Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Abrogare o ritoccare la riforma Moratti?

di Paola Blondi

 

Se dobbiamo – e lo dobbiamo – predisporre un programma per la nostra politica scolastica, il primo nodo da sciogliere è la riforma Moratti. E’ chiaro che dalle nostre parti la legge 53/03 e i successivi decreti non sono piaciuti, a chi per una ragione a chi per un’altra, con resistenze e opposizioni non tutte della stessa entità e velocità. Però non è piaciuta. Questo è il punto da cui partire.

 

Nelle piazze (e non solo) si è levato il grido “abrogazione”, giusto quanto è accaduto alla riforma Berlinguer, prima sospesa poi abrogata. Non abbiamo nulla da imparare da questo governo, tanto meno un metodo di epurazione, ma è pur vero che ognuno fa politica con un proprio programma, anche rispetto alla scuola. Se la riforma in atto non corrisponde ai nostri obiettivi e valori, essa non può far parte del programma.

C’è chi tra noi sostiene che di riforma il sistema di istruzione ne ha davvero bisogno e che qualche concreta trasformazione è stata compiuta con esiti (ad esempio l’alternanza scuola-lavoro) non del tutto disprezzabili: lasciamola dunque in pace, questa scuola reale che negli ultimi trent’anni ha dato il massimo di se stessa, con riforme annunciate e abortite. Modifichiamo, correggiamo, ma non abroghiamo per partire daccapo. Il ragionamento non è privo di fondamento, ma è sempre assai difficile dire se sia meglio curare con qualche blanda medicina o mettersi nelle mani di un chirurgo. Per stare nella metafora, la cosa migliore è una buona salute, cosicché c’è da ripartire dal programma, da un nostro programma, che sia condiviso dalla scuola, poi penseremo al da farsi nei meriti della legge 53/03.

E siamo così alla prova di un programma condiviso dalle nostre parti, la scuola rappresenta senz’altro una palestra non insignificante per verificare come possiamo metterci d’accordo. Alcuni nodi (la scuola parificata, la formazione professionale, educazione e azienda) sono sotto gli occhi di tutti. C’è però una bella piattaforma comune altrettanto evidente: la scuola pubblica, l’obbligo scolastico e il suo prolungamento, il valore della Costituzione, il laico contro l’ideologismo, il non becero revisionismo, l’obbligo formativo, il ruolo dell’istruzione e della formazione per il nostro essere in Europa, per la coesione sociale del Paese, per livelli di cultura più alti per tutti, per un diritto all’accesso ma anche al successo, per lo sviluppo giacché sta nella ricerca e nell’istruzione/formazione il valore aggiunto per far girare l’economia e con essa il benessere di tutti. Partiamo dunque da qui e se la legge 53/03 non fa al caso nostro per favore parliamo di contenuti e non di tatticismi.

 

Proviamo ad aprire il dibattito, mettendo a fuoco alcuni primi punti.

1.     C’è da augurarsi che sia fuori discussione l’intesa su un obbligo prolungato a 16 anni, scolastico e all’interno di una prospettiva di apprendimento lungo tutto l’arco della vita a partire da una solida base culturale per tutti, intendendo per “cultura” l’assicurazione di tutti i saperi necessari al cittadino europeo in quella che oggi è definita la società della conoscenza. Un obbligo dunque nella scuola, cui non manchi l’apporto dell’integrazione con tutti i sistemi dell’apprendimento non formale e informale, nonché della formazione professionale. Un obbligo che non implichi alcuna scelta precoce di progetto di vita, garantisca quindi un percorso di orientamento sul campo, flessibile e componibile nei crediti formativi, coerente e organico nella progettazione curricolare. Un obbligo che implichi un ruolo forte della cultura tecnica e del lavoro, per tutti; essa è indispensabile al giovane che vive nel terzo millennio, per una coesione che per essere sociale deve essere innanzi tutto culturale. Un obbligo che da scolastico divenga formativo, oltre i 16 anni, per assicurare a tutti entro il diciottesimo anno di età un titolo spendibile.

2.     Dieci anni di obbligo di istruzione debbono necessariamente scandirsi in cicli. La riforma Berlinguer aveva nel merito la sua proposta, che nella scuola ha suscitato un vespaio. La riforma Moratti ha creduto di ingannarci nel conservare la forma tradizionale dei cicli, finendo per ridisegnarli nella sostanza. Non possiamo nasconderci che dietro alla determinazione dei cicli ci sono abitudini, interessi, cattedre, posti di lavoro. Noi però abbiamo scelto la via del programma, non dei tatticismi. Allora cominciamo col dire che la nostra scuola elementare premorattiana (non di meno la scuola dell’infanzia) ha dato ottimi frutti in un percorso quinquennale e in una impostazione didattica consolidata. E’ un bene da conservare, semmai da ottimizzare. I restanti cinque anni, in una scansione 3+2 segnano adeguatamente le tappe dello sviluppo adolescenziale; meritano però curricoli rinnovati e non all’insegna di una “razionalizzazione” a fini di risparmio della spesa.

3.     Ne deriva un punto conseguente, che riguarda le risorse. Il nostro programma deve partire dalla consapevolezza che non può essere vera alcuna riforma senza abbondanti risorse, che l’istruzione merita ogni sforzo di investimento proprio ai fini dello sviluppo sociale ed economico del Paese. Se i soldi non ci sono, la riforma non si fa. Niente più giochetti sul tempo pieno o sugli slogan senza ore curricolari.

4.     Rinnovare i curricoli è certamente un’esigenza. Per parlare sull’onda delle polemiche che la riforma Moratti ha suscitato, nel nostro programma sappiamo che deve esserci spazio per saperi e competenze quali le lingue, le tecnologie (altro che abolire l’educazione tecnica), i nuovi linguaggi, l’orientamento, la “convivenza civile” (che a parte l’ideologismo è forse l’unica discreta eredità morattiana) e così via. Rivedere i curricoli, pur non partendo da una riduzione di ore a fini di economia della spesa, significa necessariamente mettere a punto nuovi equilibri. Il nostro programma, ben lungi dai tatticismi, deve qui assumere un metodo, che sta nella valorizzazione piena dell’autonomia scolastica e, in fase di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (necessariamente nazionali), nella consultazione e concertazione con la scuola reale. Siamo qui fortunati: nel creare un movimento di opposizione alla riforma, la scuola ha trovato forme di espressione e aggregazione, ha preso parola, può così essere assai più facile rapportarsi ad essa. Abbandonando, sia chiaro, la strada di commissioni megagalattiche di esperti che nulla sanno per davvero della scuola; men che meno attribuendo alle “corporazioni degli interessi” ruoli eccedenti il loro significato di rappresentanza culturale (qualora sia onestamente da riconoscersi).

5.     C’è poi il secondo ciclo e questa benedetta questione del sistema duale (Stato e Regioni, istruzione e istruzione e formazione professionale). Dopo i 16 anni servono curricoli nessuno aprofessionale, questo è un primo punto da cui partire indipendentemente dalle nomenclature di liceo o istituto. Servono formazioni direzionate all’inserimento nella vita attiva (del lavoro e sociale) ivi compreso il proseguimento degli studi nell’università piuttosto che in altre forme di istruzione e formazione superiore. Il discorso è ampio e complesso, andrà messo a punto con calma, partendo – questa è la nostra proposta – da un sistema flessibile e componibile attraverso la certificazione di crediti e l’integrazione cooperativa di tutti i sistemi di istruzione e formazione. Quel che il nostro programma deve sicuramente ricusare è un sistema fortemente differenziato in licei e non licei; il criterio della “differenza” non deve venire da un’impostazione di divisione sociale, ma da una varia correlazione con i settori economici di riferimento per le formazioni. Non ha così alcun senso la questione morattiana degli istituti tecnici. Per gli istituti professionali, se un problema esiste, è quello di abbattere una inutile “ripetizione” degli istituti tecnici in una gerarchia scolastica (licei, tecnici e professionali) oggi fondata sulle differenze delle utenze (i bravi ai licei, i mediani ai tecnici, gli sfigati ai professionali). Il sistema che il nostro programma potrebbe disegnare dovrebbe comprendere curricoli di effettiva pari dignità, di unica nomenclatura burocratica, caratterizzati nei crediti correlati alle varie professioni.

6.     E il nuovo Titolo V della Costituzione? Esso, interpretato nel nostro programma, distingue tra istruzione (fino ai 16 anni) e istruzione e formazione professionale (dopo i 16 anni) implicando nel secondo ciclo una forte e determinante integrazione tra la scuola e la formazione professionale (per tutti i curricoli). Le competenze delle Regioni? Massime, come ha ribadito una recente sentenza della Corte costituzionale, nel merito delle funzioni di programmazione della rete dell’offerta, di gestione in riferimento ottimale al territorio locale. Via i finti drammi di licei dello Stato e scuole regionali: non è questo il disegno di un’autonomia che intende valorizzare le sinergie concrete che possono svilupparsi nel locale, anche con le parti sociali. E’ un processo di decentramento per un buon governo, in relazione a standard e regole nazionali unitarie. Ogni istituto scolastico lo sa: ha potuto verificare, in particolare dopo gli assalti morattiani, quali siano i vantaggi dell’autonomia e quanto essa non corrisponda in alcun modo a una destabilizzazione.

Non abbiamo certo esaurito tutti i punti del programma per la scuola, neppure quelli cruciali quali un eventuale anticipo dell’età scolare, l’alternanza scuola lavoro, la formazione degli insegnanti, il sistema di valutazione nazionale e così via. E’ la nostra solo un’apertura del dibattito, con un’ultima considerazione: per favore, procediamo a passi graduali e tutti garantiti, senza salti nel buio. Quando la politica accelera, a pagare è la scuola reale.

17 luglio 2004


La pagina
- Educazione&Scuola©