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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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DIDATTICA, QUESTA SCONOSCIUTA
A proposito delle prove del concorso DS

di Cinzia Mion

 

Ho notato con evidente soddisfazione che le tracce delle prove scritte  per il concorso al reclutamento dei dirigenti scolastici - appena concluse - offrono un ragguardevole interesse alla variabile della didattica e alla riflessione sui processi di insegnamento-apprendimento, nonché alla differenza tra conoscenze e competenze e alla relazionalità ( tranne una che ponendo  il focus delle competenze del d.s. nel potere disciplinare corre il rischio di regalarci in Veneto una selezione di dirigenti fans di Brunetta…).

E’ risaputo infatti, e sarebbe ingenuo da parte mia oggi riscoprirlo, che esiste una  diatriba tra chi afferma che il dirigente scolastico è chiamato a fare altro (i benaltristi) dal lavoro dei docenti, tanto da appoggiare implicitamente chi da tempo chiede per i dirigenti scolastici la dirigenza amministrativa tout-court (cfr ANP) e chi invece difende con forza e passione l’impostazione psicopedagogica della loro formazione di base. Questi sono i fautori della leadership educativa che si attestano sulla considerazione che il vero senso della scuola è la realizzazione del successo formativo per tutti (equità, inclusione, integrazione ed interazione).

Ovviamente si sa bene che a queste competenze di base se ne dovranno aggiungere altre di tipo giuridico-amministrativo-economico e di teoria dell’organizzazione tutte però finalizzate a migliorare le prestazioni d’aula.

In altri termini deve essere presa in considerazione come il prodotto-risultato significativo dell’Istituzione Scuola soprattutto la crescita personale, cognitiva, relazionale, socio-etica di tutti i ragazzi/e del Paese, vale a dire delle giovani generazioni che hanno nelle loro mani il futuro di questo mondo interconnesso.

Per questo motivo ho letto con molto interesse il saggio apparso su Edscuola di Bijoy M.Trentin, dal titolo La didattica in pericolo. che mi ha trovato perfettamente d’accordo su tutta la linea.

Appare assai singolare notare come  in molti documenti, riflessioni, proclami, note,  elaborazioni dei gruppi di lavoro attivati per realizzare al meglio sia l’elevamento dell’obbligo che le recenti linee guida destinate alla scuola secondaria di secondo grado, sia poco utilizzata la parola didattica o venga solo sfiorata quasi per caso o non si solleciti in modo incisivo il suo svecchiamento se non quando si parla dei laboratori.

Fanno  un po’ eccezione le linee guida per i professionali. Ciò però riconferma la medesima tesi.

Mi sorge il dubbio che questa sia diventata una parola desueta, di cui quasi vergognarsi un po’ come se riguardasse le bagattelle della scuola dei piccoli. Naturalmente non per tutti è così, gli addetti ai lavori e i dirigenti avveduti sanno bene che ciò che passa nell’aula operativamente, sia che i docenti  siano consapevoli oppure no, è una mediazione fra teoria e prassi, principio e caso, generale e particolare in riferimento ai vari saperi, che va sotto il nome appunto di didattica. Naturalmente questa didattica dovrebbe essere una gemmazione consequenziale alle moderne teorie della psicologia dell’apprendimento scolastico, frutto di una rielaborazione riflessiva e costante da parte delle varie comunità di  pratica. Tutto ciò potrà però avvenire se siamo in presenza di una particolare consapevolezza del dirigente che riserverà buona parte delle sue energie ad approfondire le strategie da adottare per presidiare questo aspetto della propria professionalità.

La consapevolezza non consiste solo nel rendersi conto che sapere non significa tout court  sapere insegnare- se si trattasse unicamente di questo saremmo di fronte ad una banalità - ma  significa rivalutare pienamente questo settore della psicologia dell’apprendimento che si interessa delle coerenti procedure metodologiche  Pertanto andrebbe vinta  l’illusione che il sapere possa essere solo insegnato e non invece anche  ricercato, come dice L.Galliani nella sua bella relazione tenuta a Camerino nel febbraio del 2007, avente per tema le nuove forme della didattica.

Della ricerca professionale fa parte lo svecchiamento appunto della didattica che da tradizionale e semplicemente trasmissiva dovrebbe diventare, come affermano i teorici del socio-costruttivismo, generativa di apprendimento, orientata verso il cosiddetto apprendistato cognitivo, intrisa perciò di metacognizione e di valutazione formativa,   orientata a sollecitare l’autovalutazione dello studente e l’acquisizione di competenze.

Il Dirigente Scolastico dovrebbe farsi promotore appunto della progettazione per competenze sapendo bene che soltanto così si potrà arrivare a coniugare il capire e il riuscire. In altre parole il riferimento è alla “didattica del fare”che non significa la scissione tra i laboratori e la lezione frontale che rimane invece sempre connotata dalla stessa didattica che Trentin definisce  la didattica fai-da te, trasmissiva e conservatrice.

Una didattica rimasta immobile nel tempo simile a quella subita nella propria storia di studenti, che Mezirow chiamerebbe refrattaria ad un apprendimento trasformativo, perché ancòrata ad antichi schemi di significato .

La nuova didattica  dovrebbe invece essere operativa, all’interno della quale il docente offre la sua competenza sia che si tratti di una traduzione di latino o altre lingue sia nella soluzione dei problemi o in qualsiasi altra competenza, mettendosi in gioco, pensando a voce alta,  con la sua expertise impegnata ad esplicitare i processi mentali soggiacenti che corrono il rischio di restare impliciti e quindi non appresi.

Perché questo linguaggio appare oggi a qualcuno quasi ostico? Forse perchè gli operatori scolastici e soprattutto i dirigenti scolastici  si sono negli ultimi tempi abbeverati troppo di cultura manageriale-organizzativa, presi dall’enfasi di imbottire il Piano dell’Offerta Formativa di patinate pagine di progetti accattivanti ed hanno qualche volta trascurato di presidiare il lavoro d’aula, che in fondo è invece il cuore e il senso della scuola.

 

Il diritto alla cultura

Già la scuola secondaria di primo grado,  messa sotto la lente d’ingrandimento dal recente rapporto a cura della Fondazione Agnelli, dovrebbe rivedere le proprie metodologie per evitare di dimettere mentalmente i soggetti più deboli con la pseudoargomentazione che per alcuni di loro i docenti non sanno più cosa fare. Non essere più il tratto terminale dell’obbligo dovrebbe dare loro una maggiore opportunità di ripensare il percorso, naturalmente alla luce delle osservazioni precedenti. Tutto l’itinerario dai 3 ai 18 anni deve essere oggetto di riflessione autentica, mettendo al centro il soggetto che accede alla scuola, la sua identità - compresa quella di genere - per evitare condizionamenti dovuti a stereotipi e per far tesoro delle differenze insieme al suo diritto alla cultura, non più soltanto inteso come diritto allo studio.

L‘elevamento dell’obbligo e le recenti Linee Guida per gli Istituti Tecnici e Professionali oggi hanno questo significato: nella società della conoscenza ognuno ha diritto di acquisire le competenze ermeneutiche che offre la cultura generale, come dice E.Cresson, per potersi  orientare nella complessità e nella globalizzazione, per acquisire quel pensiero critico e riflessivo, non solo riflettente,  che abilita ad avere a che fare con le differenze e le contraddizioni, per dare un senso alla propria vita, per  partecipare con più consapevolezza alla vita democratica del proprio Paese ed infine per essere educato alla cittadinanza come etica pubblica. Non possiamo infatti far finta di non sapere che gli italiani, come affermano i sociologi e gli attenti osservatori delle questioni politiche e sociali, sono affetti da tempo da una malattia che viene definita amorale civica, che sembra essere la causa (o la conseguenza?) del diffuso individualismo e del rafforzarsi del noto familismo che tanto ci rimproverano gli altri paesi europei.


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