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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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SI TORNA AI VECCHI "PROGRAMMI"?
La modifica di Bossi all’art. 117 riporta in vita i "programmi" ormai desueti

 

Chi legge con attenzione la modifica all’art. 117 proposta da Bossi (la famosa devolution, recentemente approvata al Senato) non può non notare una incongruenza dal punto di vista terminologico (?) che, oltre a rendere probabilmente di difficile applicazione la legge stessa, (come ho cercato di spiegare in un mio precedente intervento sul sito dell’ANDIS) riporterebbe all’indietro il dibattito sulla autonomia didattica delle scuole e dei docenti, così come si è venuta svolgendo e in parte realizzando in questi ultimi anni.

Il termine "incriminato" è quello di "programmi scolastici", la cui definizione, stando sempre alla proposta Bossi, oltre che allo Stato, verrebbe attribuita parzialmente alle Regioni

Il testo approvato,come si sa, si compone di sole 11 righe e recita:

"Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie:
omissis
c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione
omissis"

In genere l’attenzione si è concentrata sulla inopportunità e sui rischi che ciò comporterebbe: avremmo, si è detto, "programmi" diversificati per Regione e questo incrinerebbe l’unitarietà del sistema scolastico nazionale. Pochi hanno fatto attenzione all’uso di una espressione, "i programmi scolastici" ancora più insidiosa, almeno a mio parere.

Intanto dicendo che i "programmi" devono essere nazionali si dà per scontato che l’unitarietà della nostra Scuola debba risiedere nei "programmi" stabiliti dal centro, il che è manifestamente errato, oltre che non vero sul piano pratico.

Infatti i "programmi scolastici", nell’accezione in cui normalmente usiamo questa espressione, e cioè i "programmi di italiano, di matematica ecc.", non dovrebbero più esistere e la normativa recente (un po’ meno la prassi didattica) li ha di fatto superati, a partire almeno dalla L. 59/97 (legge Bassanini) e dalle norme derivate. Infatti nel D.P.R 275/99 (quello famoso che introduce nei fatti l’autonomia scolastica) essi sono stati sostituiti dai "curricoli"; e la sostituzione non è semplicemente terminologica, come dimostrerò. Infatti all’art. 8 del suddetto DPR (Definizione dei curricoli) si dice che il Ministero

"definisce a norma dell’art. 205 del D.L. 297/94... per i diversi tipi e indirizzi di studio:

  • gli obiettivi generali del processo formativo

  • gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni

  • le discipline e le attività costituenti la quota nazionale dei curricoli e il relativo monte ore annuale

  • l’orario obbligatorio annuale complessivo dei curricoli comprensivo della quota annuale obbligatoria e della quota obbligatoria riservata alle istituzioni scolastiche  [...]" (NdR: sottolineature mie)

Quando parliamo di "programmi scolastici" ci riferiamo normalmente, come dicevo prima, all’elenco dei contenuti o degli argomenti costitutivi di una "materia" o disciplina. Fino a qualche anno fa infatti era lo Stato a fissare i "programmi" (nei Licei sono ancora adesso in vigore i Programmi Gentile del 1923!) e le Scuole dovevano adeguarsi. Dal 1999, da quando è stata attribuita l’autonomia alle Scuole, lo Stato si limita a fissare "obiettivi" e "standard", lasciando alle Scuole la definizione dei "programmi" (meglio sarebbe dire "percorsi formativi") Quelli che normalmente e impropriamente chiamiamo i programmi Berlinguer/De Mauro o gli stessi Programmi Moratti sono "Indicazioni nazionali" o "Piani di studio personalizzati" e se li andiamo a leggere si riferiscono a "obiettivi di apprendimento" per le singole discipline senza che siano più indicati i "contenuti" (anche se nei Piani di studio Moratti a dire il vero si tenta di ritornare proprio ai contenuti, ufficialmente abrogati).

In sostanza lo Stato fissa gli obiettivi generali e a livello disciplinare , definisce i vari tipi di scuola, il quadro orario (quello che si definisce il "piano di studio") dei vari indirizzi , indica i "profili di uscita" (e questi devono essere rispettati su tutto il territorio nazionale) mentre affida alle Scuole i "percorsi formativi" ossia i programmi delle singole discipline. Ciò in linea non solo con il discorso sull’autonomia, ma anche con gli indirizzi prevalenti nell’odierna pedagogia e didattica.

Nei fatti sappiamo bene che da tempo le Scuole hanno potuto innovare e adattare i "programmi scolastici" alla realtà della classe e solo uno ignaro della realtà scolastica italiana pensa che il "programma" di italiano sia uguale in tutte le scuole o addirittura nello stesso Istituto.

Dirò di più: nei Decreti delegati del 1974 (DPR 416) ai Distretti scolastici era concessa la facoltà di "adattare i programmi scolastici alla realtà locale"

Il problema allora non è tanto che venga attribuita tale facoltà alle Regioni (su cui certo si può discutere e su cui la preoccupazioni sono legittime) quanto il fatto che si vogliano "resuscitare" i "programmi", nazionali e/o regionali importa poco

Ammesso naturalmente che chi ha scritto l’articolo si sia reso effettivamente conto di quello che comporta l’espressione "programmi scolastici"

Prof. Pasquale D’Avolio
Dirigente Scolastico Istituto comprensivo di Arta- Paularo (UD)


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