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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Meditando…

di CARLO DE NITTI

E’, com’è noto, questa data – il ventisette gennaio -  una data simbolo: quella dell’abbattimento, avvenuto nel 1945, dei cancelli del lager di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa per ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati (i ‘giusti’).

E’ questo l’intendimento della legge 211 del 20 luglio del 2000 che prescrive l’organizzazione di cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico ed ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, affinchè simili eventi non possano mai più accadere. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella pur millenaria storia degli uomini.

L’uomo europeo contemporaneo civilizzato, con il suo grande bagaglio di conoscenze, nel cuore del continente più civile e avanzato, era caduto in un baratro: aveva utilizzato il suo sapere – ed in particolare quello scientifico e tecnologico -  per scopi criminali, tramutando le conquiste della tecnoscienza in strumenti per sottomettere, annichilire e distruggere ogni forma di opposizione ad un disegno di delirante onnipotenza ed addirittura intere popolazioni, primi fra tutti gli ebrei d’Europa, di cui non era riconosciuta neppure la condizione umana. Fu l’esperienza dei lager nazisti un trauma per tutta la civiltà umana: da questo l’Europa e il mondo intero si “risvegliarono” estremamente scossi e si domandarono come era stato possibile che la Shoah fosse avvenuta. E, soprattutto, quali comportamenti e azioni mettere in atto per scongiurare che accadesse di nuovo. Dalla consapevolezza dei crimini di cui il nazismo si era macchiato nacque nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite allo scopo di riconoscere a livello internazionale i diritti inalienabili di tutti gli uomini.

La consapevolezza dell’unicità, della radicalità e dell’irripetibilità di Auschwitz fu, di certo, tra gli elementi fondamentali per la ricostruzione materiale e morale dell’Europa e dell’idea, identitaria prima ancora che giuridica e politica, di Europa unita.

Era indispensabile stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata: non è un caso se alle radici dell’impostazione ideale dell’attuale Unione Europea e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (2000, 2007), c’è il rispetto per la dignità umana ed il rigetto di quanto accaduto, anche ben prima della guerra, a causa di idee razziste e liberticide. Auschwitz è la negazione dei principi ispiratori dell’Europa che conosciamo oggi.

L’istituzione, ormai decennale, del Giorno della memoria serve proprio a conseguire l’obiettivo di evitare che la nescienza delle origini della cittadinanza europea da parte dei più giovani porti seco un impoverimento delle radici culturali del nostro vivere civile insieme nel terzo millennio dell’era cristiana. Gli episodi di razzismo, di antisemitismo e di xenofobia che, spesso, vediamo attraverso la televisione e gli altri mezzi di comunicazione o leggiamo sui giornali altro non sono che forme di manifestazione di quell’oblio della memoria storica di un Paese come l’Italia, ma anche e soprattutto di un continente come l’Europa. Superare la tentazione dell’oblio – come la chiamava quasi venti anni fa il più grande sociologo italiano – significa evitare “l’amnistia sommaria collettiva attraverso l’amnesia di massa”.      

Il Giorno della Memoria, in questo senso, è un’occasione fondamentale, per le scuole e per chiunque lo voglia, di far riflettere tanti ragazzi e giovani tramite un’importante attività di approfondimento e di ricerca. Da dieci anni la scuola – ma anche l’intera società italiana - si interrogano intorno a cosa significa  una riflessione su “ciò che è stato” che non fosse svuotata dei suoi significati più profondi, riducendosi a semplice celebrazione rituale: al di là delle giuste, necessarie parole sulla Shoah e sulla memoria della guerra civile italiana, occorre cercare di perpetuare il senso vero di questo giorno simbolico.

Molti sono stati in questi anni gli studi, gli articoli, le riflessioni, le pubblicazioni di studiosi e intellettuali che hanno tentato di definire e ridefinire costantemente il senso della Memoria.
Il capitolo della nostra storia che riguarda la seconda guerra mondiale – con tutti i suoi antecedenti ed i suoi risvolti -  non può essere uno tra i tanti da studiare, forse, senza neppure avere l’obbligo di capire: pochi testimoni sono rimasti a raccontarci la loro terribile esperienza. Si tratta di una memoria viva, di persone che hanno patito sofferenze inenarrabili e, proprio perciò, indelebile nelle menti di chi ascolta o vede testimonianze e documenti   diretti. E’ innegabile che la tecnologia possa avere un ruolo determinante nella perpetuazione di importanti testimonianze di storie di ordinario eroismo.   

Non si può ipotizzare, pertanto, che le vicende storiche che hanno dato origine alla necessità che fosse creato il Giorno della Memoria siano cristallizzate nei libri, come un evento importante ma lontano nel tempo con il rischio di rendere alieni il significato e la ragione vera per cui il Giorno della Memoria è stato istituito per legge.

L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada mai più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolandone le domande, i “perché”, il dialogo, indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi. Sebbene non possiamo essere certi che, in luoghi del mondo ‘altri’ rispetto all’Europa ed al cosiddetto primo mondo, altri genocidi non vengano perpetrati, anzi…

Favorendo e praticando noi riflessioni collettive con il più largo coinvolgimento di tutti i cittadini  e dei giovani in modo particolare, renderemo il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico, ma dinamico, euristico, in grado di fornire alle generazioni future gli strumenti culturali per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più e per evitare che, come si è detto,  un’amnesia di massa (al limite dell’universalità) favorisca un’’amnistia’ storiografica generalizzata.

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E’ proprio in questa logica che è opportuno ricordare anche le drammatiche vicende che vissero gli internati militari italiani nei campi di concentramento di cui il Reich riempì l’Europa. Essi sono (stati) tra noi, spesso il loro eroismo è stato misconosciuto, molte volte il loro sacrificio è stato ignorato.

Quei militari - soldati, graduati, sottufficiali ed ufficiali - non erano considerati dai Tedeschi come ‘prigionieri’, ma, con distinzione giuridica degna di miglior causa, come ‘internati militari’: essi, in quanto tali, non erano titolari dei diritti contemplati dalla Convenzione di Ginevra del 1929 e non erano neppure protetti dal Comité Internazionale de la Croix Rouge. La differenziazione tra le due definizioni riveniva dal rivendicare la neonata Repubblica di Salò quei militari come suoi cittadini, come tali, tenuti a collaborare con la Germania. Nel contempo, quegli stessi uomini - che, nella stragrande maggioranza, non collaborarono né come militari né come lavoratori coatti civili - venivano bollati come ‘traditori’ e ‘badogliani’ e fatti oggetto delle peggiori nefandezze, inferiori, forse, solo a quelle che furono perpetrate contro gli ebrei ed i prigionieri russi.  

Più di cinquanta anni dopo quegli avvenimenti della seconda guerra mondiale, gli storici hanno cominciato a squarciare il velo che ha avvolto per tutto questo tempo le vicende di quegli italiani che, dopo l’otto settembre, furono internati nei lager nazisti.

Per molti anni, sulle 'scomode' vicende degli internati militari italiani (come lo sono quelle dei prigionieri di tutte le guerre) la storiografia contemporaneistica non ha indagato: è stata fatta calare su di loro una sorta di damnatio memoriae. Le uniche ricostruzioni di quelle vicende sono state quelle prodotte dalla memorialistica dei protagonisti, che, ovviamente, non erano storici di professione, quindi, con tutti i limiti del caso.        

L’opinione pubblica guardava, se non con sospetto, certo con estrema indifferenza agli ex internati, considerati ingiustamente spesso degli opportunisti che non avevano compiuto il proprio dovere di soldati e di cittadini. Si temeva che essi potessero essere stati indottrinati dai nazisti o dai russi, quando, la massima parte degli internati che rimpatriava era fondamentalmente democratica ma non politicamente organizzata. Gli internati videro la propria storia d’internamento confusa e la prigionia di guerra scolorire con il Paese che desiderava lasciarsi il passato bellico alle spalle, così dovettero prendere atto della subordinazione della loro vicenda sia nell’immaginario collettivo sia a livello istituzionale, rispetto alla lotta partigiana.

Oggi, a quasi settanta anni affrontare le questioni riguardanti le vicende dei militari italiani dopo l’otto settembre 1943 significa andare alle origini di quella nuova idea di Italia e di Patria, che venne a maturare nelle coscienze di molti, e di quella rinnovata coscienza nazionale che nacque nei venti mesi che intercorsero tra l’Armistizio e la Liberazione.

Come non rammemorare, in questo contesto, il valore della testimonianza diretta e dell’esempio rappresentati nel Discorso tenuto a Cefalonia il primo marzo 2001 per commemorare i caduti della Divisione “Acqui” dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi?

Proprio quel discorso presidenziale mette il punto su di un risultato teoretico acquisito dalla storiografia dell’internamento: la dimensione antinazifascista, a pieno titolo, dell’impari lotta sostenuta da coloro i quali caddero nelle mani del nemico germanico dopo l’8 settembre, allorquando gli opposero con le sole armi della fierezza, del coraggio e della dignità il rifiuto di collaborare in qualsivoglia modo e forma, quali che fossero le loro motivazioni interiori o il grado di cosiddetta consapevolezza politica.

Scrisse Vittorio Emanuele Giuntella (1913 – 1996), storico dell’età moderna ed internato egli stesso: “Il Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un mondo di resistenti, che prese su di sé la dignità e l'onore di un Paese, che aveva assistito al crollo di ogni autorità militare e civile, e lottò in condizioni, che non è esagerato dire eroiche[...] Nel Lager avvenne un fatto anomalo. Proprio lì, in un mondo dove era preclusa ogni volontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli italiani per la prima volta di esprimere individualmente una adesione, o un rifiuto, e si  pronunciarono in massa per il rifiuto. Nella storia degli italiani è uno dei rarissimi casi di una decisione collettiva presa con piena consapevolezza del rischio di morte, che comportava. Una resistenza disarmata, ma non inerme e inefficace, significativa soprattutto come affermazione di valori morali, che sono sempre da difendere, anche quando tutto il resto è perduto”.

Insomma, esercitando la scelta di non collaborare con i propri carcerieri, nei lager nazisti, quegli internati militari erano diventati uomini liberi: liberi, in primis, di quella libertà interiore che è precondizione imprescindibile a che possa essere esercitato qualunque diritto di cittadinanza e, quindi, di partecipazione democratica autentica.


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