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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Educazione e politica*

di Gabriele Boselli

 

1. La piadina con la nutella

Guardavo il mondo, nell’Agosto del 2003 mentre i telegiornali, liquidata la questione delle morti degli anziani poveri attribuendo la colpa solo al caldo (nel prossimo inverno solo al freddo), dibattevano un grave problema politico: se la piadina fosse di destra o di sinistra. Politici e politologi di sinistra, per non apparire arroccati su posizioni vecchie e superate dai tempi, la ascrivevano sulle loro posizioni, quelli di destra, più aperti alla vita materiale dopo il congresso di Fiuggi, gridavano al tentativo della sinistra di appropriarsi di cosa loro. I centristi sostenevano che la piada è di sinistra se farcita con erbe, prosciutto crudo o stracchino, di destra se piena di Nutella o prosciutto cotto.  Nessuno contestava la farcitura con mortadella, troppo chiaramente connotata.

Nell’ estate successive il dibattito politico non ha avuto particolari colpi d’ala. D’Alema prima e Rutelli e Fassino ci hanno rassicurato: un eventuale, improbabile  governo di sinistra non cambierà le riforme della destra, i nostri soldati continueranno a combattere in Iraq, a meno che anche i marines si ritirino, possibilmente non fuggendo sull’elicottero dal tetto dell’ambasciata. Quel che è grave è che c’è pochissima ironia; non è un gioco, è politica quale può esercitarsi nell’Italia nonpensante dei primi anni 2000.  Lo stato della democrazia, lo Stato, la liquidazione del patrimonio nazionale (v le denunce di Italia nostra), il crollo della raccolta fiscale sono non-problemi.  La distruzione dell’ambiente naturale è attribuita principalmente a mentecatti che si divertono innocentemente ad accendere fuochi.

Eppure la gente tace, schiatta tranquillamente nelle fabbriche, s’intorda sulle autostrade, si arrostisce sulle spiagge, s’intontisce nelle discoteche, s’imbecillisce alla televisione, legge rotocalchi, quasi totalmente in preda alla narcosi del sistema informativo globale; è indifferente alla depredazione e al depotenziamento dello Stato e alla demolizione della giustizia..

Fine della politica? No, sua progrssiva irrilevanza e, come pratica attiva e disinteressata, pressochè totale sospensione. Si guarda il “teatrino” programmato in TV e tanto basta.

In vista di una sua lontanissima ripresa leggo e ripropongo con qualche variazione al lettore (le cose non sono cambiate molto) alcune pagine scritte un paio di anni fa in occasione di un importante convegno internazionale di Encyclopaideia, tenutosi all’università di Bologna, su pedagogia e politica. Prima o poi, la città si sveglierà e ci sarà bisogno anche di strumenti teorici.

 

2. Donde muovere lo sguardo

 

Il punto da cui muove la vista dà buona parte della forma al paesaggio osservato. Nell’intestazione del capitolo il termine educazione precede politica non certo per una pretesa di supremazia ma solo per indicare nel primo sito, empirico e scientifico, il posto onde si indirizza lo sguardo verso un altro luogo, quello della politica. Sorge subito un problema: sino a poco tempo fa la politica non era un luogo, era il luogo, l’ambito di tutti gli ambiti, il punto da cui venivano stabiliti i valori di ogni valore, il luogo della decisione su criteri/crateri del potere.  F.Nietzsche (letto in Al di là del bene e del male Mursia, 81) poteva scrivere che “ i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l’"a che scopo" degli uomini”. Con tutto il suo pensiero “negativo” Nietsche  nutriva comunque  un’idea alta di politica, vi vedeva il luogo di individuazione e rafforzamento degli assi teleologici di una cultura.

Oggi il “dove” e “l’a che scopo” degli uomini, il “così deve essere” in altre parole l’intenzionalità politica vengono negli USA come in Russia, come da noi e negli stati africani, stabiliti in vista di obiettivi cortissimi e coincidenti strettamente con quelli dei gruppi al potere. Nelle società dove la comunicazione politica è più semplice il potere parla con le armi e ideologie rozze (culto esplicito del Capo etc) e usa istituzioni chiuse (dai manicomi ai campi di concentramento alle deportazioni); dove questa è più evoluta la pedagogia di massa dei potenti passa attraverso i mezzi di comunicazione direttamente o indirettamente controllati. Nel primo come nel secondo caso, specie dopo la sterilizzazione dei partiti e l’indebolimento degli assetti costituzionali, un’attività politica sorretta da un pensiero e nel contempo efficace è pressochè scomparsa. Dove c’è pensiero non vi è possibilità materiale di traduzione in atti e dove questa esiste non c’è pensiero.

            Mentre la politica dichiarata tale e onesta vale e conta sempre meno e si diffonde una ideologia del disprezzo dei partiti in favore del Partito unico di chi ha le leve della “società del controllo”, le scienze della politica sono rimaste, in genere, a un’idea del potere politico come primario, come potere supremo; non hanno acquisito il senso della sua sopravvenuta secondarietà al sistema degli interessi economici mondiali, autoreferenzialmente governato dalla finanza. La scienza della politica –al pari di ogni altro sapere- può oggi essere inquadrata nel sistema informativo globale come ancilla economiae, subdisciplina concernente le strategie più efficaci e convenienti per acquisire e conservare il controllo di strumenti tradizionali di determinazione (i poteri dello Stato) che possano utilmente integrare quelli industriali e finanziari. Acquisito il diretto controllo dello Stato o assicuratoselo attraverso fidati “intermediari”, la pratica politica viene ad aver come scopo il mascherare la frizione reale degli interessi semplicemente governando il conflitto tra la retorica dominante irradiata dai grandi media e quelle ormai residuali prodotte nei tradizionali luoghi di formazione del pensiero come scuole, università, partiti, chiese.

Ma noi che veniamo dai libri cerchiamo la verità e questa è in primo luogo a-letheia, non far dimenticare, dis-velamento. Vediamo dunque di togliere alcuni dei veli sovrapposti al pensare contemporaneo di massa e che rendono difficile costruirsi una rappresentazione del mondo diretta alle cose stesse, almeno nei limiti in cui queste possono disvelarsi al soggetto in quanto presenza politica attiva e/o passiva.

 

3.  Etiche e istituzioni funzionali a…..

 

Nessuna istituzione, in qualsiasi campo, è mai stata per sè e in sè. Almeno in linea teorica hanno tutte un luogo, un senso, una gamma di fini. Ma la gamma dei fini deve coincidere con quella dichiarata e in democrazia deve essere condivisa. Se il politico “professional” non può essere del tutto indifferente alle ragioni della Politica (il sapere e il pro-gettarsi della Città), il mondo dell'economia, almeno nella sua parte di più larga intelligenza, intende l'etica come necessaria strategia di un mascheramento "politicamente corretto" dei propri obiettivi e delle proprie strategie. Una parte ancor minore mantiene intenzioni etiche autentiche ma seppellite sotto metri di obbligate pratiche amorali e di ideologia conseguente. L'economia "reale", come quella finanziaria e quella più manifestamente criminale, genera con il tempo epistemologie egemoni,  deontologie di difesa del moralmente indifendibile, convinzione di dover ottenere un adeguamento del politico alle (proprie) esigenze economiche. Allo stesso modo si pretenderà che la scuola con i suoi saperi e tutte le istituzioni siano principalmente finalizzate al (privato) interesse economico. Si sente infatti con sempre maggior rumore predicare che lo Stato -e non solo quello "sociale"- va ridotto e forse superato perché non sarebbe più strumento  abbastanza efficace dell'economia.

            Tutto questo -comprensibile come espressione di interessi di parte- non può evidentemente proporsi come fondazione di un quadro eticamente accettabile dei rapporti tra economia e politica, come tra politica e pedagogia.

 

4. La politica o quel che ne rimane

 

Il nostro è dunque tempo di preoccupati interrogativi. La politica pura (conoscenza e progettualità fondazionalmente disinteressate) non è morta ma l’ attività politica nella forma più alta della tradizione occidentale, quella repubblicana, è forse sospesa a tempo inderminato? Sarà limitata al contesto accademico o in aree di dibattito politico sostanzialmente irrilevanti come zona di ridisegno degli eventi?

Le logiche deterministiche di condizionamento ideologico (ideologia nel senso evidenziato dalla critica marxiana) dei tycoons tardomoderni agiscono prepotentemente –al di fuori di qualche stato d’Europa- in tutto il mondo e ovunque, a iniziare dal campo del diritto, (convegno NCM Forlì 2003), va estinguendosi il pensiero del soggetto pubblico e affermandosi quello privato. Vi è ancora spazio per un pensiero a trascendentalità illimitata, universale della democrazia pensante  o solo per quello della plutocrazia; ovvero, quanto futuro ha un pensiero non-propagandistico e al servizio della cosa pubblica?

Certo, il nostro ragionare alla estrema periferia della politica non è sereno; è scritto da un punto di coscienza  politicamente infelice. Una via d’uscita potrebbe essere quella, intellettuale, della parentesizzazione, oppure quella, pratica, di realizzare la virtù dell'astinenza (l'astinenza dei virtuosi nelle epoche di corruzione profonda) o quella Pedagogica, di coltivare l'Utopia. Il che naturalmente non vuol dire astenersi dal mondo ma solo dall'esposizione alle più intense, devastanti radiazioni della macchina del consenso; per coltivare con pochi eletti amici, per tempi migliori,  forme di pensiero critico e creativo di conoscenza e di ethos.

Tuttavia, mentre i filosofi (comprendendo in questa categoria, come all’inizio del sapere occidentale, ogni soggetto di ricerca disinteressata)  discutono in libertà, dominano saperi di mascheramento asimmetricamente normativi, ovvero ingiusti, e produttivi di risultati economici conseguiti ad altissimi costi umani e ambientali.  La ricerca e l'insegnamento di qualsiasi sapere -dalla politica alla fisica- sono ormai promossi all'interno del sintagma finanziario e dunque dell'etica utilitarista, delle metodologie di tipo programmatorio (obiettivi etc) e dei sistemi valutativi oggettivanti. Scompare dall’orizzonte della visibilità l’idea di senso, mentre tutta l’intenzionalità personale e collettiva è risucchiata dagli obiettivi, o sensi nani,  che del senso sono la caricatura.. Mentre la rendicontazione è accuratissima in riferimento a obiettivi di ordine economico (salvo casi Enron- Arthur/Andersen o Parmalat) non si rende conto di nulla rispetto ai grandi valori dell’umanità, ai costi spirituali delle trasformazioni economiche. Ne sono manifestazione in ambito scolastico il trionfo della competenza sulla conoscenza, del criterio di utilità sulla purezza (gratuità), del risultato sul principio, della didattica del dio Mercato sulla paideìa della tradizione ebraico-cristiana.

L’approccio minimalista comporterebbe la rinuncia a trasformare tutto il mondo, la speranza nella (propria e di chi altri voglia salvarsi) salvezza. E niente altro. Ma che tristezza, per noi soggetti politici e pedagogici consapevoli , pensare dalla collina della scienza alla città ove infuria la peste mediatica e miliardi di ex-cittadini incretiniscono e s’insudditano alla luce azzurrina di tubi catodici o schermi LCD!

 

5. Profili epistemologici

 

L'eclissi della scienza politica (nonché della teologia, dell'etica e della pedagogia) nel firmamento dei saperi dura ormai da mezzo secolo, avendo avuto inizio con l’ideologia della  tecnica e il conseguente oscurarsi alla coscienza collettiva del sole perenne della filosofia e in particolare del pensiero idealistico e fenomenologico. L’oscuramento della visione come possibilità originaria di ideazione –grazie (per Loro) alla proiezione contemporanea di spot ingannevoli-  è il punto che penso di dover prendere a inizio di un nuovo cammino.

L’apparentemente irresistibile trionfo del non-pensiero nel mondo contemporaneo non può essere un buon motivo per smettere di pensare dunque di prestare attenzione ai fenomeni per ideare un quadro teorico che, tratte motivazioni nel campo dell’esperienza, strappi il velo delle apparenze, le superi criticamente. Faccia ri-vivere il mondo della vita politica e pedagogica per delineare una teoria rigorosa e, magari, capace di aiutare a produrre un mondo diverso

Si tratta dunque in primo luogo di disincantarsi, dis-trarsi dalla grigia favola mediatica. Non per cadere in un altro oblio del pensiero ma per creare un pensiero che crei un nuovo mondo, e di compiere questo atto fuori ma anche dentro l’universo telematico. Tra tutti gli universi che l’immaginazione del soggetto trascendentale (l’insieme degli uomini) ci offre, quello politico è il meno “frenato” da elementi oggettivi: qualsiasi tesi può suonare come verità adamantina. Se la tesi secondo cui gli asini volano fosse di ordine politico e mediaticamente ben sostenuta, troverebbe milioni di sostenitori. Hanno trovato adesioni plebiscitarie anche tesi non più strampalate ma più pericolose come  ieri la superiorità della razza ariana o la dittatura del proletariato, come oggi la supremazia anche etica (Novak) del Mercato. Il governo dei processi comunicativi che producono immaginazione collettiva produce “realtà” subdolamente incontrovertibili, mondi resi veri dal fatto di essere massicciamente evocati. Finchè pensiamo come ci addestrano le cose non possono cambiare, nulla di nuovo può nascere se un nuovo e autonomo pensiero non nasce. Occorre un’idea davvero originante perchè un nuovo mondo si produca sulla scena degli eventi. E occorrono una scienza della politica e della pedagogia non integrate nel sintagma del non-pensiero di successo e che producano utopie essenziali (generative) dunque con qualche possibilità di divenire evento.

 È teoria autentica ciò che validamente ci invita a far esodo dalle ristrettezze del presente, ci spinge andare oltre, verso la sosta ove fra molti anni  collimeranno le attuali caotiche direzioni di senso.

E’ una impresa difficile ma occorre tentare. Né la politica né la pedagogia possono concedersi il lusso del pessimismo. Fosse anche solo pessimismo della ragione: sarebbe involontaria complicità nella costruzione del peggio. Quel che ci aspettiamo in qualche misura accade sempre.

 

6.  Guardare oltre la contingenza

 

Politica e pedagogia non possono dunque essere solo scienze della contingenza (Luhman) ma anche dell’intero campo dell’esperienza umana; siano saperi che la analizzano e poi ne fuoriescono per creare eu-topia, nuovi, più umani e felici scenari di vita. Uno dei modi per evitare che il pensiero si banalizzi è quello di assicurargli un costante supporto dalla tradizone: questa è l’eredità di miliardi alla n.sima potenza di atti di pensiero e di non pensiero che si sono confrontati tra loro e con gli eventi delle epoche in cui si sono evoluti. Sono il prezioso esito di innumerevoli esistenze, un patrimonio da conservare (1)

 

(1).Ebbene, nell’età del non-pensiero non si trova più un conservatore neanche a pagarlo a peso d’oro. Sono diventati tutti innovatori e riformisti: quelli “di sinistra” per antica abitudine ma ora –da quando han capito che almeno per un paio di decenni  il futuro è tutto loro- anche quelli di destra. Che possono farci la scuola e l’università, luoghi istituzionalmente deputati alla conservazione come al cambiamento del sapere?

 

Noi nella scuola ricordiamo che ogni sapere è tale se è frammento di luce e, pur in dialogo con il mondo, guarda oltre ed è memoria di passi antichi, di antichi spostamenti da…a  all’incontro con l’accidentale e l’essenziale della cultura e del proprio essere. E’ sedimentazione di infiniti riverberi del passato come di atti intenzionali, di disposizioni all’oltre-sé; parimenti, ogni sentiero (curriculum) seriamente progettato è esito di migliaia di attraversamenti avvenuti anche sulla stessa linea del territorio.

La  scuola -tutta-  è luogo di orientamento attraverso i saperi,  ossia attraverso i testamenti intellettuali dell'umanità come é stata sino ad ora  rappresentata. Da sempre il sapere viene dall’incontro tra la disponibilità ad apprendere di un soggetto e le offerte di conoscenza dell’ ambiente in cui questi si forma. La conoscenza e l’educazione ideali sono quelle in cui le due componenti sono equilibrate, in cui l’ambiente ha rispetto dell’individuo, delle istituzioni e delle loro storie, non ne totalizza la visione delle cose.

Sappiamo sempre del mondo e di noi per ciò che ci viene detto; ma oggi fuori dalla scuola e –ma non sempre- dalla famiglia, i giovani sono indotti, a un sapere che abita sempre meno in interiore homine   e sempre più nell’interfacciamento costante alle reti di comunicazione. Ormai il valore socialmente riconosciuto di un sapere non è nella qualità e nella generatività dei suoi asserti ma nella pressione temporanea che i suoi apparati diffusivi esercitano o direttamente  sulle masse o su target strategicamente scelti per la loro capacità replicativa.

Per fortuna il valore della conoscenza non coincide con quello del suo riconoscimento momentaneo: può esser riconosciuto dopo secoli o anche mai ma quelle idee che sanno lanciare ponti con gli eventi avranno comunque corso, magari senza che il loro autore sia più riconosciuto. Inoltre, le idee più alte sono nulla se non rivivono nella coscienza di un soggetto che le pensi non replicandole ma ri-costruendole. L’idea si produce in mondo e il soggetto ne può essere l’autore e il testimone: non c’è coscienza autentica senza un soggetto liberamente attivo; non c’è spazio per il pensiero autentico (personale, critico, creativo), né relazione trascendentale, quando uno dei soggetti è schiacciato sotto il peso della cultura fabbricata per le masse, quando –ad esempio- l’atmosfera intellettuale è  attestata sul “pensiero corto” ,  un modo di pensare, di agire, di vivere che ha “ridimensionato i propri orizzonti”.

 

 

7. Nuove/antiche fondazioni per non perdersi

 

La scuola è da sempre il luogo della conoscenza, ovvero dell’essenziale, di un sapere alto e disinteressato, teso a costruire le fondazioni di un autentico pensare o a cercar di edificare addirittura le fondazioni. Dopo le lezioni di Nietzsche,  la cultura alta, ipercomplessa e plurale  del nostro tempo vive  una piena e largamente,  anche se non universalmente,  riconosciuta  crisi delle istanze veritative e di certezza; il nostro è –nell’alta cultura- il tempo   della  "crisi  dei fondamenti" .  Non c’è più una base statica e immodificabile su cui fondare l’edificio del sapere. Ma oggi quel che si chiede alla scuola con particolare insistenza è di essere una vera e propria fabbrica di competenze. La competenza come surrogato della conoscenza da distrubuire alle masse.

Forse nella richiesta, che le élites del potere inducono nelle masse, di competenza c’è un (per loro) fondato timore di incontrollabilità e improduttività di una troppo larga condivisione delle conoscenze. Le competenze non preoccupano e possono anzi essere strumentalizzabili, le conoscenze alterano (rendono altre da quel che sono) le visioni del mondo e gli equilibri del potere-

Non é senza motivo che gli ultimi programmi della Facoltà di scienze della formazione ma anche di altre facoltà prevedano corsi di studi finalizzati a una immediata e diretta spendibilità del titolo di studio in mestieri ben precisi, prima ancora che il giovane abbia avuto almeno il tempo di formarsi nelle discipline scientificamente costituite: par quasi che il fine dello studio universitario non sia più invitare al convito della conoscenza ma fabbricare competenze vendibili. L'università non è più il luogo universale (volto al tutto) e disinteressato ove gli studenti insieme ai maestri perseguono la conoscenza, non persegue più l'universale ma un (illusorio) particulare. Peraltro, le università comuni allestiscano pure catene di montaggio della competenza per i figli del popolo; esclusive e costose università formeranno invece allo studio della conoscenza -ovvero quella che, come sanno Lorsignori, davvero conta- i rampolli che lavoreranno negli strati alti dell’élite (Di Maio,LUISS).

Ma la pedagogia è da millenni organo di un sapere pensante e vocazionalmente universale; non può tradire la sua missione. Non può continuare in una cultura del fondamento senza fondazioni, divenuta non più adeguatramente interpretativa dello spirito essenziale dell’alta cultura, la sola che può esserle di riferimento. "Essenziale"  non è affatto sinonimo di   “minimo"  (spesso i due termini sono considerati tali), concetto quest’ultimo interno a una cultura del fondamento, della necessità, della determinazione. Bisogna dunque -riscrivere i programmi scolastici e universitari con occhio volto non alla spendibilità del titolo sul mercato delle persone ma alla formazione umana e scientifica di base (2).

 

(2) Io sono uscito dall’Istituto magistrale di Forlimpopoli prima e dall’Università di Urbino poi, trent’anni or sono, senza la minima idea di come operare tecnicamente nella scuola (qualcuno dice che tale sono rimasto) ma con la percezione che il mio pensiero, nei limiti dell’età, fosse in grado di relazionarsi (e di esprimere validamente) con  lo stato della cultura e le scienze dell’educazione. Mi sentivo non oggetto ma parte del sapere, non mi limitavo a studiare ed applicare ma dialogavo, discutevo anche a distanza di secoli con i grandi autori che leggevo e di cui avevo appena sentito dissertare.

Ricordo le discusioni con preside Rovinazzi su Gentile, con Gianfranco Morra sul sacro, con Carmelo Lacorte su Kant, con Pasquale Salvucci e un giovane Domenico Losurdo su Marx, con Italo Mancini su Heidegger e Gadamer, con Nando Filograsso su Dewey. Erano allora le scuole e l’università di uno studio non finalizzato all’esame, di un pensiero pensante, non amministrante o esecutivo; pensiero delle domande radicali, dialettico, paradossale, di una totalità senza violenza, che vedeva trame unitarie entro la contraddittorietà dei fenomeni, integrante e trasgressivo, liberante il l’anima dalle sue tendenze all’inerzia.

Non so se il non aver appreso competenze direttamente utilizzabili mi abbia poi nuociuto molto nella vita. Ma certo non sarei stato io se fin dagli anni giovanili non avessi incontrato la conoscenza nelle sue forme più pure.

Qualche anno fa son tornato da ispettore a Forlimpopoli e da professore a Urbino. Il non-pensiero era minaccioso, ma non ancora vincente; le parole dei miei maestri suonavano ancora, le pagine che io avevo letto erano ancora al posto d’onore. Non so per quanto tempo ancora, ma confido per molto, forse per sempre.

 

8.  Tratti che i nuovi saperi potrebbero assumere, se le cose dovessero andare per il meglio

 

I saperi volti non al successo ma alla verità, all'essenza sono saperi di lungo respiro; portano a pensare le cose non solo come sono oggi ma come sono state e probabilmente muteranno, indipendentemente dal loro utilizzo immediato  e prossimo venturo.  I saperi essenziali –saperi di libertà- costruiscono la città futura, valorizzano le diversità e le differenze, quelli minimi o "irrinunciabili" danno  a tutti qualcosa che é estraneo a ciascuno.

E’ opportuno  per chi è a vari livelli coinvolto nella vicenda della scuola fermarsi ogni tanto e riflettere sui saperi che si sono sedimentati nei testi e su quelli che ancora attendono di entrare nella dimensione della scrittura o dell'immagine riconosciuta. L’evidente e conclamato cambiamento dello scenario globale impone da un lato alla scuola e all'università di resistere alle ruspe della cultura fabbricata per le masse e di conservare il tesoro millenario della cultura alta; dall'altro richiede d’indicare le direzioni di senso davvero importanti, altrimenti si finisce per credere che l’unico percorso valido sia quello che attraversa casa, fabbrica e supermercato.

Anche quando le dinamiche dell’istruzione saranno modellate più dalla struttura della domanda modellata dalla pubbblicità diretta e indiretta che dall’offerta, noi dovremo rispondere anche a domande non sentite. Il maestro non è chi si limita a compiacere, è anche chi dis-piace, porta l’allievo a mettere in crisi la struttura della propria domanda. 

Dobbiamo resistere alla pressione dell’insensatezza, conservare la memoria ma non solo; anche pensare, costruire, creare e non agitarci;  anche se tutti ci fanno fretta, anche se tutto ci porta ad un agire economicistico senza fondazioni e senza autentico senso. "Pensare nonostante" e "pensare in vista di":  aspetti di chi insegna i saperi che devono permanere come quelli che si vanno disegnando oltre l'orizzonte del tempo.

Penso che dobbiamo promuovere nei prossimi anni una conoscenza non tassonomica  ma che venga dalla vita e dalla cultura e sia volta all’essenziale: dunque pluralistica, interpretativa, regionale (lavoriamo al curricolo locale), aperta sul possibile, indeterministica, aprente, slargante, sollevante.

 

La cultura in cui offrire essenziali spazi di forma alle nuove generazioni potrebbe recuperare lalmeno due idee husserliane: l’idea di mondo della vita e quella  -presente soprattutto nella Crisi delle scienze europee - di saperi non separati dalla concretezza del soggetto conoscente, dai suoi tempi e dai suoi luoghi, saperi che -parlando a lui- dicano di lui. Un sapere (H.Arendt) plurale come sono plurali gli esistenti. Un sapere articolato attraverfso curricula, non espressivo delle ontologie universali imposte dal mercato mondiale delle idee di successo ma prodotto gratuitamente, interrogando nella propria lingua e con incursioni nelle lingue aliene non il tutto ma ogni cosa e saldamente poggiando i piedi sulla terra natia (M.Heidegger).

 

9.  Primato dello Stato come garante della libertà

 

Il Potere, che non è lo Stato e anzi da sempre lo sfrutta, proclama da una decina di anni  di avvertirlo come una palla al piede, un orpello-fardello dell’Ottocento che dovrebbe dissolversi in una organizzazione più funzionale all’economia. 

Non è evidentemente il mio avviso: indebolire lo Stato significa togliere ai più ogni difesa dagli animali predatori. Significa rinunciare a idee di giustizia e di libertà per tutti. Oltre le contingenze, dobbiamo invece sperare in una  transizione di forma dello Stato -anche nelle sue varie articolazioni territoriali- da sistema d'istituzioni pre-costituite ai soggetti individuali e collettivi, tendenzialmente autoreferenziali e preregolate da norme fisse a vivida costellazione di servizi continuamente riprogettati in funzione dei soggetti fruitori. Il passaggio non dovrebbe comunque voler dire rinuncia delle strutture della Repubblica ad una propria intenzionalità etico-pedagogica e al dovere di offrire a operatori scolastici e alunni  una plurale gamma d'opzioni in tal campo.

Il mutamento della forma/sostanza dello Stato comporta una ulteriore evoluzione della sua soggettualità: da Stato (scuole) "di tutti" a Stato (scuole) che sia anche "di ciascuno" assolva alla funzione di catalizzatore non unilateralmente selettivo del sapere. Platone e Gentile insegnano che lo Stato guida alla conoscenza, io aggiungo che il Mercato -che si muove oggi anche sotto il falso nome di “società della conoscenza”- invece è interessato quasi solo alla competenza. I politologi parlano ormai di uno "stato globale senza Stato", della sostituzione di quest'ultimo con una serie di regioni economiche organizzate non dalla Legge e dalla Scienza ma unicamente da rapporti di forza economici. In questo contesto, la scuola di Stato che guida al conoscere non ha evidentemente più senso, o meglio ne ha proprio perchè la situazione è questa.

 Io sono convinto che, come non vi è Stato senza scuola di Stato e una pluralità di scuole anche a gestione privata ove si insegni il senso dello Stato, lo Stato è prima di tutto un evento culturale e pedagogico o, per dirla con Hegel, forma oggettiva dello Spirito. Spirito che è a rischio estinzione a causa di quell’immenso virus che è la lingua-mondo  angloinformatica, la lingua dell’Impero, entità nemica di ogni sovranità nazionale e di ogni conoscenza non meramente strumentale.  La sopravvivenza del pensiero richiede allora un luogo di educazione disinteressato e pluralista, dunque anche statale, ove tutte le culture possano con-vivere e i saperi di ampio respiro progredire. Va realisticamente riconosciuto che nella prevalente cultura massmediologica e nella relativa appendice ufficiale prevale l’immagine strumentalistica, baconiana dei saperi come competenza. Pare che il  “pensiero  corto”, edizione per le masse del “pensiero unico” debba proprio averla vinta. Ma chissà.

La scuola di Stato (scritto dunque con la maiuscola, in quanto stato dello Spirito; nessuno si adiri tanto sono espressioni di pura utopia) e le scuole che operano nello Stato non devono comunque perdere di vista il fine verso cui tendere, altrimenti gli spazi relazionali e i saperi rischiano di essere strumento di frantumazione ulteriore dell'uomo. Se l' attenzione è rivolta ad un soggetto intero che vive ed esperisce  in un ambiente culturale, allora  l'intero del soggetto va collegato  all'intero della cultura. Certo la cultura è tutt'altro che unitaria; proprio per questo vanno ricercate trame, non solo analitiche, nè meramente specialistiche,  che sappiano connettere i saperi tra loro nell' "antico" linguaggio dei libri e nella versione liberale della tradizione idealistica. 

 

 

(3) Occorre pensare anche la Riforma morattiana come assunzione (non ricevimento dall'alto) di una forma nuova: fuori dalla lettera dei testi normativi, nella realtà dovrà essere pensata e progettata dalla scuola stessa, chiamata a dar prova di capacità autoprogettuale.  I futuri indirizzi del centro dovrebbero solo non ostacolare la scuola nel cambiare secondo lo spirito della Cultura (non del 'pensiero unico' dell'economia), come sinora ha saputo fare in quel prezioso luogo d'interpretazione e progetto che é stata, è, e deve rimanere la scuola dell’infanzia

 

Ogni autentico sapere è sapere della libertà, è pensiero critico e creativo; è lasciar essere i soggetti e le cose; se non c’è apertura essenziale (originale) l’altro-dall’io non esiste se non come mero oggetto, è inesistenza dissimulata, epifania del nulla, competenza del niente (il mondo senza il soggetto). Ma anche il soggetto “dominatore” è un cavaliere inesistente, è signore di fantasmi o di creature distrutte.

Libertà intellettuale è poter esser parte della conoscenza umana, non lavorare come competenti tecnici del suo confezionamento e distribuzione o come consumatori dedicare la vita a ingurgitare quel che passa il Mercato. Libera è quella scuola che porta i giovani a portare al mondo imprevedibili configurazioni che senza di loro non sarebbero.

 

 

10.  Conoscenza e competenza. Ulteriori focalizzazioni

 

E' missione (non “mission”, un'americanata) della scuola porgere cenni per affrontare il futuro, indicare le direzioni di senso davvero importanti  senza  l’abbandono di parole e consuetudini millenarie e la loro sostituzione con altre più coerenti con gli assi valoriali dell’epoca, Questo in un processo di ricambio velocissimo della cultura di massa e purtroppo portato a privilegiare il visibile sull’invisibile, il prossimo sul lontano, l’utile sul gratuito, i risultati sui princìpi.

E’ interessante notare che i più diffusi dizionari filosofici (“Dizionario delle idee”,Gallarate-sansoni,1977 e l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981), e i più noti dizionari psicologici (Galiberti, UTET, 1992 e il Dizionario di psicologia, ed.Paoline, 1981) non trattino specificamente il termine competenza, mentre riservano molto spazio al termine conoscenza. Se studiosi loro omologhi li riscrivessero oggi, forse accadrebbe il contrario. Secondo me non del tutto a torto: al nostro tempo non interessa l’elaborazione di pensiero ma, pragmaticamente, l’utile che può venire dal possesso di quadri disciplinari. La conoscenza é fondazionale ma interrogante, critica, creativa dunque potenzialmente fastidiosa per coloro che detengono il controllo della situazione; la competenza è invece un effetto secondario ma innocuo sui rapporti di potere e potenzialmente utile. Conoscere è aver interiorizzato l’essenziale delle cose abitare intelligentemente i fenomeni dunque riguarda pratiche riservate ai signori. La competenza –nell’interpretazione più diffusa- è saper in qualche modo ottenere risultati vendibili sul mercato dunque differenzialmente valorizzabili o cancellabili da chi lo controlla.

Siamo contrari a riservare la conoscenza ai signori del mondo. Conoscere è per noi acquisire uno spazio di inerenza all’essere, partecipare di ciò senza di cui l’essere non è più tale, ciò che è necessario affinché l’essere viva. Significa  abitare la terra natìa, la casa in cui si sta, la lingua in cui si risiede;  ma anche essere aperti a ciò che schiude al trascendimento dallo stato, apre alla pienezza di un senso intenzionale.  Il termine conoscenza si oppone intrinsecamente a ciò che non appartiene al soggetto dell’essere a ciò che aliena, che demolisce il proprio abitare fisicamente e culturalmente la terra, ciò che blocca il distendersi intenzionale del soggetto o –pedagogicamente-  ne canalizza gli itinerari di autoeducazione Conoscere é l’heideggeriano “sbocciare da se stesso”. E’ conoscenza essenziale  quel sapere che avvicina il soggetto all”argomento fino al rendersi presente di quel che è remoto, quel che porta all’apparire, al manifestarsi dell’ignoto entro l’ambito di ciò che è noto.

Conoscere è far agire il sapere che apre, lascia che gli enti e gli eventi cognitivi accadano senza irretirli in tassonomie,è creare reti non vincolanti di conoscenza.

Conoscere  è approssimarsi all’identità profonda (trascendentale) di soggetto oggetto, far cogliere al primo un’identità originalmente  ignota a lui stesso e che non può scoprire senza attraversare la foresta della cultura, senza aver passato i campi dell’esperienza scientifica e poetica  del mondo. La conoscenza non è solo dell’evidenza; nasce anzi –insegna Socrate- dal superamento dell’evidenza, da uno sforzo, che nasce dal profondo, di guardare alto e largo; e lontano, e gratuitamente.

Da Platone a Kant, a Husserl, ad Heidegger, a Gentile la conoscenza è dell’essenziale, dei princìpi, di ciò che,  dentro la parola e fuori dalla chiacchiera, riduce il superfluo delle parvenze e apre il soggetto a rappresentarsi originalmente  (ma anche adeguatamente) il mondo.  La scuola può/deve offrire un orizzonte storico per l’intelligenza dell’essere: offrire dunque conoscenze e saperi (costellazioni di conoscenza) essenziali in quanto lasciano essere anziché trasmettere statuti di ciò che la cultura dà per essente. Se la conoscenza non è dell’essenziale,n del gratuito o –direbbe Pomi- dell’inedito- è chiacchiera, ideologia liberista e dunque illiberale del Mercato, introduzione al culto del Nulla.

Edith Stein  ci ha indicato come la conoscenza non sia  mai  uno sterile, industriale prodotto automatico di operazioni tecniche ma qualcosa di  imprevedibile, di vivo, di fecondo, di generativo di sapere ulteriore. Direi che laddove la competenza risiede nella cultura dell “utile”, l’essenziale abiti in quella della “fondazione”; dove la competenza é “saputa” la conoscenza  è, con Gentile,  sapere in atto.

 

                       

 

Conclusione

 

Con il suo cavallo nominato senatore, Caligola insegna che il vero potere è quello che si impone non attraverso il rispetto dell’etica e il far agire la ragione ma riesce a dominare avendo forza sufficiente a sovvertirle.

Io (noi uomini di volontà buona) vorrei che la politica fosse il riprendersi di uno Stato con la maiuscola, alternativo al mero dominio della forza economica, eticamente motivato e che la scuola fosse , con Gramsci, luogo di formazione dello Stato a venire.

 

 

Bibliografia

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G.G.W Hegel Fenomenologia dello spirito (1806) ora in La Nuova Italia, Scandicci, 1971

Giovanni Gentile (1944) Genesi e struttura della società, Mondadori, Milano, 1954

Giovanni Gentile (1889-1944) opere raccolte in Opere filosofiche, a cura di E.Garin, Garzanti, Milano, 1991

Antonio Gramsci  (scritti vari da anni venti.trenta) La formazione dell’uomo Editori riuniti, Roma 1970

C.Schmitt Le categorie del “Politico” Il Mulino, Bologna, 1999

Italo Mancini L’Ethos dell’Occidente, Marietti, Genova 1990

Herbert Marcuse La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza Guerini e associati, Milano, 2002

A.Gambino Il mito della politica Il Mulino, Bologna, 2000

D.Fisichella Denaro e democrazia Il Mulino, Bologna

Carlo Galli  Politica e politico nella fine del moderno in Filosofia politica Il Mulino (Bologna), 1999

Vandana Shiva, Le custodi  Slow, Bra, Ottobre 2001.

Antimo Negri "Stato pedagogo. Autonomie scolastiche e scuole come imprese" Atti del convegno "Educazione, scuola e Stato" ed. BM  '95

Antonio Erbetta (a cura di)  Senso della politica e fatica di pensare, , CLUEB, Bologna, 2003


* Rielaborazione dal saggio pubblicato in Senso della politica e fatica di pensare, a cura di Antonio Erbetta, CLUEB, Bologna, 2003


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