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L’illuminismo magnanimo di Primo Levi (*)

di Luciano Dottarelli

 

C’è un sogno ricorrente nelle notti del Lager descritte da Primo Levi: quello di ritornare a casa, dare sfogo ad una vera e propria febbre di raccontare, ma rendersi conto, con pena infinita, di non essere ascoltati e di non essere creduti.

E’ l’enormità stessa di ciò che è avvenuto che rende impossibile comprenderlo, se è vero che comprendere significa etimologicamente contenere, circoscrivere. "Forse – come ha scritto Levi – quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché comprendere è in qualche modo giustificare".

Si deve però cercare di capire da dove nasce, stare in guardia, prestare ascolto alla testimonianza: ad imporci la memoria come un dovere non è soltanto il desiderio di compiere un estremo atto di pietà nei confronti delle vittime, la volontà di alleviarli dall’incubo ossessivo della narrazione fatta ma non ascoltata.

La predisposizione all’ascolto, il coltivare la memoria degli uomini giusti, l’esercizio vigile della ragione, il venire in chiaro rispetto ai fondamenti etici dei nostri comportamenti, sono anche gli strumenti più efficaci per prevenire nuove sopraffazioni, intolleranze, servitù che possono presentarsi sotto altre vesti, facendo leva su nuove suggestioni.

Se approfondiamo questo tema possiamo renderci conto di come Primo Levi non sia soltanto un testimone autorevolissimo della più grave tragedia del Novecento, tanto più attendibile quanto programmaticamente sobrio; né soltanto un grande scrittore, dalla prosa limpida ed essenziale; ma soprattutto un grande maestro di saggezza, un educatore.

Mi viene da dire uno dei grandi "moralisti classici", nello stesso senso che questa espressione ha nella ormai classica antologia in cui Giovanni Macchia raccoglie quella fioritura di scrittori grandissimi che tra Cinquecento e Seicento, da Machiavelli a Montaigne da Guicciardini a Pascal, si sono dedicati ad una "indagine lucida sulle passioni dell’uomo, con una volontà, talvolta feroce, di giungere al fondo dell’anima".

Come scrive Giovanni Macchia, "il moralista non si applica, con furore simmetrico, alla costruzione di un mondo di pensiero: si limita a notare la contraddittorietà dell’esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi. Non sono soltanto le ‘idee’ che lo interessano (‘idee’ verso le quali può nutrire una certa diffidenza), ma i tratti rischiosi, impudichi o feroci con cui aggredire la verità umana".

Il tema di fondo della riflessione del moralista Primo Levi è quello medesimo di Pascal: la miseria e la dignità dell’uomo.

L’aria da "eterna ripresa dei lavori" che caratterizza ogni riflessione sulla condizione umana trova in Levi il suo fondamento nella sconvolgente novità di Auschwitz rispetto a tutta la storia pur sanguinosa dell’umanità: per la prima volta viene pensato e scientificamente perseguito "uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture".

Dopo Auschwitz la miseria dell’uomo, la sua caduta, si mostra in tutta la sua radicalità, con evidenza incontenibile dalle parole. Come è scritto in Se questo è un uomo, "allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile"

Ma che cosa resta in questo abisso di abiezione della dignità dell’uomo?

C’è un passo molto noto del capolavoro di Levi in cui egli ricorda le parole dell’ "uomo di volontà buona" Steinlauf, che contrasta lo scopo del Lager di ridurre gli uomini a bestie, sforzandosi di salvare almeno la forma della civiltà, lavandosi, dando il nero alle scarpe, camminando diritto, senza strascicare gli zoccoli, sforzandosi così di mantenere intatta l’unica facoltà rimasta: quella di negare il proprio consenso.

Di fronte allo scatenamento della barbarie la dignità dell’uomo non può che esprimersi attraverso l’imperativo morale della resistenza, anche nella forma che assunse nell’oppressione estrema del lager, quella del dovere di non essere sommersi, di sopravvivere per raccontare.

Tra i modi per raggiungere la salvazione – e "il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale non è stato concesso che a pochissimi "- ce ne è uno che è particolarmente caro a Primo Levi e ci illumina sul senso che egli attribuisce alla dignità dell’uomo anche in tempi normali.

E’ la salvazione che si può ottenere non da un sovrappiù di vigore animalesco, ma dal mestiere, dalla competenza professionale, dall’ingegnosità.

Ciò che Levi ammira nel compagno di lager Chaijm, o nel partigiano ebreo Mendel, il protagonista di "Se non ora, quando?" è "la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati".

Questi personaggi sono entrambi degli orologiai e non è davvero un caso. E un mestiere che si presta alla condizione errante degli ebrei – confessa Levi – un po’ come il violinista. Gli strumenti di questi mestieri – metafore della ragione individuale - costituiscono un bagaglio leggero, si possono portare con sé ovunque.

Ma la simpatia per il mestiere di orologiaio esprime anche l’ammirazione di Primo Levi per la precisione, per l’intelligenza pratica, concreta, per la perizia dell’artigiano, per lo scienziato solutore di problemi.

Coglie nel segno Philip Roth quando afferma che l’intera fatica letteraria di Primo Levi si può considerare "come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall’ irridente cinismo con il quale ad Auschwitz l’avevano sfregiata".

Il lavoro, come responsabilità e fatica in vista di uno scopo - l’opposto di Auschwitz – è una componente fondamentale della dignità umana.

Vengono in mente, prima ancora delle riflessioni di Marx sul lavoro non alienato, l’immagine rinascimentale dell’homo faber, o, ancor più, la chiusa del Candide di Voltaire, quando di fronte agli improbabili sistemi filosofici di Pangloss, Candide, divenuto finalmente esperto del mondo, risponde: "Voi dite bene, ma noi bisogna che lavoriamo il nostro orto"

Questa diffidenza per i sistemi filosofici e per le loro astratte geometrie logiche - conquistata a caro prezzo da Candide e invece istintiva in Primo Levi – rivela un tratto di fondo del suo stile di pensiero, di quello che chiamerei il suo "illuminismo magnanimo".

L’opera di Levi è un atto di fiducia nella ragione, nonostante tutto. Ma come egli scrive "credere nella ragione vuol dire credere nella propria ragione, non vuol dire che la ragione governi il mondo e neppure che governi l’uomo"

E’ la ragione che ogni uomo porta con sé, come il bagaglio leggero del violinista o dell’orologiaio, con tutti i suoi limiti e la sua esposizione all’errore, non è certo una ragione ubriaca di sé ed orgogliosamente autosufficiente.

C’è anzi spesso nelle sue considerazioni una venatura scettica e dubbiosa che egli apertamente confessa, insieme con una diffidenza profonda nei confronti di ogni fanatismo, di ogni presunto possessore di verità rivelate, di chiunque voglia presentarsi come un profeta.

Per Primo Levi , uomo dal carattere mite e cortese, si trattava anche di una questione di temperamento e di stile; egli non amava "parlare forte". Aveva in sospetto i capi carismatici. Ribadiva spesso che "è meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate."

Nel leggere questi passi il pensiero corre a Immanuel Kant, indagatore dei limiti della ragione, critico dello Schwarmerei (l’entusiasmo fanatico), sprezzante nei confronti del tono alto, di distinzione, che assumono i filosofi oracolari e invece a suo agio nella "fertile bassura dell’esperienza", dove una ragione sobria impara ad onorare tutti gli uomini e a far emergere i diritti dell’umanità.

Questo richiamo all’universalità spinge a riflettere in un’altra direzione, a mettere in luce un’altra, essenziale, dimensione della condizione umana come Primo Levi ha voluto rivelarla.

E’ il tema della dialettica tra l’esigenza profonda di avere delle radici e la vocazione all’apertura, alla condivisione e allo scambio.

Nell’esperienza di Primo Levi il bisogno costitutivo di avere delle radici, di ritrovare un’identità, si esprime certo nel suo diventare ebreo dopo Auschwitz, ma, forse, ancor prima, trova il correlativo oggettivo più intenso nella sua casa di Torino, nella quale - egli ricordava spesso con un misto di riconoscenza e di orgoglio - era nato e continuava ad abitare.

La direzione centrifuga di questa dialettica è invece sicuramente espressa dal privilegiamento, all’interno della tradizione ebraica del filone della Diaspora. E’ lì, tra gli ebrei dispersi per il mondo, molto più e meglio che in Israele, che, per

l’ "ebreo torinese" Primo Levi, si conserva il filone ebraico della tolleranza, precipitato prezioso benché doloroso di "una storia di persecuzioni, ma anche di scambi e di rapporti interetnici, quindi una scuola di tolleranza."

Ancora una parola fondamentale di questo ideale, laico "vocabolario dell’etica" che si potrebbe distillare dagli scritti e dalle conversazioni di Primo Levi e che qui ho voluto soltanto accennare.

Ancora una parola chiave di quello che ho definito l’ "illuminismo magnanimo" di Primo Levi, quel singolare impasto di fredda, lucida, perfino spietata analisi critica e di calda, umana capacità di comprendere le passioni che agitano il cuore dell’uomo.

Adorno e Horkheimer, che hanno sottoposto ad una critica radicale la nozione stessa di illuminismo, mostrando il suo irretimento nel cieco dominio e la sua funzionalità nell’asservimento totalitario, auspicavano una presa di coscienza e il recupero di un concetto positivo, critico di illuminismo.

Di questa esigenza, che per i due francofortesi si compendiava nella definizione stessa della filosofia come "lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale", non saprei davvero trovare realizzazione più compiuta di quella che ci offre l’opera e la personalità di Primo Levi.

(*) tratto dal saluto rivolto da Luciano Dottarelli al II convegno su Primo Levi testimone della dignità umana tenuto a Bolsena nel 1999


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