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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Etica ipotetica

di Pietro Ratto

 

Da dieci anni a questa parte la Scuola italiana ha fatto passi da gigante per tuffarsi nel baratro in cui ora si trova. Da dieci anni a questa parte si è sviluppata, nel nostro sistema scolastico, una malattia mortale che ormai incancrenisce la nostra didattica, i nostri disperati sforzi educativi, i principi che, conseguentemente, animano i nostri ragazzi e che si diffondono poi, come un virus, in tutta la società “adulta” che i nostri giovani, man mano, vanno ad alimentare.  

Questa malattia consiste in un tipo di mentalità, sempre più diffuso, che insegna a “monetizzare” tutto, che spinge ad agire solo in vista di fini e convenienze. Parlo della mentalità che ha portato all’introduzione, nella nostra Scuola,  di termini come credito e debito, che ha trasformato i nostri alunni in ragionieri prima ancora che in uomini e donne. Da circa dieci anni nemmeno più i ragazzi fanno niente per niente. Ogni attività scolastica va seguita ed assorbita solo “se serve”, solo se permette l’accumulo di quei famosi punti validi per l’Esame di Stato e per la valutazione finale, che hanno trasformato l’esperienza dell’apprendere e dell’insegnare in un continuo mercato del comprare e del vendere. Mentre spiego, ogni giorno, i miei alunni mi guardano fisso cercando di capire quali cose “servano” e quali no. Pochissimi si entusiasmano affrontando un qualsiasi argomento; perché l’entusiasmo non paga, non fa punteggio. Persino le attività che un alunno svolge al pomeriggio, per conto proprio, sono state trasformate in merce spendibile, utile a conseguire crediti formativi. Il volontariato, l’apprendimento di un’arte, l’allenamento sportivo, tutto fa credito, se adeguatamente “certificato”… Fino a che punto i nostri giovani vivono queste esperienze con reale interesse? (e non parlo certo dell’interesse bancario, senza dubbio più in linea con le nostre attuali logiche didattiche: parlo della passione, della dedizione disinteressata, fine a se stessa!). Fino a che punto sviluppano “talenti” naturali per realizzare le proprie potenzialità? La maggior parte, temo, si dedica solo a ciò che può servire a far punti, a ciò che può fruttare, convenire. Anche lo svago, lo sfogo che noi ci concedevamo quotidianamente dopo aver finito di studiare: anche questo è diventato “utile”, “certificabile”, “spendibile”.

Abbiamo seguito la logica delle “esigenze del territorio”. Nell’età dell’Autonomia scolastica ogni scuola deve rispondere alle richieste delle aziende locali, della realtà lavorativa circostante. Sacrosanto, certo. Ma chi si preoccupa più delle inclinazioni personali? Chi si chiede più se i ragazzi che “orientiamo” verso le occupazioni più disponibili, più rimunerate e più richieste, riescano poi realmente a svolgere con passione un lavoro che magari non amano e per il quale non sono nemmeno molto portati?

La questione non è di poco conto. Parlo di una società come la nostra: disincantata, annoiata, delusa, infelice, che ha bisogno di contare su dentisti o carrozzieri che lo facciano perché sono dentisti e carrozzieri, perché se lo sentono dentro, perché hanno coltivato l’interesse e la passione. Non perché “conviene”, non perché “serve”, perché c’è posto. I dentisti che non sono dentisti lavorano male, pensano solo al guadagno, sono infelici e rendono infelici i loro clienti. I carrozzieri che non sono carrozzieri fanno lo stesso, consegnano le automobili riparate magari solo in parte, mal verniciate, soltanto per ricevere soldi.

In questo senso va considerata anche la questione del voto di condotta, alla quale da anni mi dedico riflettendo e scrivendo. Se reputo apprezzabile che il voto di condotta, finalmente, sia tornato a contare qualcosa, se accolgo con soddisfazione il principio secondo cui una condotta insufficiente possa finalmente pregiudicare - così come accadeva un tempo - la promozione, non riesco però a non chiedermi: com’è possibile giungere a questa sana decisione e, contemporaneamente, stabilire che tale valutazione faccia media con gli altri voti? Com’è possibile mischiare così due tipologie di giudizio tanto diverse? Profitto e disciplina in un tutto unico!

Innanzitutto un provvedimento di questo tipo non può avere altra conseguenza se non quella di alzare, pressoché in modo indifferenziato, le medie dei voti di tutti gli alunni; un sei di condotta, infatti, risulta difficilissimo da dare: sia per il retaggio che ancora ci portiamo dietro e che ricorda ancora il sette come autentico veicolo di bocciatura, sia perchè i parametri fissati sono oggettivamente tali da impedire l’attribuzione di tale votazione se non in casi gravi. Risultato: già il sette di condotta viene attribuito con grande fatica, dopo ore di discussioni e liti tra colleghi, mentre a piene mani vengono elargiti gli otto, i nove ed i dieci che improvvisamente impreziosiscono le pagelle di tutti, più o meno somari, facendo gravitare i relativi punteggi. E’ infatti indiscutibile, credo, che un otto di condotta sia molto più facile da ottenere, piuttosto che un otto di latino o di matematica.

Il problema, però, è essenzialmente un altro, ed è di una gravità che reputo assoluta.

Stabilire che il voto di condotta faccia media con i voti di profitto e contribuisca, quindi, ad incrementare il solito punteggio, significa insegnare, l’ennesima volta, che anche comportarsi bene “conviene”! Significa instillare nelle menti di questi giovani l’idea secondo cui io mi comporto bene se “serve”, altrimenti evito!

Come dimenticare che siamo eredi di una tradizione etico-filosofica che rivendica la purezza, l’aspetto totalmente disinteressato dell’autentica azione morale? Se vogliamo restare fedeli a questa idea e, soprattutto, se vogliamo educare questi ragazzi a diventare uomini e donne, e non manichini nelle mani delle logiche di mercato e del potere (ma questo, realmente lo vogliamo?), dobbiamo tornare ad insegnare che ci si comporta bene perché bisogna comportarsi bene; dobbiamo ritornare al principio della virtù morale in quanto bene per sé, fine a se stesso e non condizionato da alcun secondo fine, dobbiamo far leva sulla condizione essenziale del rispetto, per se stessi, per i compagni, per i professori ed i genitori. E questo anche solo per evitare di raccontare bugie ai nostri alunni. Quando mai, infatti, al di fuori della scuola il comportamento retto paga? In quale contesto mai la virtù “conviene”? Continuando ad insegnare che bisogna essere giusti per una convenienza ci ritroviamo poi le città piene di gente che, appena uscita dalla scuola, capisce che comportarsi bene non conviene proprio per nulla. E quindi smette di farlo! Alimentare questi principi deteriori porta alla realizzazione di una comunità biecamente utilitarista, in cui - per dirla in termini kantiani - ogni imperativo categorico viene, di fatto, sostituito da un corrispondente ipotetico; faccio questo solo se posso ottenere quest’altro.

Se proprio un voto di condotta deve far media, perché non pensare di farlo pesare su quello dell’anno dopo, così da indicare e richiedere ai ragazzi una continuità nel loro agire correttamente? Perché non pensare a correggere i comportamenti valutati con la sola sufficienza, attraverso adeguati corsi estivi di educazione e rispetto del prossimo? Si pensi all’umiliazione (ed al fastidio), del doversi ritrovare tra i banchi di scuola a luglio per seguire un corso che spiega come comportarsi bene, come rispettare gli altri. Si pensi al deterrente che potrebbe rappresentare nei confronti di comportamenti indisciplinati. Trovarsi obbligati, d’estate, a “recuperare in condotta”, così come altri contemporaneamente fanno per colmare le proprie carenze in matematica o in greco.

Gli errori educativi e formativi che stiamo commettendo, in realtà, rientrano nell’orribile quadro di una Scuola, e quindi di una Società, trasformate in un’accozzaglia di persone valutabili solo sulla base degli “obiettivi” raggiunti. I miei alunni puntano solo agli obiettivi quantificabili: puntano al fatidico punteggio finale; se ne fregano dei mezzi per raggiungere il loro scopo. Io stesso vengo costretto a passare buona parte dell’anno scolastico ad esplicitare i miei “obiettivi didattici ed educativi quantificabili e misurabili”, così da permettere a qualcun altro (anche ai ragazzi stessi), di controllare se li raggiungo o no, magari al solo scopo di mettermi i bastoni tra le ruote al momento giusto, quando “conviene”. (“Competenze”, “conoscenze”, “capacità”, “saper essere”…La fiera delle ipocrisie, dato che gli unici reali “obiettivi” che perseguiamo ed insegniamo a perseguire sono quelli di una manciata di punti da spendere alla fine del quinto anno!). Che scuola è questa? Una banca? Un istituto di credito? Che coscienze “sforniamo”, noi ormai, da questa nostra Istituzione? Possibile che dalle riflessioni machiavelliche, che tanto onorano la nostra tradizione culturale filosofica e politica, siamo stati in grado solo di assorbire concetti come la spregiudicatezza, la determinazione a raggiungere un fine ad ogni costo, la giustificazioni di qualsiasi nefanda azione in virtù dell’ottenimento e del consolidamento del proprio potere sugli altri, ignorando ben più preziosi valori come, ad esempio, quello di un’effettiva, e non solo dichiarata, laicità dello Stato o quello della fiducia nelle potenzialità dell’uomo?

 

Ma queste riflessioni restano lettera morta. Forse perché, tutto sommato, questi ragazzi piacciono così come sono; forse perché, a suon di debiti e crediti, da anni stiamo formando persone facilmente comprabili. Persone vuote, senza passioni vere, gestibili, manipolabili.

Forse la logica dell’Autonomia tende a perseguire l’obiettivo dell’annullamento di ogni pensiero autonomo, rispettando l’illogicità di un paradosso ben poco involontario.

 

Esattamente come stanno abituandoci a pensare che la vera libertà coincide con la sottomissione, che la vera pace si ottiene con la guerra e che la menzogna rappresenta, per noi, l’unica verità possibile.


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