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Insegnare nella scuola, fra psicanalisi e pedagogia
Risposta a Lettera agli Insegnanti italiani di James Hillman

di Luciano Corradini, presidente dell’UCIIM

 

Concentro le riflessioni di questo editoriale nel commento alla lettera agli insegnanti ("Va’ dove ti porta l’eros") dello psicanalista James Hillman, pubblicata negli Atti del Primo meeting internazionale della Fondazione Liberal, tenutosi a Milano nell’aprile del 2002 (pp. 169-176). Penso di portare in tal modo un piccolo contributo al tema portante scelto quest’anno dall’UCIIM sulla professionalità docente (con i convegni di marzo a Caserta e di ottobre a Bagnone).

Comincio col dire che mi sono piaciute di più le altre due lettere agli insegnanti, pubblicate nello stesso volume, quella asciutta, densa e dolente di Susanna Agnelli ("Maestra di solitudine") e quella limpida, calda e autobiografica di Abraham Yehoshua ("Dovete essere la guida di un’avventura spirituale").

Non nego che la lettera di Hillman sia suggestiva ed efficace, protesa com’è alla ricerca della radice biologica e istintuale dell’imparare e dell’insegnare, per liberarla dalle superfetazioni burocratiche dell’educazione scolarizzata. La connessione positiva che vede fra l’apprendere/insegnare spontaneo, vitale e creativo, e una "delle molte specie di eros" che caratterizzano le relazioni fra insegnante e studente, ha il merito di squarciare con garbo il tabù dell’universalismo intellettualistico della scuola formale, per ricuperare, sulla scorta di tre puntuali ricordi di due letterati, Baldwin e Capote e il regista Kazan, il calore di uno sguardo valorizzante, che può alimentare nello studente l’autostima e l’impegno di tutta una vita. Le tre insegnanti ricordate dai tre personaggi "nutrivano le anime degli studenti e mettevano il fuoco nei loro spiriti".

Per di più Hillman ha l’onestà di dichiarare il suo punto di vista e il suo limite di analista: "Se io optassi per un progetto, diventerei un educatore, mentre sono solo uno psicologo". Diciamo pure che svolge il ruolo dello speleologo, che mette in luce alcune bellezze inesplorate delle grotte dell’anima. La sua consuetudine con l’immaginario rappresentato dalle fiabe, lo porta ad assumere alcune movenze di Saint-Exupéry: "L’insegnare vede con l’occhio del cuore". E lamenta che "Noi non crediamo più in questa specie di visione", data la crescente genitalizzazione dell’eros.

Quello che non convince e che disturba chi cerchi non solo di esplorare, ma di impostare e avviare a soluzione il problema dell’educazione a livello istituzionale, è la criminalizzazione proprio di questo tentativo, come se fosse insensato andare "dove ti porta la ragione". Se infatti poniamo il problema non a livello di analisi individuale, ma a livello di società, certo non dobbiamo ignorare il mondo degli individui e degli istinti, degli affetti e dei sogni, ma le soluzioni che dobbiamo cercare chiamano in causa la ragione, sul piano professionale e sul piano istituzionale e organizzativo: una ragione attenta a tutti i ragazzi e le ragazze, anche ai meno simpatici, e attenta all’etica dell’intenzione e a quella della responsabilità, senza dimenticare le forze che operano a prescindere dall’etica.

L’apprendere e l’insegnare sono, per l’analista Hillman, come Hansel e Gretel perduti nel bosco, "catturati dalla strega" e "sempre sul punto di essere divorati dal suo insaziabile appetito". E chi è questa strega? Niente meno che l’Educazione, con la maiuscola. E’ vero che nel testo inglese Education significa piuttosto scuola che educazione nell’accezione italiana. Noi infatti ci guardiamo bene dal restringere il macrocosmo dell’educazione nel microcosmo della scuola. Questa battaglia per tener vivo il significato alto dell’educazione e per ricondurvi la scuola, sia pure con suoi modi specifici, è però assai dura, come sa chi si batte da anni per convincersi e per convincere che la scolarizzazione è necessaria e utile solo se è educativa; e insomma che le patologie relazionali proprie della scuola non si risolvono mandando in soffitta l’educazione, in nome dell’istruzione, della tecnologia e dell’economia, ma proprio al contrario, ripensando la scuola sotto la specie dell’educazione, in tutte le sue valenze positive. Come riconoscono le nostre leggi più recenti e quella che è data per imminente alla Camera..

Anche Hillman rifiuta una concezione puramente strumentale dell’insegnare e dell’apprendere: "La psiche si ribella contro il vero imparare che una società guidata dall’economia insiste nel ritenere di primaria importanza": ma tutto questo attribuisce proprio all’educazione: "Devi ricevere un’educazione, devi avere un’educazione, perché allora sei più vendibile, servendo l’economia e alzando il PIL". E’ chiaro che in questo caso s’intende per educazione non la relazione orientata a promuovere personalità libere e responsabili, ma una dotazione di competenze funzionali alla produzione e al consumo, per raggiungere i quali obiettivi si ritenga giusto sacrificare tutto il resto. Davvero il discorso di Hillman non rende un buon servizio all’idea dell’educazione come la concepiamo noi e come cerchiamo di realizzarla.

Invece che una fata, l’educazione è per Hillman una strega. Anche attribuito alla scuola, questo ruolo risulta sgradevole e ingiusto, almeno per coloro che non si limitano a scrutarla da un campanile sociologico, ma ci lavorano dentro, per renderla "educativa", ritenendo magari che questo non significhi necessariamente far diventare i ragazzi disfunzionali all’economia e mandare in malora il PIL.

"All’insegnamento, scrive il Nostro, si chiede sempre di sottomettersi senza protestare di fronte ai dogmi educativi: lo testimoniano il destino di Socrate… A causa del potere degli istituti educativi, il vero imparare, analogamente alla psicanalisi, diventa sovversivo".

Questo ragionamento mi fa venire alla mente il celebre film di Peter Weir L’attimo fuggente, che vede come insanabile il conflitto conclusosi tragicamente fra un giovane docente trasgressivo e una scuola prigioniera di modelli educativi sclerotizzati. Gli studenti del film scelgono, contro la scuola, il docente creativo e la sua proposta eversiva, simpaticamente riassunta nel carpe diem oraziano e nella "società dei poeti estinti"; ma il giovane protagonista cui si impedisce l’esperienza del teatro finisce suicida e il suo maestro licenziato.

Perché ritenere che sempre la scuola, nei paesi autoritari come in quelli democratici, sia portatrice di "dogmi educativi" contrari alla vita e alla libertà? Perché i Socrate sarebbero sempre condannati e le istituzioni politiche ed educative sempre tiranne, e cioè incapaci di attivare dei processi veramente educativi, e cioè promozionali e liberatori?

Perché gli educatori, per liberare le risorse dell’apprendere e dell’insegnare, devono sempre strappare i libri di testo, come fa il docente del film citato, e non anche scriverne uno con i propri scolari, come faceva don Milani con i suoi ragazzi? Perché il Super io e l’istituzione devono essere sempre tiranni o noiosi e insignificanti?

Ho citato prima Saint-Exupéry, che vede l’educazione come una sorta di addomesticamento che produce amicizia, e non come un processo semplicemente eversivo e anarchico: "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità…Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti". Così la volpe. "E che cos’è un rito?" chiede il Piccolo Principe. "E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore". Il Paese dei balocchi non conosce calendario e orario, né maestri né allievi.

Il problema non sta nella struttura rituale, e cioè in qualche modo organizzata della scuola, ma nella difficoltà di disporre di miti che consentano a insegnanti e studenti di incontrarsi con emozione, di scoprire i tesori del vero, del bello e del buono, insieme agli abissi dei loro contrari, per addomesticarsi a vicenda. Perché la scuola non può diventare capace di ospitare persone di questo tipo? Perché non può far concorrenza agli stadi, alle discoteche, ai supermercati e agli stessi computer?

Nel Protagora si parla del giovinetto Ippocrate, che sveglia Socrate di buon’ora, per essere condotto da Protagora, grande maestro che insegnava l’aretè, intesa come successo, per procurarsi il quale egli era disponibile a spendere tutti i suoi soldi e anche quelli dei suoi amici. C’è qui una concezione mercantile e strumentale del sapere, ma anche una grande voglia d’imparare. Socrate invece insegnava gratis, solo a chi voleva. Anche Gesù non insegnava a pagamento e non era di ruolo. Finirono male entrambi, perché in certo senso ebbero tropo successo, anche ne non mancarono loro cocenti sconfitte.

Come le tre maestre degli artisti citati da Hillman, anche Gesù guardò in faccia un giovane ricco, volendogli bene e proponendogli una ascetica scelta di vita. Ma quello se ne andò triste, perché aveva molti soldi. Imparare ad amare a quel livello non richiedeva solo curiosità. Quando Gesù risanò dieci lebbrosi, solo uno tornò a ringraziarlo. Guardando da un colle Gerusalemme, dopo aver tanto insegnato alle folle, pianse, perché la città non aveva voluto raccogliersi sotto le sue ali, come i pulcini fanno con la chioccia. Il carisma e l’assenza di una televisione concorrente non hanno liberato il Maestro palestinese dall’insuccesso. Sant’Agostino, quand’era ancora un retore pagano dovette fuggire da Tagaste, perché turbato dagli studenti "eversores". Non si può dire che quell’eversione fosse creativa e che lui fosse un noioso tiranno.

L’insegnare e l’apprendere non vanno pensate solo per gli studenti innamorati del sapere, della virtù e del fascino dei loro maestri. Oltre a Socrate e Cristo, bisogna pensare a Comenio, che riteneva di dover aprire le scuole a tutti, comprese le ragazze e gli handicappati. E non intendeva la scuola come una caserma o come una strega, ma come un laboratorio di umanità, in cui si dovesse pensare con sapienza, operare con onestà, parlare con arguzia. E’ questo l’acrostico della parola latina schola.

In conclusione vorrei dire a Hillman, come anni fa dicemmo a Ivan Illich, acuto sociologo recentemente scomparso, che le istituzioni non si riducono alle deformazioni e alle patologie che indubbiamente presentano: e che non c’è bisogno di togliere di mezzo l’educazione e la scuola per salvare l’insegnamento e l’apprendimento. Da Comenio in qua, di strada ne è stata fatta molta, a suon di riforme e di fallimenti. Non è detto che la scuola sarà anche in futuro capace di reggere da un lato alle spinte del mercato, dall’altra alle pulsioni anarcoidi di chi cerca per conto suo il sapere, la bellezza e la virtù. Io credo però che, frattanto, si possa ancora leggere Pinocchio e Saint-Exupéry e andare a scuola tutti i giorni.


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