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Impariamo dai bambini a segnare le nostre idee con un punto di domanda

Pina Montesarchio

Primo giorno di scuola, c’è aria di festa nel salone grande. Palloncini colorati attaccati a un filo, qualche bambino allunga la mano, vorrebbe prenderli, ma stanno in alto e non resta che guardarli. Parole di augurio, di buon anno scolastico, poi tutti in fila, accompagnati dalle maestre, a raggiungere le proprie aule.

“Scriviamo parole di augurio per il nuovo anno di scuola”, l’invito della maestra giunge inaspettato e rompe l’incanto della festa. C’è silenzio tra i bambini, quale augurio trovare per un anno che sembra uguale a quello dell’anno prima, quando si stava in quarta?

“Cos’è un augurio?” chiede Paolo e strappa un sorriso ai suoi compagni di classe.

La maestra continua ad elencare i suoi esempi di possibili auguri al nuovo anno di scuola.

Paolo non si arrende, “Cos’è un augurio?” chiede ancora.

Trova sul vocabolario” gli suggerisce Marco.

“Desiderio, speranza che qualcuno riceva un bene o riesca in un'impresa”.

Paolo legge ad alta voce, la sua sete non si spegne.

“Ma allora se l’augurio è la speranza che a qualcuno gli va tutto bene, come facciamo a trovare l’augurio per un anno? Un anno non è una persona”.

Lo stupore è l’anima della conoscenza, perché è l’atteggiamento alla radice del dubbio, della domanda, della ricerca; è essere consapevoli di non comprendere ciò che si ha davanti quando, da familiare e ordinario, a un certo punto ci si rivela inspiegabile e meraviglioso: non mi meraviglio perché il cielo è azzurro invece che di un altro colore, ma comunque esso sia, mi stupisco per il fatto che c’è.  Perché c’è qualcosa invece che nulla? Non c’è risposta.

E questo “non c’è risposta” che non può mai diventare una risposta, non è la fine del nostro cercare, ma anzi ne costituisce la scaturigine stessa. L’abisso della non-risposta alla più scandalosa delle domande ci chiama costantemente al tentativo di riempire quel vuoto incolmabile, e questo diventa spinta di comprensione, diventa ricerca, domanda.

Da qui nasce la filosofia coi bambini.

I “perché” dei bambini ci denudano, perché il bambino, insieme al filosofo, non sta chiedendo un elenco di descrizioni o di sinonimi, o una concatenazione di spiegazioni, ma va dritto al cuore della nostra condizione originaria di “gettatezza” nell’esistenza: perché c’è tutto questo? Cos’è?

Dall’atteggiamento di genitori ed educatori il bambino capisce in fretta se sia opportuno o meno continuare a fare domande.

Così la domanda originaria prende la via dell’oblio: imparerà dagli adulti a far finta che tutto sia normale, giustificato, ovvio; imparerà a destreggiarsi all’interno di quelle “parentesi di usabilità” del mondo, che sembra spesso l’unico requisito richiesto dalla società per vivere. Ma vivere non è solo fare delle esperienze, riempirsi di sensazioni: vivere significa innanzitutto trovare un riscontro alle nostre domande.

Insieme alle domande fondamentali della nostra esistenza, espresse con grande candore e altrettanta lucidità dai bambini, si “archiviano” anche la meraviglia, la stranezza, lo stupore, la curiosità, il gusto della scoperta, che motivano e accompagnano le domande. Filosofare con i bambini è avviarli a pensare in profondità, a prendere posizione autonoma motivata nei confronti delle questioni considerate, è lavoro e confronto con idee e pensieri, è individuare con chiarezza i problemi, delimitare le questioni, stabilire connessioni, creare ipotesi alternative non arbitrarie, ricercare soluzioni.

Secondo un’idea di formazione intesa :

·        come presa di coscienza riflessiva;

·        come disponibilità al dialogo e al confronto;

·        come apertura alla dimensione interminabile della ricerca.

Il pensiero oggi sembra avere rare occasioni per essere stimolato, e valorizzato, nell’ambito delle sue funzioni più vive, più originarie, che sono quelle del dubbio, della perplessità, del domandare e domandarsi, della meraviglia, dell’indagine in prima persona e della scoperta. Solo ritornando alla domanda più autentica potrà essere recuperato, insieme al gusto dell’apprendimento, il senso profondo dell’educare. Le sue tracce ci portano là dove il domandare stesso sorge –in noi stessi–, dove abita la domanda che riguarda il nostro stesso esserci, e  dove nasce la meraviglia.


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