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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

DALLA SCUOLA DI MASSA ALLA CITTADINANZA EDUCATIVA

 di Giovanni Fioravanti

 

Il passato presente

   Le professioni di fede che durante il Novecento hanno graziato le sorti meravigliose e progressive della scienza  e della tecnica, lo Stato-Nazione, unità etnica ed etica, il determinismo della rivoluzione socialista, l’inesauribilità delle risorse naturali, hanno da tempo lasciato il campo a inquietudini più autenticamente figlie del pensiero e della cultura del nostro tempo, con un mix di razionale e di irrazionale che meglio sembra corrispondere al naturale cammino degli uomini.

Pare, dunque, essersi esaurita la funzione che le principali correnti del pensiero ottocentesco hanno avuto nel determinare le sorti del secolo appena tramontato, per cui non ritengo che si debba considerare un puro esercizio accademico avanzare l’urgente necessità di un ripensamento radicale  delle categorie e dei principi che, sebbene da tempo ampiamente devitalizzati o disattivati, pure hanno costituito e ancora costituiscono le fondazioni del nostro sistema educativo secondo un principio di deweyana memoria per il quale non vi sarebbe pedagogia senza filosofia, o meglio diremmo oggi che ogni educazione è figlia della weltanschauung del proprio tempo.

   Senza sottovalutare i rischi di una eccessiva schematizzazione, credo che si possa affermare a proposito del caso italiano che valori e fini hanno segnato le dominanti del discorso intorno alla scuola per tutta la prima metà e oltre del Novecento, risentendo in massima parte dell’asfissia dottrinale ottocentesca, con un marcato prevalere delle istanze educazionali su quelle inerenti all’istruzione.

Ad un’inversione sia pure faticosa si assiste dopo gli anni sessanta tanto che a venire ad oggi è il binomio, di per sé programmatico, dell’insegnamento-apprendimento ad emergere nell’ambito di ciò che da discorso si è andato sempre più problematicamente facendo ricerca educativa.

   Ciò nonostante l’accento sull’istruzione scivola ancora via per ricadere innanzitutto sui suoi contenitori ed è sufficiente per rendersene conto pensare alle riforme compiute e a quelle mancate.

E’ il sistema scuola nei suoi diversi gradi a divenire il soggetto con riscritture di programmi, con leggi che ne investono l’organizzazione e l’uso delle risorse, senza per altro riuscire a capitalizzare risultati da ritenersi apprezzabili al vaglio di un attento esame critico. L’unico obiettivo segnato pare essere quello della scolarizzazione di massa ben presto contraddetto dal fatto che alla sua dimensione formale non ne corrisponde una altrettanto sostanziale, vale a dire che la qualità ogni giorno smentisce la quantità[1].

   Almeno in apparenza, ogni velleità sulle finalità ultime della scuola è stata abbandonata, al di là del generico comeniano tutto a tutti la cui versione contemporanea sarebbe un diritto allo studio affermato a parole ma poi ancora ampiamente negato nei fatti.

Incapaci di formulare una comune visione intorno ai fini e soprattutto un’organica e condivisa politica scolastica, ogni intervento ha solo sfiorato gli aspetti sostanziali della formazione per incentrarsi sull’organizzazione e sugli strumenti senza per altro riuscire a scalfire in modo significativo la struttura burocratica della amministrazione scolastica.

La nostra scuola, per come si esprime quotidianamente, pare destinata a non divenire mai né autenticamente democratica né mai culturalmente emancipatrice e ciò fino a quando innovazioni organizzative e strumentali continueranno a servire indifferentemente il vecchio e il nuovo, quando non fini tra loro nettamente contradditori con la conseguenza che è sotto gli occhi di tutti di snaturare anche quello che di positivo si sarebbe potuto ricavare.

Sullo sfondo o dietro le quinte non mancano d’agitarsi ancora gli assiologisti o i teleocrati dell’educazione, spoglie persistenti d’altre epoche, fantasmi dei loro fantasmi che non cessano d’agitarsi e mi pare ragionevole pensare che sia giunto il momento di stanare anche loro, di cessare di fingere un inutile rimpiattino, di affrontarli invece e nuovamente in campo aperto.

 

Scuola e individualità

   Non so quante e quali delle idee che hanno nutrito la storia dell’educazione siano tramontate per oblio o ancora giacciano silenti nelle coscienze individuali semmai in attesa di essere ridestate o rivisitate, ma certo è che la teoria dell’educazione ancora oggi vive dell’assunto che ogni individuo è altro dai principi e dai fini che l’educazione si propone di perseguire pena la sua decadenza tanto da assegnarsi il compito di con-formare ad essi ogni singolo individuo scolarizzato, nella pratica poi al servizio di questo postulato sempre più spesso è stato piegato l’uso delle così dette scienze dell’educazione. Comunque si voglia, sia che il compito dell’educazione si prospetti quale medium della partecipazione degli individui alla coscienza della specie sia che verifichi l’improduttività di ogni adjustment per poi puntare tutte le proprie carte sulla competenza e sull’ eccellenza, c’è sempre un sociale una ragione altra che sopravanzano sull’individuale, su quell’individuo che l’educazione in palese contraddizione con se stessa in ogni epoca ha faticato a celebrare quale  valore di per sé e per sé.

   Del resto il succedersi di scomposizioni e ricomposizioni della natura umana è una costante di tutta la storia dell’educazione; i dualismi anima-corpo, intelligenza-carattere, istinto-ragione ed altri ancora sembrano agitarsi come una sorta di Leviatano contro il quale sarebbe parsa missione dell’educazione combattere affinché l’individuo ad essa affidato non ne venisse divorato. Così, spesso, la relazione educativa nei sistemi scolastici ha finito per assomigliare alla rappresentazione di una tragedia greca i cui coriferi, discenti e docenti, si annientano nella ricerca di una comune catarsi programmata. Chi tra noi può dire di essersi sentito soggetto, protagonista, insomma di essersi mai sentito se stesso una volta inserito nel sistema educativo, nei suoi ingranaggi, nei suoi linguaggi e nei suoi riti? Quel qualcosa dell’esperienza scolastica che avrebbe dovuto essere rivolto al nostro mondo interiore in realtà ci è sempre stato esterno e come a noi esteriore l’abbiamo sempre vissuto sia nelle gratificazioni come nelle frustrazioni subite.

John Dewey pareva giunto a vendicare tutti gli allievi del mondo restituendo loro centralità nel processo educativo, non per questo possiamo dire che la rivoluzione copernicana dell’americano abbia ricollocato all’apice del discorso educativo l’uomo, tanto più che essere relegati di volta in volta al ruolo di fanciulli, alunni o studenti come avviene nelle nostre scuole non è mai essere uomini, ma evidentemente sempre e solo una parte di noi, essere cioè inesorabilmente considerati sempre e solo delle parzialità.

   E’ inutile dire che se l’educazione ha tratto vantaggi dalla storia del pensiero ha anche pagato ad essa prezzi altissimi, così come ai machiavellismi economici e politici. La morale è che l’uomo nella storia della nostra cultura non è  mai stato accettato per se stesso, poiché le sue radici muovono dalla sfiducia nell’uomo non già per una sorta di condanna biblica, ma piuttosto semmai per una prevalente e duratura dannazione culturale. Qui sta la ragione, forse prima, della scarsa rilevanza dei processi educativi sui risultati finali dei singoli individui. La scuola, in quanto tale, non ha mai prodotto dei grandi uomini che al contrario, più spesso, si sono realizzati a partire dal suo rifiuto, contro di essa o quali figli esiliati, vittime dell’ostracismo delle sue liturgie.

- Se ripenso all’educazione ricevuta ciò che mi sorprende è il constatare che essa non è riuscita ad impedirmi di fare quello che ho fatto – ritornano le parole di Einstein e, con identico spirito, Iosif Brodskij : - Ciò che rendeva la mia fabbrica diversa dalla mia scuola non era quello che mi era capitato di fare dentro l’una o l’altra, e neppure quello che mi era capitato di pensare nei rispettivi periodi, bensì l’aspetto delle loro facciate…- E Brodskij prosegue scrivendo: - Liberté, Egalité, Fraternité…Perché nessuno aggiunge Cultura? -[2]

   L’avventura del sapere è, dunque, esterna alle preoccupazioni dei nostri sistemi scolastici o falsamente interna perché e-ducare, i-struire, tra-smettere non sono mai territori di libertà, di quella libertà di conoscenza tutta interiore invece alla natura umana, ad ognuno di noi stessi.

Una verità elementare, questa, antica almeno quanto Socrate, la cui coscienza ha mosso Religioni, Ideologie, Stati. Una volta rivelata, sarebbe stato compito dell’educazione imbrigliarla, assumerne il monopolio, predisporre il vischio e le trappole, le gabbie e le riserve, i territori protetti del sapere dalla famiglia alla scuola, dalle università alle accademie. Dare regole, esercitare controlli sulla più grande forma di emancipazione, di rendersi libero di cui ogni singolo individuo, donna o uomo che fosse, ragazza o ragazzo avrebbe potuto personalmente disporre.

E in questa volontà di controllo si è aperto lo scontro per l’affermazione del primato tra le Religioni e gli Stati, l’individuo, ciò che per sua natura non è divisibile, è stato separato, scisso tra Storia e Metastoria, tra Fedi e Laicità. A pensarci bene , quando le Sacre Scritture ancora erano l’unus del sapere, la grande Riforma protestante ha fallito in pieno il suo scopo; l’affermazione del primato di ogni singolo essere umano nella ricerca della conoscenza ancora una volta è stata sacrificata alle ragioni di altre Chiese e senz’altro anche per questo tutta la storia concreta, quotidiana degli individui ha pagato e continua a pagare il prezzo della morte di ogni rinascita.

   Non appaia banale parafrasare Schelling per dire che la nostra esistenza è inadeguata alla nostra essenza materiale, perché questa espressione è tanto banale quanto lo può essere ogni verità, una verità, in questo caso, che dovrebbe vedere gli uomini di cultura e di scuola radicalmente impegnati più a rinnovare che a conservare.

Ormai sul farsi del terzo millennio, se una qualche ragione ancora esiste, non ci si può che sentire profondamente ribelli all’idea che tutto ciò sia inesorabilmente connaturato alla complessità del vivere politico o ancora peggio ad un ineluttabile destino umano.

   Riscoprire ognuno di noi come discorso, un discorso interrotto da un tempo troppo lontano ma che ancora può tornare a fluire, rigenerando le essenze della ragione, rigettando ostinatamente e pervicacemente ogni loro negazione, ogni atto che non sia indirizzato a liberarne quelle potenzialità che definiscono la natura stessa dell’uomo.

Non deve essere forse questo il grande compito del sistema formativo di uno Stato autenticamente moderno, democratico e liberale: portare ogni individuo a tornare ad essere pienamente cittadino della polis, perché innanzitutto torna ad essere cittadino di sé e dentro di sé?

   Neppure le psicologie cognitiviste hanno colmato il divario tra individuo e educazione, tra individuo e il proprio sé. Non tanto perché la loro diffusione nella prassi scolastica possa essere insufficiente, ma piuttosto perché esse ancora si prospettano come strategie di pianificazione verso sistemi a rendimento garantito; muovono dall’individuo ma poi ne smarriscono l’essenza nell’efficienza e nell’efficacia dei curricoli. Stiamo attenti agli equivoci! Siamo davvero sicuri che il soggetto di una strategia di mastery learning sia l’alunno in situazione di apprendimento e non piuttosto l’obiettivo che si è programmato di fargli acquisire? Che ogni volta non si assista ad una sostituzione volendo in realtà verificare l’efficacia dello strumento per cui l’obiettivo si fa soggetto e l’alunno oggetto del processo di apprendimento? In ultima analisi, a me pare, che si finisca in realtà per comprovare quanto è brava quella determinata scuola nel realizzare i suoi compiti, anziché verificare quanto quell’alunno, per effetto del processo formativo, è più cittadino di se stesso anziché di quel sociale che si esprime nell’inevitabile parzialità degli obiettivi assegnati dai programmi.

Voglio dire, e non per paradosso, che delle finalità sociali della scuola, che fanno l’uomo e il cittadino, i nostri Stati e la nostra Cultura ne hanno abusato fin troppo a sproposito, più spesso oserei dire a danno del singolo individuo, delle singole individualità che a loro vantaggio.

 

Stato e Scuola

   Io non mi sento di liquidare con alcuna professione di fede la lezione niciana Sull’avvenire delle nostre scuole[3] in particolare là dove si additano gli Stati come antagonisti e nemici della cultura.

Ognuno di noi è cultura, poiché ognuno di noi tende costantemente alla propria ideale formazione, alla realizzazione di sé nel rispetto della propria autentica forma e natura. Mi accade spesso di ripensare le pagine di La lingua salvata di Elias Canetti, in particolare quelle nelle quali racconta come durante la sua infanzia fosse avviato alla passione per la lettura e i libri dal padre e dalla madre.

- In realtà la cosa incomparabilmente più importante, più eccitante e più caratteristica di questo periodo erano le serate che io e la mamma dedicavamo alla lettura e ai discorsi che facevamo intorno a ciascuno di quei testi. (…) Se esiste una sostanza intellettuale che si riceve nei primi anni,  alla quale ci si riporta poi sempre e della quale non ci si libera mai più, per me quella sostanza è lì.

(…) Tutti gli influssi che ho subito successivamente sono in grado di rintracciarli uno per uno. Questi, invece, formano un’entità unica che ha una sua densità e un suo spessore indivisibili. -[4]

   Se questo è un esempio di autentica esperienza culturale che non mortifica né il singolo né il processo della conoscenza, perché tollerare ancora che si persegua, non già un modello di scuola di massa, bensì un’improduttiva massificazione scolastica che anche nei migliori dei casi finisce per snaturare persone e saperi?

Un modello concepito quando l’idea del rapporto Stato-Educazione si esauriva nell’obiettivo di tenere ogni giorno occupata in modo organizzato una parte dei soggetti sociali: i più giovani. Noi siamo giunti per fino a concepire l’educazione permanente e come massimo della contraddizione abbiamo istituito le università per la terza età! Io penso che sulla difficile strada della lotta per l’affermazione del diritto all’istruzione ci siamo davvero smarriti e abbiamo soprattutto smarrito il valore dell’essere individuale e quello ad esso connaturato della cultura. O meglio, lo smarrimento oggi è evidente perché un’epoca con le sue stagioni anche per la scuola e per il discorso educativo si è chiusa. Di qui occorre partire. Se è crollato il comunismo certo non gode di migliore salute il suo antagonista storico. E lo stato di salute è più grave  proprio sul versante della cultura e della formazione: i sistemi scolastici sono al collasso e processi di de-culturazione e di disapprendimento avanzano come mai nel passato. Mentre pare allontanarsi il pericolo della catastrofe nucleare c’è già chi paventa quella dell’ignoranza che incombe sul nostro futuro.

   Mai come oggi mi pare giunto il momento di tornare ad avere il coraggio e l’audacia  delle idee, dell’immaginazione, dell’idealismo politico.

In tanto non sono gli individui che devono continuare a rivendicare il diritto alla scolarizzazione di massa o il diritto all’educazione permanente. Lo Stato ottocentesco  che nell’amministrazione e nella burocrazia rende tutti sudditi è naufragato nelle coscienze individuali, sia esso liberale sia esso socialista, o lo Stato serve o è una nemica astrazione.

Lo Stato diviene nemico e antagonista di ognuno di noi quando tradisce le basi della civil society venendo meno ai principi fondati sul valore del singolo che hanno ispirato l’origine delle democrazie moderne. Stati-autorità che esercitano il loro potere ponendosi al di sopra dei bisogni del cittadino anziché al suo fianco, perché non sono Stati al servizio e di servizio come richiederebbe il principio secondo il quale non si può avere autentica cittadinanza sociale se prima ognuno non è posto nelle condizioni di divenire pienamente cittadino di se stesso.

   Dal Novecento i nostri Stati sono usciti non solo con la bancarotta economica ma anche e soprattutto con quella umana. La loro colpa più grave di fronte alla Storia è quella del più grande spreco d’intelligenze, vale a dire di risorse umane con le guerre, gli olocausti, con il disprezzo per l’uomo, nessuna civiltà che pretenda di definirsi tale può sottrarsi a questa riflessione, a questa responsabilità, è fin tropo facile, qui, ricordare la lezione di Marx :

- Una società piena di cose utili con uomini inutili.-

   E come negare che l’inimicizia e l’antagonismo dello Stato nei confronti della cultura sono proprio testimoniati dalle nostre scuole, dai nostri sistemi scolastici, un’inimicizia ed un antagonismo che con la scuola di massa hanno finito per massificarsi nelle loro manifestazioni.

Pare che l’istruzione, anziché essere dovuta ad ogni singolo individuo che esiste su questa Terra come diritto permanente e bene incommensurabile, sia dovuta allo Stato nei modi, nei tempi e nelle quantità che lo Stato stabilisce e a ciò ogni singolo individuo si deve adattare e con-formare. E come per ogni rito collettivo, decretato dall’alto, alla stessa ora tutti gli individui devono riunirsi nel luogo deputato dove ad attenderli ci sono gli strumenti della liturgia, ogni giorno riordinati per il giorno dopo come i paramenti sacri e le divise. E nell’idea della partecipazione ognuno si annulla , ognuno si snatura: insegnanti, alunni, strumenti. Per chi non partecipa al rito collettivo la nostra idea di democrazia ci ha fatto giungere al nobile obiettivo di sostenerlo, di recuperarlo, di non perderlo comunque al rito, fortunatamente, più spesso non riuscendoci.

Non c’è nulla di più innaturale di un’aula di studenti con il loro insegnante, dove le relazioni interpersonali si chiamano disciplina, compiti o consegne (come in una caserma), interrogazioni, verifiche, valutazioni.

   Questo nostro sistema scolastico, che lo vogliamo o no, nonostante anni di generose e isolate sperimentazioni, di appassionati dibattiti, di illusioni di tanti docenti, resta pienamente espressione della concezione che gli Stati hanno avuto e dimostrano di avere della cultura, vale a dire della sua più assoluta negazione.

Le sedi che dovrebbero essere i luoghi abituali e quotidiani dove svolgere sistematicamente l’istruzione dei giovani, la loro formazione, i percorsi culturali autentici, i luoghi degli impieghi epistemici dalle biblioteche agli archivi, dalle fondazioni ai musei, ai laboratori, ai teatri, alle cineteche, le mostre, il patrimonio artistico in genere sono i luoghi della crisi permanente dove si manifesta e si nutre la trascuratezza dello Stato, il vuoto spinto di ogni idea innovativa e, dunque, la sua inimicizia.

- Sulla terra più fortunata è la rosa che ci concede i suoi profumi, di quella che appassendo muore nella pace solitaria.-[5] scriveva Shakespeare. Francamente non so quante generazioni ancora accetteranno di appassire anziché pervadere del loro profumo la Terra.

 

Una modesta proposta di lavoro

Allora è necessario riproporsi radicalmente il quesito di quale sia il sistema educativo da porre oggi al servizio dell’uomo reale affinché possa sempre dire di essere autenticamente il risultato del proprio lavoro.

   Allo stato attuale della riflessione, io ritengo sia possibile indicare almeno tre requisiti indispensabili.

1. Innanzitutto il discorso sui fini e i modi di essere della scuola che non può prescindere da una più generale ricollocazione dello Stato e del sociale come servizio ai singoli nella collettività in quanto valori e somma di valori, poiché non sono né lo Stato, né il sociale a dare valore all’individuo ma viceversa è la somma dei valori dei singoli individui a dare valore alle istituzioni sociali.

Le filosofie dell’Ottocento sono state filosofie di Organizzazione e di Sistema, al contrario quelle del Novecento, che ancora poca cittadinanza hanno avuto nella nostra vita civile, sono state più spesso di liberazione dell’individuo dall’Organizzazione e dal Sistema. Da esse abbiamo appreso come anche la scienza abbia necessità di procedere per utopie concrete, per luoghi che ancora non esistono ma che sono nell’ordine del possibile[6]. E’ pensabile che ci aiutino a immaginare la nostra cittadinanza nel nuovo millenio? Una cittadinanza che sia in grado di assicurare al maggior numero possibile di soggetti l’autonomia personale ponendo gli individui nelle condizioni di sviluppare liberamente le loro capacità. Persino le teorie della Total Quality ormai sono avventurate su questo terreno, non più individui amministrati o che si devono adattare a regole razionalizzate, ma individui in grado di amministrarsi e di giocare un ruolo sempre più significativo per sé e per gli altri, perché sempre più nel futuro Intelligenza, Informazione, Idee costituiranno il valore aggiunto delle skill intellettuali dei singoli e di tutti.

2. In secondo luogo occorre affermare il primato dell’incontro con il proprio sé. Non v’è nulla di più personale dell’esperienza culturale, del cammino che porta al raggiungimento della propria identità e alla partecipazione di quella collettiva sempre meno locale e sempre più cosmopolita. Di questa esperienza lo Stato non si può impadronire, ma solo servirla mettendo a disposizione tutti i mezzi necessari. Occorre tornare a considerare i problemi della cultura come esperienze intime, personali di cui coloro che in qualche modo hanno familiarità con la cultura devono aver sentito almeno per un momento le vibrazioni.

Uno Stato, dunque, che si ritira dall’invadenza sugli individui attraverso i sistemi scolastici, non più lo Stato mistagogo che è venuto meno alla massima kantiana di non trattare il prossimo come mezzo.

3. In fine alla cittadinanza educativa va assegnato il compito di creare le condizioni per ripristinare il rapporto tra coscienza e essere, di ricondurre i singoli individui all’esigenza classica di pensare il pensiero. Qualche tentativo in questo senso venne avanzato dall’ecologia dello sviluppo umano che meglio però dovrebbe indirizzarsi verso l’ecologia del discorso umano sviluppando le strade aperte da Gregory Bateson e dall’ultimo Jerome Bruner[7]

Comunque sia, la cittadinanza educativa deve costruirsi a partire dalla consapevolezza piena e sempre presente che il punto archimedico del mondo è l’uomo nella sua libera e creativa progettualità, a lui compete la responsabilità del futuro, poiché egli è il solo depositario del potere di trasformare il mondo, non l’uomo solo e in quanto in generale, ma ogni singolo individuo poiché quel generale è la somma degli individuali.

In definitiva la cittadinanza educativa deve riconciliare l’uomo con il suo genere, ricomporre quella frattura che già Goethe ed Hegel avevano intuito nella nostra cultura e che i nostri sistemi educativi, complici gli Stati, hanno invano ricomposto nel conformismo e nell’annullamento delle individualità come risorse preziose per il destino di tutti noi su questa Terra.

 



[1] A tale proposito si vedano i risultati conseguiti dagli studenti italiani nell’ambito dell’ inchiesta PISA (Program for International Student Assessment) condotta dall’ OCSE.

[2] I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, trad. di G. Forti, Adelphi Edizioni, Milano, 1987

[3] F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, trad, G. Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 1978

[4] E. Canetti, La lingua salvata, trad. it., Adelphi Edizioni, Milano, 1981

[5] W. Shakespeare, Sonetti, Giulio Einaudi editore, Torino, 1965

[6] Il riferimento in particolare, come si può ben evincere, è a K. R. Popper di La società aperta e i suoi nemici e di Congetture e confutazioni.

[7] I riferimenti sono G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi Edizioni, Milano, 1977 e a J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997


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