no se desean los "pos") y afronta, como no lo había hecho hasta ahora ninguna otra identidad política de la vieja o de la nueva izquierda, el nudo crucial de cómo "se está"- cómo se coloca y se lucha – entre "global" y "local". De cómo se responde al desafío del pensamiento único y de la movilización total del mundo al servicio de un capitalismo oligárquico y transnacional, permaneciendo de alguna manera con su propia identidad y al mismo tiempo moviéndose con un radio de acción y una capacidad de "alteridad" adecuados al desafío.

Ese espacio aparentemente minúsculo "dejado abierto" a fuerza de brazos en el centro mismo de la selva Lacandona – quisiera decir "suficientemente minúsculo" para permitir otra vez a aquellos hombres y a aquellas mujeres mirarse en la cara, en sus rostros de invisibles, a través del pasamontañas y de nombrarse unos a otros llamándose por nombre, el viejo Antonio, el pequeño Heriberto con su carrito de juguete, o el Beto, el Ismita, el Nabor...– y al mismo tiempo dilatado a escala planetaria, capaz de hablar un lenguaje inmediato, no formal, susceptible de hacer vibrar cuerdas que estaban mudas y de movilizar apoyo, simpatía, identificaciones universales deja muy bien entender esta inédita capacidad de "manejar el espacio". Y de moverse con naturalidad en la dimensión oxímora de una modernidad estallada a tal punto de no dejar ya "trabajar" dentro de las acostumbradas coordinadas espacio-temporales, y de necesitar justamente un "salto de paradigma". Una ruptura epistemológica.

 

Autonomia versus Centralización

Quizás es el aspecto más conocido y compartido. Todos los documentos zapatistas, radicados en una antigua tradición india, respetuosos de esa tradición, insisten incansablemente sobre el tema de la Autonomía. En el fondo es la otra cara del tema crucial del Espacio. La territorialización de la acción política, el rol decisivo que asume en ella el espacio territorial y directamente en función de la auto-organización y del autogobierno de las comunidades. El espacio es justamente el espacio dentro del cual la comunidad elabora y defiende la propia autonomía: el ser soberana de sí misma. El ser propio del sujeto irreducible a la dimensión indiferenciada ( e indiferente) de la espacialidad estatal; y sin embargo, precisamente porque es irreducible, sujeto que se reconoce necesariamente "con otros". Que afirma y defiende la propia identidad en cuanto diferencia destinada a convivir con otras identidades, en una concepción radicalmente igualitaria y al mismo tiempo diferenciada. "Identificadora" y pluralista. Sobretodo pluralista.

 

Un rasgo que asombra en la propaganda zapatista es la insistencia en la heterogeneidad. En la multiplicidad de las etnias, de los lenguajes, de las culturas que confluyen y se quisiera que convivan en el universo local zapatista. Regresa continuamente, en las formas más diversas. El 12 de junio de 1994, por ejemplo, cuando debía responder a la propuesta de rendición por parte del gobierno, Marcos la había abierto con una larga lista de "llamadas" - «Señores, ¡corran! Avisen a los mazahuas, a los amizgos, a los tlapanecos, a los nahuatlacas... » alineando 47 (¡cuarenta y siete!) nombres de poblaciones indígenas de México y de América, cada una con su nombre originario, antes de llegar a los estudiantes de la Ceu, a los obreros y a los campesinos sin tierra, «a los de Barzón, las amas de casa, los colonos, los maestros... », etc. Y en la introducción de la Cuarta declaración de la Selva Lacandona, refiriéndose a la "rebelión que hoy tiene el rostro moreno y una lengua verdadera" había elencado todas las 63 lenguas habladas en los diversos pueblos de Chiapas, sin descuidar u olvidar ninguna – empezando con la lengua nàhuatl hasta llegar a la de kikapù – antes de llegar al fin, pero no última, al castellano. Por otro lado, ¿no había apodado justamente Aguascalientes – ese primer asentamiento arrancado por los indígenas a la selva en el verano de 1994 para establecer la primera Convención democrática convocada por el EZLN: ese primer espacio construido para asumir la "confrontación pública"– como una suerte de "Torre de Babel", o de un "arca de Noé", que subrayaba la heterogeneidad de los participantes, la multiplicidad de las identidades involucradas, la polifonía de los lenguajes?

 

Y también en esto está la señal de una innovación radical respecto a la consolidada matriz política del siglo XX. Allí donde el zapatismo practica (y teoriza) el arte de la heterogeneidad, la necesidad (y la capacidad) de hacer coexistir y convivir en el mismo espacio los diversos, la política del siglo XX – la fundada en el modelo Partido/Estado, en la lógica de la potencia y de la pareja "amigo/enemigo" – orientaba todos sus esfuerzos en la concentración de los homogéneos, en la construcción de contenedores de potencia en los cuales hacer confluir lo que compartía la misma sustancia (ideológica, cultural, social), los mismos intereses, la idéntica "visión del mundo". Allí donde el uno (el nuevo) trata de "poner juntos" a los diversos sin suprimir su diversidad (la forma civil y "compatible" con la existencia de un mundo pacífico), el otro (el viejo) se proponía centralizar las fuerzas reconducibles al mismo proyecto para estructurar y posiblemente vencer el conflicto en que se apoyaba (y se materializaba) la propia "politicidad".

Allí donde el siglo XX se proponía hacer del mundo el "propio mundo" – a través de algún reductio ad unum según las culturas políticas, pero del todo encargada a instrumentos de potencia – la política que nace sobre esos escombros se propone, en cambio, imaginar (y traducir en práctica , no sólo mañana, o quién sabe cuándo, sino desde ahora, en la propia praxis) un mundo en el que haya "lugar para tantos mundos": «En el mundo del poder – se lee en la Cuarta declaración ya ampliamente citada – hay sitio sólo para él y sus siervos. En el mundo que queremos nosotros hay sitio para todos. En el mundo que queremos nosotros hay sitio para muchos mundos».

 

Cultura versus Fuerza (violencia).

No quisiera ser malentendido. El EZLN no es el símbolo de la no violencia. Tampoco es una organización "pacifista". Como dice su mismo nombre, es un ejército. Es más, un "Ejército" o estructura militar, ya desde su misma denominación. Su primera aparición pública en la escena "global" se realizó con una "declaración de guerra" (tal era justamente aquel "¡Hoy decimos basta!" del 2 de enero de 1994 en el que se afirmaba: «Nosotros hombres y mujeres íntegros y libres, somos concientes que la guerra que declaramos es una medida extrema pero justa»). "Soldados" se declaran sus integrantes, pero soldados sui generis: «soldados que son soldados hasta que un día ninguno deba ya ser soldado». Habían bajado de la montaña, habían abandonado los pueblos de la selva, con la intención proclamada de hacer una guerra desesperada y terrible, de matar y sobretodo de morir. Y sin embargo ni siquiera entonces "el camino del fuego", como lo llamaban, era el principal; estaba atrás, y debajo, la otra línea, el camino "de la palabra". La Palabra tuvo, desde el principio, desde el primer comunicado, una función de primer plano en la práctica zapatista. "Seminar la palabra", seminar en sentido técnico (como hace el campesino) la palabra era la condición para cosechar: para "vencer".

Y cuando encontraron otra grande fuerza de la cual no habían imaginado la existencia, en todo caso no en las dimensiones como se reveló, fedeles al método antivanguardista de Caminar preguntando – y sobretodo de aprender caminando – supieron escucharla. Tratar de entenderla, decodificar su lenguaje, y sin la arrogancia que en cambio ha acompañado a los grupos guerrilleros y a las minorías revolucionarias, aceptar sus consejos. Esa fuerza le imploraba que evitasen derramamiento de sangre. De parar la guerra en el borde de lo irreparable. Pedía a los soldados, a los "profesionales de la violencia" – de suspender la propia misión para intentar algo completamente diferente, imprevisto e impredecible.

Y ellos la escucharon: «Vinimos a la ciudad armados de verdad y armas de fuego, para hablar con la violencia el primer día del año, hoy hemos regresado a la ciudad, lo mismo para hablar, pero no con el fuego – dirán en el comunicado del 23 de febrero de 1994, en la Catedral de San Cristóbal – se han quedado mudas nuestra armas de fuego y de muerte y se ha abierto el camino para permitir a la palabra regresar a reinar en el lugar de donde nunca hubiera tenido que irse: nuestra tierra». No significaba el adiós a las armas, ni el arribo a una estrategia gandhiana. Quedaba, en el aire, dramática, la pregunta crucial: «Si es posible que ya no se necesiten las armas ni los ejércitos, que ya no sean necesarios la sangre y el fuego para lavar la historia, que así sea. ¿Pero si en cambio no es así? ¿Y si la palabra no logra superar la barrera de la soberbia y de la incomprensión? ». Y hasta que no fue posible contestar a esa pregunta, se las tuvieron, las armas. Pero de hecho no fueron ellas que los salvaron de la indudable voluntad de venganza del establishment mexicano y de los potentes (y feroces) poderes imperiales.

No fueron los pequeños fusiles de madera que apretaban entre las manos símbolo de un coraje extremo, no ciertamente de una potencia invencible. Fueron las palabras – sí, precisamente las palabras – a salvarlos, haciéndose relato global, ramificándose en la red, llegando a oídos dispuestos a escuchar y a aprender. Fue el arte de la comunicación no homologada, de un lenguaje no extenuado en lo genèrico formalizado de los medios de comunicación; en sustancia, fue su "cultura" la clave de su "fuerza". Claro que no los salvó una potencia técnica que no poseían. Ni una disuasión militar que a todos parecía espantosamente asimétrica respecto a la del adversario. Los salvó la capacidad de tejer relaciones, relaciones largas, redes globales alimentadas por la densidad de sus relaciones locales.

Los salvó la Palabra: la que incluso en su Biblia esta al principio de todo ( y que los materialistas vulgares de todas las sectas del último período del siglo XX no dejan de ridiculizar como símbolo de la "impotencia" veleidosa). Se las tuvieron, las armas. Pero ya no la usaron, y toda su historia posterior habla el lenguaje de un largo "adiós".

 

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Marco Revelli

Le tre novità dello zapatismo

La politica perduta

Marco Revelli
Nuto Revelli

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a cura di Nadia Scardeoni

Interlinea

Il Colore della Terra

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Somos puente, nosotros....

En este el año siete de la guerra contra el olvido, repetimos lo que somos.

Somos viento, nosotros. No el pecho que nos sopla.
Somos palabra, nosotros. No los labios que nos hablan.
Somos paso, nosotros. No el pie que nos anda.
Somos latido, nosotros. No el corazón que lo pulsa.
Somos puente, nosotros. No los suelos que se unen.
Somos camino, nosotros. No el punto de llegada ni de partida.
Somos lugar, nosotros. No quien lo ocupa.
No existimos nosotros. Sólo somos.
Siete veces somos. Nosotros siete veces
Nosotros, el espejo repetido. El reflejo, nosotros
La mano que apenas abre la ventana, nosotros
Nosotros, el mundo llamando a la puerta del mañana.

Intorno a : La nuova parola zapatista

Samuel Ruiz Garcia , Monsignore di "sotto" 

m a r c o s Guerrigliero on-line

20 e 10, il fuoco e la parola

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MARCOS articoli

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