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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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DOVE ANDIAMO?
Sulle Nuove (?) Indicazioni e altro

di Pasquale D'Avolio

L’ultimo Bollettino (così almeno viene chiamato) telematico di “Scuola/formazione”, a cura del Dipartimento “Sapere formazione cultura” dei DS, è interamente dedicato agli interventi sulle nuove “Indicazioni nazionali”. Un collage di articoli, per lo più già comparsi su alcuni siti telematici, in particolare su “Scuolaoggi”, che testimoniano l’ampio e variegato dibattito che si sta sviluppando dal 3 aprile, quando c’è stata la presentazione dei due Documenti “propedeutici” alle Nuove Indicazioni. Un dibattito davvero pluralistico e bisogna dare atto a Ranieri di aver raccolto le diverse posizioni, anche da versanti non propriamente filogovernativi e ulivisti, e l’intervento di Sugamele, già consulente di Moratti-Aprea, ne è la testimonianza.

Proprio l’intervento di Sugamele è quello che più mi ha sollecitato a una riflessione sul versante politico-culturale. Non che manchino “frecciatine” non proprio accondiscendenti verso la Commissione ministeriale in altri interventi: vedi le osservazioni ad esempio di Cinzia Mion (“Soggetto o persona?”) e la “sparata” contro le “Indicazioni”, (da qualsiasi parte provengano), del Manifesto dei 500. Naturalmente è apprezzabile il lavoro di scandaglio sulle “competenze” di Tiriticco, il quale dopo un appassionato quadro del “disastro” incombente, guarda alla scuola militante e ai suoi dubbi e incertezze e si cala nel concreto (quali competenze?): a chi come lui vive una felice stagione di riflessione “fuori dal campo di gioco” va il sincero ringraziamento per quanto sta facendo e scrivendo a noi che in campo ci siamo ancora, e vorremmo che di una partita di tennis si trattasse e non di rugby, come da qualche anno avviene.

Perché Sugamele mi ha colpito? Perché va dicendo da tempo cose che a chi milita a sinistra da sempre, come me, appaiono sempre più come delle verità, sgradevoli forse, ma indubitabili. Giustamente come dice lui, non si vuole guardare in faccia la realtà e una certa sinistra non ne vuole proprio sapere. Qui non si tratta di “cattocomunismo” ma di semplice miopia.

 

I Punto: La Scuola è irriformabile o meglio il Paese è irriformabile?

Il nostro Paese sarà irriformabile fino a quando alle elaborazioni di grande livello e spessore culturale che proclamano la necessità e l’urgenza di ammodernamento seguono provvedimenti attuativi che ne negano i presupposti più elementari” afferma il nostro.

Si tratta di capire perché ciò avviene e Sugamele ha la sua risposta, risposta con la quale non posso che concordare, purtroppo: le burocrazie ministeriali e sindacali, fedeli interpreti del conservatorismo di massa della classe docente, pur nel loro apparente conflitto, fanno di tutto per frenare il vero cambiamento, che è soprattutto nell’organizzazione del lavoro a scuola e nella didattica. Maragliano qualche anno fa era giunto a conclusioni pressoché simili (“La Scuola dei quattro no”) e ancora prima un altro “testardo” riformatore della scuola classica, l’Ispettore Portolano, concludeva un suo sconsolato pamphlet dal titolo “Quelli che… la scuola” con una appendice amara in cui respingeva fortemente la solita espressione consolatoria “Eppure …” con cui si continua ad affermare che “però” nella scuola ci sono docenti eccellenti (pochi), onesti “lavoratori della conoscenza” estremamente motivati e via consolandosi. Bisogna liberarsi, dico io con Portolano, dell’”eppure” e guardare in faccia la realtà. I “sogni” alla Boselli o gli entusiasmi “milaniani” di Iosa (entrambi fanno gli ispettori da tempo e non vivono dall’interno delle scuole il clima che si respira da qualche anno, soprattutto nella secondaria) appartengono a piccole isole in un mare sconfinato di routine e di “tirare a campare”. Certo ci sono, come dicevo, gli onesti e i docenti interessati al rinnovamento, ma le burocrazie ministeriali e sindacali si guardano bene dal sostenerli. Da quando l’aggiornamento in servizio è diventato un optional, (il famoso “diritto-dovere” dove vale solo il primo termine e non il secondo) ognuno si arrangia come può. Per fortuna ci sono i siti scolastici, le riviste telematiche, anche se dominate per lo più da arrabbiati contestatori di qualsiasi riforma. Mi ha colpito in questo senso il Manifesto dei 500: vogliono tornare ai “Programmi nazionali”: tutto allo Stato, niente alle Scuole. Per carità, di fronte a ciò che sta succedendo con le vecchie e nuove Indicazioni forse la loro è la posizione più realistica: l’80% dei docenti della secondaria, di I e II grado (e molti maestri dopo i “moduli”), seguono i Programmi, anzi seguono i … capitoli dei libri di testo. Sto esagerando? Spero di essere smentito.

“Una didattica attiva che privilegia l’ermeneutica e rispetta gli alunni” così si legge nel Documento dell’ANDIS. Giusto! La realtà purtroppo ha poco a che vedere con l’auspicio dell’ANDIS. Diceva Bottani nel famoso libro “Insegnanti al timone” che la vera grande rivoluzione, che non si è ancora realizzata nella scuola, e non solo italiana, è quella cognitivista (aggiungo “costruttivistica”)

 

LE VERA “NOVITA’ “: riformare l’insegnamento

Venendo al documento del 3 aprile devo ancora concordare con Sugamele: sono anni che ci sentiamo ripetere le stesse cose ed ognuno crede di aver introdotto la grande novità. Le uniche grandi novità degli ultimi decenni per la Scuola sono, a mio parere e non solo, le neuroscienze, le nuove teorie dell’apprendimento e il costruttivismo, insieme a Gardner e, aggiungo, Goleman: su di esse dovrebbe focalizzarsi la scuola più che sulle “cornici” filosofiche (che pure sono importanti come dirò dopo) e il vero investimento per il rinnovamento della scuola è la formazione degli insegnanti. Lo diceva più di 10 anni fa un Ministro venuto da Confindustria, il Ministro Lombardi, che durò una breve stagione. Sulle altre “novità” che si vorrebbero presentare come tali nel Documento (operazione speculare operata anche da Bertagna) dirò che esse sono in campo da almeno tre decenni e in tutti documenti da Berlinguer a Moratti a Fioroni se ne è parlato abbondantemente. Mi riferisco alla “complessità” e al connesso concetto di “rete” alla globalizzazione (aggiornata in glocalismo)1, ai nuovi linguaggi2, alle “competenze” e alla stessa personalizzazione, pur con diverse sfumature su cui tornerò alla fine. Se ne è parlato appunto …

Ma l’emergenza maggiore riguarda la riforma dell’insegnamento, come sostiene da anni anche Morin. Riformare l’insegnamento, si sa, costa fatica, significa rivedere la organizzazione del lavoro, superare la rigidità del gruppo classe, scomporre e ricomporre i gruppi, rivedere le classi di concorso e le cattedre, rivedere lo stato giuridico dei docenti. Questo era il significato profondo dell’autonomia. Mi piacerebbe verificare davvero quante scuole l’hanno davvero attuato o hanno almeno utilizzato il 15-20% di compensazione tra discipline nei curricoli di scuola. E se è successo sarebbe interessante vedere che collegamento c’è stato tra “flessibilità” dell’orario e problemi di organico. Nel 1997 ai tempi della sperimentazione dell’autonomia sul sito Edscuola c’erano le esperienze di tentativi in qualche scuola superiore: falliti! Le sperimentazioni nei Licei negli anni 80, compreso il Brocca, incontravano scarsa resistenza nei Collegi (salvo qualche “testardo conservatore”): si trattava di portare l’orario da 26/30 ore a 34 in tutte le classi e pochi si opponevano. Era avvenuto più o meno così con i moduli alle elementari, al di là dell’ispirazione riformatrice della Commissione Fassino

Sempre in quegli anni, alla fine del secolo scorso, Iosa, che faceva parte dello staff di Berlinguer, andava in giro per le province italiane a illustrare le magnifiche sorti e progressive dell’autonomia. Ricordo che mostrava un lucido (che credo di aver conservato e che lui certamente ha) in cui contrapponeva il disegno di una Scuola “rigida”, ordinata, divisa geometricamente in aule, ogni aula una classe, con orari sempre uguali da settembre a giugno ecc. e la scuola dell’autonomia: un “caos”, lo definiva, ma un caos costruttivo, alla Prigogine. Alcuni miei colleghi dirigenti lo ascoltavano attentamente, ma non si preoccupavano più di tanto: i Collegi avrebbero respinto indubbiamente quelle “fantasticherie”. Forse anche gli alunni, spontaneamente o opportunamente consigliati, si sarebbero ribellati (avete visto come l’orario di 40 ore sia stato portato quasi ovunque a 34 con i famosi 50 minuti e quando qualche Preside ha tentato di resistere ..scioperi degli studenti?!) Così, salvo in qualche scuola elementare, forse nei piccoli plessi, e forse in qualche professionale (lì l’autonomia funziona, così mi dicono, mah!) tutto è rimasto come prima.

Vi immaginate un orario di insegnamento che cambia settimanalmente? E le baby-sitter, come diceva sempre il buon Portolano, dove le mettiamo? Mica possono cambiare orario a tutto spiano.

Riformare l’insegnamento significa superare l’individualismo della classe docente, i compartimenti- stagno delle discipline e quindi attuare davvero una programmazione collegiale. La collegialità, altra grande illusione, almeno nella scuola secondaria. Si parla, non da oggi, di “unità del sapere”, di interdisciplinarietà, di trasversalità. Tutte cose sacrosante; ma per realizzarle occorre che i docenti lavorino in gruppo, programmino settimanalmente come nelle elementari. E invece i contratti prevedono 40 ore annuali, compresi i Collegi docenti e, non si sa perché, anche le riunioni prima dell’inizio delle lezioni e alla fine dell’anno! Nei due ultimi due documenti della FLC a proposito sia del biennio che delle Indicazioni si affaccia timidamente il discorso di “trovare nuovi spazi per la programmazione” (quando e come? Diminuendo l’orario di insegnamento? E siamo sicuri, ammesso che si trovino le risorse, che i docenti l’accetterebbero?). Quanto ai Consigli di classe c’è ben poca programmazione e lo sanno tutti. Le Unità di apprendimento e le altre “diavolerie” di Bertagna (dal portfolio ai LarSA) non sono state respinte nel merito, ma perché avrebbero dovuto impegnare i consigli di classe nella progettazione e nella flessibilità, che non è poi tanto amata, come si diceva. Ed inutilmente Bertagna rassicurava che in questo modo si eliminava la “programmazione” di inizio d’anno: bella conquista, visto il ricorso massiccio alle fotocopie dell’anno precedente

Qualcuno dirà che il mio è lo sfogo di un Dirigente prossimo alla pensione e avviato sulla strada del riformismo “di destra”, ma non posso non prendere atto di una realtà sconsolante. Il connubio burocrazia ministeriale-sindacati ha portato la Scuola purtroppo a questi esiti e solo un governo davvero di sinistra (visto che la destra si è guardata bene dall’incidere sul connubio di cui sopra) potrà ricondurla alla sua vera mission, che sono gli studenti. In caso contrario la “centralità della persona o meglio del soggetto in formazione” rimarrà una vuota parola almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

 

Considerazioni finali di ordine culturale.

Ho già detto che delle altre “novità” non vedo come si possa considerarle tali. La stessa complessità risale almeno agli anni 70/80 e si sviluppa con l’emergere del problema ecologico. Il paradigma riduzionistico delle scienze sperimentali è stato superato da tempo, anche se il nuovo “verbo” non raccoglie commenti entusiastici da parte di tutti. Nei giorni scorsi mi è venuto tra le mani un libretto diffuso dall’Unità negli anni 90; in esso sono raccolti interventi pro e contro la “complessità”! Cito solo Carlo Bernardini e la sua critica sferzante proprio a Ceruti. Invito l’Unità a ristamparlo.

Il trandisciplinarismo, l’olismo o l’ologramma di Bertagna non rappresentano affatto una novità: il fatto è, come dicevo prima, che non si attuano nella Scuola Affascinante indubbiamente la proposta di Boselli: se mi è permesso, vorrei dire tuttavia a Boselli che il “lebenswelt” (mpndo della vita “precategoriale, come lo definiva Husserl) richiama l’esigenza di una formalizzazione, e per venire al concreto, altro è insegnare nelle elementari, dove prevale il predisciplinare, altro è spostarsi al Liceo. Concordo in pieno in questo con Tiriticco a proposito delle “discipline”, che è anche disciplina mentale. Sostengo, a costo di essere tacciato di “conservatore”, di privilegiare quelle forme di pensiero che stanno scomparendo (R. Simone) e trovo che il pensiero lineare-sequenziale-analitico sia più impegnativo sotto molti aspetti: ecco perché molti giovani lo rifiutano. Questo non vuol dire negare l’evidenza della “complessità”, del sapere reticolare ecc.

Un discorso a parte meriterebbe la “personalizzazione” su cui continua ancora oggi il dibattito con le posizioni estreme dei 500 e quelle riproposte da Bertagna nell’ultimo numero di Nuova Secondaria. Anche questo, se mi è consentito, è un dibattito un po’ datato, almeno degli anni 60.Al personalismo cattolico la cultura di sinistra rispondeva con la riscoperta della persona all’interno degli stessi testi di Marx. Ricordo la riscoperta del giovane Marx dei Manoscritti del 44, il bellissimo “Marxismo e la persona umana” (A. Shaff), il dibattito su hegelismo/marxismo e l’esistenzialismo degli anni 60. Non solo Proudhon, caro Sugamele. Ormai il contrasto struttura-evento (che vale per la storia come per le scienze naturali) è stato superato da tempo. La centralità della persona se non vuol essere una riproposizione ideologica del personalismo cristiano non è altro che la cosiddetta “soggettività”, a cui è legato il tema delle “differenze” (di genere e di altro) di cui si è discusso molto negli ultimi decenni. Vedi a questo proposito anche il Documento del “Buonsenso per la scuola”

Ho notato l’enfasi con cui qualcuno ha accolto il “ nuovo” verbo del “nuovo umanesimo”. Devo ancora autocitarmi: ricordo che nel primo esame di filosofia morale a Bari il prof. Semerari ci fece studiare “Il nuovo umanesimo” di J. Huxley. Per non parlare di Snow e se mi è consentito per l’ultima volta, visto che sono un inguaribile marxiano, del buon filosofo di Treviri (sempre negli scritti giovanili) il quale però proponeva di realizzare l’unità di teoria e pratica con il “lavoro” di cui purtroppo non c’è traccia nel Documento del 3 aprile.

Mi scuso per questo ultimo excursus filosofico, ma a volte serve a far capire a qualcuno che non basta enunciare “pensieri rivoluzionari”, occorre, sempre parafrasando il buon vecchio Marx delle Tesi su Feuerbach (la n. 11) non solo “interpretare” ma anche “cambiare” la scuola


Note

1 Ricordo di aver sentito parlare di “mondialismo” da Asor Rosa alla fine degli anni 80 nel Convegno “La scuola italiana verso il 2000” (La Nuova Italia)

2 Il bellissimo libro di R.Simone “Forme di cultura che stiamo perdendo” andrebbe letto in tutte le scuola

 


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