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ELOGIO DELL’UOMO DI SCUOLA NEL FILM
“ESSERE E AVERE” DI NICOLAS PHILIBERT

 di Pasquale Picone
psicoanalista junghiano

 

Si produce un strano fenomeno nella mente dello spettatore di questo film di Philibert.

Vi sono scene di una natura prorompente, gelide di bufere di neve. Colme di alberi sontuosi, severi e senza tempo, come antichi saggi che ammoniscono sul senso della vita.

Scene colme della lentezza, della gravità e bonarietà di mucche al pascolo o alla greppia nella stalla. Scene brulicanti di vita e di orifiamme nel rigoglioso campo di grano, dove si cerca un bambino smarrito.

 Scene prive di commento sonoro. Perché la mente sia libera di ascoltare la sonorità di altre parole. Le immagini mute, ma che argomentano sulla vitalità, riattivano dal fondo della memoria le domande radicali, lette e ri-meditate, di Erich Fromm: Avere o essere?

 Dopo ventisette anni, il libro di Fromm è del 1976, Philibert dialoga e risponde, alla domanda di allora, con una sorta di ecolalia. Che tuttavia modifica tre piccole varianti espressive. L’interrogazione diventa affermazione; l’essere precede l’avere; l’alternativa è diventata una congiunzione.

 Se si nutrissero dei dubbi sull’arbitrarietà delle precedenti interpretazioni, basterebbe, al di là del notevole dibattito che il film ha alimentato in Francia, gettare un’occhiata alla biografia del regista.

 Philibert dopo aver studiato filosofia, nel 1973 comincia un’intensa attività di assistente alla regia e di scenografo per René Allio, Alain Tanner, Claude Goretta e altri. Nel 1978 realizza con Gérard Mortillat un lungo documentario, La voix de son maître, e un filmato televisivo di tre ore, Patrons/Télévision, dove riprende in modo assolutamente naturale i discorsi di alcuni dirigenti di grandi gruppi industriali, censurato e trasmesso solamente nel 1991.

 La moindre des choses (1996) è ambientato nella clinica psichiatrica di La Borde, un complesso ospedaliero all’avanguardia dei malati e nella cura delle patologie mentali. Il teatro, la sua magia e i suoi segreti sono al centro del film successivo di Philibert, Qui sait? (1998).

Ecco l’anima del regista: la filosofia, la verità sui gruppi dirigenti, la cura della mente umana, il teatro.

 Quando Fromm analizzava nel suo testo come l’assoggettamento della natura, da parte dell’uomo, abbia finito per coincidere, sempre di più, con la distruttività, non poteva evitare di concludere che l’unica speranza era riposta nella trasformazione dell’uomo stesso:

“… per la prima volta nella storia, la sopravvivenza fisica della specie umana dipende dalla radicale trasformazione del cuore umano (E. Fromm, Avere o essere?, Milano, Mondadori, 1999, p.32, il corsivo è nell’originale).

 Non riecheggiano qui anche le recenti parole del Pontefice sulla guerra attuale come pericolo estremo per l’umanità?

 Diviene allora evidente uno dei messaggi centrali del regista. La scuola e la vocazione docente come speranza di trasformazione, come patrimonio prioritario nella società complessa della globalizzazione.

 E’ lo stesso messaggio  di una delle figure più alte dell’Umanesimo europeo, Erasmo da Rotterdam: “La prima speranza di una nazione è riposta nella corretta educazione della sua gioventù”. Quell’Erasmo il cui Lamento della Pace, oggi tornato più che mai di attualità (una nuova traduzione è disponibile nelle edizioni Multimage di Firenze), analizza come la pace si instauri a partire dal cuore dell’uomo.

 Dalla sua interiorità, così spesso sommersa dai conflitti. E come la distruttività inter-personale sia così sovente la risultante della irrisolta conflittualità intra-personale. E come tutto ciò produca, per riverbero cumulativo, per sommatoria e crescita esponenziale, la distruttività che va ad alimentare le Erinni della guerra.

 Non vi è da meravigliarsi che la distruttività dell’uomo si sia rivolta verso la terra e l’ambiente. Verso quella Madre Terra che gli ha fornito sostentamento per millenni. Si comprende, allora, il pessimismo di S. Freud nella risposta al carteggio con Einstein su Perché la guerra?

 C’è bisogno di una nuova educazione del cuore. Di una educazione alla pace, alla democrazia sostanziale nelle relazioni quotidiane, come diceva Dewey, ai valori dell’umanesimo, incarnati nei comportamenti di chi li deve trasmettere.

 Il lavoro di Philibert non è un film recitato. E’ un film documentario su di una vera multiclasse, in un ambiente rurale e un maestro autentico. Sia perché quello è il suo mestiere nella realtà, sia per la verità della sua vocazione. Le scene sono spontanee, senza copione e senza le regole del set.

 Nel bel mezzo del film il maestro si dedica alla cura del giardino della scuola, si rivolge alla telecamera e una voce fuori campo lo intervista sulla storia personale e le origini della sua vocazione docente. I genitori erano contadini, la sua scuola è frequentata da figli di contadini, in una zona rurale. Vi è troppo realismo di armonia con la natura, per non essere passibile di una lettura simbolica, filosofica ed ecologista, sul filo immediato di Fromm, sino a Schelling e Froebel.

 Un maestro apparentemente severo, capace di contenimento affettuoso, sia del bambino di scuola materna, che del bambino discolo. Sul quale vi è una scena stupenda di come il maestro riesca a catturarne l’interesse verso l’idea del conteggio infinito dei numeri.

 Un maestro in grado, per istinto magistrale e per quell’esperienza maturata nella scuola militante, di applicare spontaneamente i canoni dell’intelligenza multipla di H. Gardner, quando addestra gli allievi a friggere un uovo. O dell’intelligenza emotiva di D. Goleman. Allorquando educa gli allievi al recupero e all’elaborazione delle emozioni stimolate dai conflitti tra compagni. Oppure quando li addestra a non rimuovere le emozioni di fronte alla malattia e alla morte dei genitori. A non rimanere terrorizzati di fronte ai terremoti della vita.

 Un film che, come ha scritto giustamente Liberation, è “un elogio del lavoro di insegnante. Un mestiere che, l’avevamo dimenticato, è il più bello del mondo”.

 Un film che riconduce la categoria dell’essere alla dimensione del Sé e dell’individuazione. Intesa come entelechia aristotelica, come realizzazione del demone socratico verso la formazione delle anime.

 E la categoria dell’avere a ciò che abbiamo in dono, sin dalle origini del mondo: la natura che ci ospita. E che, per ciò stesso, per il suo essere opera del divino Autore, divina essa stessa. Libro di sapienza in cui bisogna imparare a leggere e che, come nella visione di Giordano Bruno, degli Umanisti e dei Rinascimentali, meriterebbe sacra venerazione.

 L’altra dimensione dell’avere, che nel dialogo di Philibert si ricongiunge e riconcilia con la categoria dell’essere, è l’affetto delle anime alle quali si è fornito un contributo di formazione.

 E’ un film sull’identità di tutti.

Sull’identità, la ragion d’essere della scuola come maestra di vita che, per essere tale, deve ispirarsi all’altra, più universale maestra: la natura, come simbolica espressione, simultaneamente, dell’essere e dell’avere.

 Quella ragion d’essere della scuola che, più spesso di quanto si vuole comunemente ammettere, si dilegua. Trasformando la scuola in istituzione totale, dove, anziché formare, si de-forma.

 La ragion d’essere, l’identità della scuola che, quando si dilegua, come ad es. nei casi estremi o nelle trasgressioni patenti, è così pronta a trasformarsi in aula giudiziaria. Dove si stabiliscono le colpe e si comminano le pene.

 La ragion d’essere e l’identità che la scuola, nella società complessa della globalizzazione, non dovrebbe mai obliare di individuare, di riconoscersi, anche nei casi estremi, nella ragione formativa.

 Una ragione formativa che non riguarda solo i ragazzi, ma come perpetuo circolo virtuoso, concerne tutti coloro che, a diverso titolo e ruolo, gravitano comunque nei suoi spazi.


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