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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

PARLIAMO DEI LICEI!!!!

Dum Romae disputatur ………….. Avevo iniziato così il poscritto di un mio precedente intervento (“Il rischio e la sfida”) a proposito della riforma dei Licei. Solo che qui non solo … non è stata presa Sagunto, ma non la si è nemmeno “attaccata”.

Mi riferisco, fuor di metafora, al fatto che ancora una volta, come succede da qualche anno, il dibattito sulla Riforma complessiva della Scuola italiana rischia di appannare o far passare in secondo piano l’urgenza di una riforma della Scuola superiore e in particolare dei Licei, di cui si parla da quasi quarant’anni, all’indomani della Riforma della Scuola Media unica (1963)

Abbiamo assistito ultimamente a polemiche aspre sulla cosiddetta “canalizzazione precoce” della riforma Moratti, con il risultato che alla fine l’attenzione si è concentrata ancora una volta sul cosiddetto “secondo canale”, vale a dire quello dell’”istruzione e formazione professionale”, tralasciando o meglio accantonando il resto (1) Dei Licei ben poco si è scritto, come se per la secondaria superiore, e mi riferisco al “canale scolastico” o dell’ “istruzione” tout court, non fossero maturi i tempi di una Riforma. E quando parlo dei Licei in questo caso non mi riferisco solo a quel segmento minoritario (un terzo degli allievi delle Superiori) che frequentano i Licei “tradizionali”, classici e scientifici in primo luogo a cui si sono aggiunti negli ultimi anni altri “Licei” di vario tipo, ma anche a quella parte dell’istruzione tecnica che, al di là di eccessi polemici o timori immotivati, a parere del sottoscritto, dovrebbe rientrare nell’”istruzione” liceale, assorbendo anche una parte degli attuali allievi dell’istruzione professionale. Quanti saranno? Il 50, il 60% degli attuali studenti delle superiori o forse ancora di più? Impossibile dirlo adesso prima che siano delineate chiaramente le caratteristiche dei “due canali”, intendo di tutti e due i “canali” e non solo del secondo, sul quale si discute animatamente  Non è solo questione del numero di indirizzi (la famosa alternativa “bulimia-anoressia” di cui parla Bertagna), ma di impianto culturale, come vedremo dopo.

A chi scrive sono sfuggiti negli ultimi tempi interventi nei quali comparissero proposte riguardanti proprio questo segmento dell’istruzione, che a tutti appariva come il più bisognoso di riforma. Ho letto molte critiche su questo sito nella primavera scorsa (Tiriticco, Citran, Corradini) al Documento elaborato da una Commissione molto nutrita (dove, a quanto sembra, abbondavano gli universitari e scarseggiavano gli operatori in attività), che ha prodotto il PECUP del percorso Liceale. Un documento giustamente molto criticato che sembra non tener conto di tutto il dibattito che da almeno trent’anni ha interessato il mondo scolastico; il concetto di “licealità” infatti non può essere quello di Aristotele, per il semplice fatto che la nuova “polis” non è l’Atene del IV secolo a.C. Si resta allibiti di come una megacommissione abbia trascurato alcuni semplici “eventi” di questi ultimi anni (la globalizzazione, la multimedialità, il pensiero “complesso” ) per riproporci una immagine della cultura liceale davvero datata. Ma detto questo, quali nuove proposte sono emerse nel dibattito? Siamo fermi ai documenti della Commissione Brocca, visto che successivamente anche con Berlinguer e De Mauro non si era andati oltre l’enunciazione di alcune indicazioni e l’altra  megacommissione costituita nell’estate 2000 aveva prodotto solo Documenti di lavoro su cui si sarebbero dovuti costruire i curricoli o piani di studio che non hanno mai visto la luce.

E allora quello che mi preme a questo punto è cercare di distinguere il discorso dei Licei da quello del “doppio canale”; non perché le due cose siano separabili, ma per evitare il rischio, che a questo punto è già realtà, di parlare alla fine sempre e solo del secondo canale, quello dell’ “istruzione e formazione professionale” (1)

Il mio contributo vuole mettere al centro della discussione il concetto di “licealità” come genere prossimo, per usare la terminologia del Documento di Fiuggi, prima di arrivare alle varie specificità.

E’ chiaro che la “licealità” ha come suo corrispettivo un percorso non-liceale, ma dando per scontato che non siano riproponibili antiche gerarchie, nessuno credo può negare che i due percorsi, “di pari dignità” fin che si vuole, si debbano distinguere per impianto culturale e per differenti piani di studio

Quale impianto culturale dovrà avere il “sistema dei Licei”? Dopo aver individuato gli obiettivi comuni ai due percorsi, mi pare giusto rispondere a questa domanda, partendo da quello che a me sembra già un buon punto di partenza: sull’unitarietà dei Licei e della Scuola secondaria superiore non ci sono ripensamenti o passi indietro. Resta il problema di come costruire questa “unitarietà” 

E qui le resistenze non sono affatto scomparse, anzi, se è possibile, si sono ampliate: non sono solo i Licei, o almeno i sostenitori del Liceo tradizionale, a difendere lo status quo, ma sono proprio i Tecnici a combattere contro quella che essi definiscono il pericolo della “licealizzazione”. In questa posizione di “salvaguardia dei tecnici” si ritrovano stranamente Confindustria e CGIL, Cidi e Ordini professionali dei geometri o dei periti. Allora mi pare si debba far chiarezza soprattutto su questo punto.

Ultimamente è comparso un appello per la “salvezza” dei tecnici e dei professionali, che rischierebbero di scomparire o di essere “declassati” per il semplice fatto che passerebbero nella formazione regionale; da una parte torna la paura della “licealizzazione”, dall’altra si teme la caduta” dei tecnici verso la Formazione professionale regionale.

E intanto nei Licei si confida che il nuovo Governo non oserà mettere mano davvero a una grande riforma dei Licei: basterà qualche piccolo ritocchino, un po’ più di lingue e informatica

Il recente Documento di Montecatini ( o di Fiuggi?) sembra in questo senso un vero ritorno all’indietro e vedremo  il perché

A questo punto occorre tornare a chiedersi cosa si deve intendere per “licealità” negli anni 2000 e cosa voglia dire che la Scuola deve preparare a “professioni intermedie”, come sostengono coloro che si oppongono alla “Licealizzazione” dei tecnici. E’ sempre stato questo l’ostacolo principale alla realizzazione di una Riforma delle superiori per circa 30 anni. E’ chiaro che il secondo problema richiede una analisi del mercato del lavoro e dei nuovi “mestieri” su cui non mi avventuro.  Mi fermo al discorso della Scuola superiore e al “nuovo” Liceo che occorre costruire in Italia.

Ma prima mi sembra pertanto utile ripercorrere le ultime fasi del dibattito sulla Riforma delle superiori, prima … dell’avvento di Berlinguer!

 

 

DAL PROGETTO “BROCCA” ALLA RIFORMA DEI CICLI

Tralascio naturalmente tutto il dibattito svoltosi negli anni 70/80 a partire dalla Commissione Biasini e dai 10 punti di Frascati, perché molti di coloro che se ne occuparono hanno lasciato da tempo la Scuola!. Ricordo che dopo miriadi di proposte di legge (due persino approvate da un ramo del Parlamento e poi decadute), dopo  l’ultimo tentativo “abortito” della Commissione Mezzapesa nel 1988, nasce in quello stesso anno con il Ministro Galloni (al quale si deve, giova ricordarlo il primo ddl sull’Autonomia!).la Commissione “Brocca” Si trattava di costruire per via amministrativa il nuovo “biennio unitario”, viste le difficoltà ad operare per via legislativa. Come si sa, in un primo tempo il Progetto riguardava i Licei e gli Istituti tecnici; in un secondo tempo venne “inglobata” l’istruzione artistica con il cosiddetto Progetto “Michelangelo” e infine con il Progetto 92 delle Professionali tutta l’”istruzione secondaria di secondo grado” venne ad esserne coinvolta.

A dire il vero per tutti gli anni 80 si dava per scontato che gli IPS dovessero passare alle Regioni ; ma poi riuscirono a prevalere i contrari e non se ne parlò più. Le sperimentazioni di quegli anni, grazie a una intelligente e  illuminata azione della Direzione Professionale (con la guida di Martinez) allontanarono quella ipotesi. Ipotesi che fu riproposta nel 1998, dopo il D.I. 112 nel quale si prevedeva che gli Istituti professionali passassero alla competenza delle Regioni. Nuova levata di scudi e il Decreto fu “ammorbidito” facendo transitare alle Regioni solo gli IPSIA triennali (una decina in tutta Italia)

Mi piace richiamare i punti essenziali del Progetto “Brocca” perché è da lì che bisognerebbe ripartire facendo tesoro di quella esperienza e del dibattito appassionato, delle scuole in primo luogo, dibattito che aveva messo in luce oltre che i pregi, anche alcuni limiti.    

Il Progetto assumeva come dato irrinunciabile un impianto unitario della S.S.S. basato su un corpo di discipline comuni (anche se non si usava più l'espressione "area comune" presente in tutte le proposte precedenti). Tale unitarietà discendeva  dall'esigenza esplicitata nei programmi laddove si introduceva il concetto di "integralità" del sapere. Nel contempo si afferma l'esigenza di una canalizzazione già dal primo anno su alcune discipline di indirizzo. Il compromesso raggiunto su una serie di questioni come unità o differenziazione degli indirizzi, terminalità e quindi professionalizzazione oppure prosecuzione universitaria era soggetto a successivi aggiustamenti che sarebbero derivati dalla strutturazione successiva dei titoli di studio, degli sbocchi universitari, del ruolo del cosiddetto post-secondario

Da una prima affermazione di unitarietà discendeva una pluralità di indirizzi e su questi si è incentrata l'attenzione della Commissione, della quale facevano parte i più illustri nomi del mondo accademico, scientifico e delle associazioni professionali della Scuola (4)

Il punto più controverso, ma anche più innovativo, stava in quel concetto di “preprofessionalità” che già allora preoccupava molto i sostenitori del Tecnico tradizionale, i quali scorgevano il pericolo della “licealizzazione”. E’ chiaro che il titolo finale non poteva essere “professionalizzante” e proprio per questo non più “terminale” . Ecco allora il discorso dell’IFTS (Istituti per la formazione tecnica superiore) che stava muovendo i primi passi, dopo l’esperienza del cosiddetto post-secondario.

Oggi a distanza di oltre dieci anni occorre certamente aggiornare quella “teoria della cultura e della Scuola” presente nel Brocca, ma non possiamo non riconoscere che si era già ben al di là della visione del Liceo gentiliano, al quale sembra volerci riportare il Documento di Montecatini del 2002 Non ci fu il tempo di passare a una generalizzazione e quindi a una vera Riforma ordinamentale  perché nel ’94, pochi mesi dopo il Convegno di Fiuggi che chiudeva i lavori della Commissione…….. ci fu il 21 Aprile e l’avvio di un nuovo corso politico. Tutto si bloccò per due anni. 

.Ricordo che nei primi mesi del ’96, quando si stava costruendo il programma scolastico dell’Ulivo,  rimasi abbastanza sconcertato dall’ipotesi “4+4+4”, diventata poi 6+6 per arrivare alla fine al 7+5. Non che le varie ipotesi non fossero interessanti, ma avvertivo già quella volta, e poi i fatti mi hanno dato ragione, che il rimettere in discussione i “cicli”, soprattutto quello delle Superiori,  avrebbe finito per allontanare la prospettiva di una Riforma che ormai sembrava arrivata in dirittura d’arrivo. La mia speranza era che dopo 4 anni di “sperimentazione Brocca” dapprima in pochi Istituti e successivamente estesa alla gran parte dei Tecnici  e persino delle Professionali (il Progetto 92 e quello del cosiddetto “Biennio dell’orientamento” riguardava tutti gli ordini di Scuole) si potesse far diventare “di ordinamento” tutte le sperimentazioni allora esistenti.

Il Documento del gennaio 97 che delineava i caratteri della nuova Scuola e la successiva elaborazione della Commissione dei 40 Saggi rappresentavano un contributo rilevante e di notevole spessore, volto a porre su nuove basi il dibattito sulla scuola italiana. Ma non si è sottolineato abbastanza che le conoscenze fondamentali di cui si parlava riguardavano la “Scuola di base”. Molte delle incomprensioni e delle polemiche di quegli anni si sarebbero potute evitare se si fosse messo in luce che tutto sommato non si parlava della secondaria superiore, o almeno non erano i Licei al centro dell’interesse dei saggi.

Dei Licei si sarebbe dovuto parlare successivamente; poi in effetti non se ne è più riparlato fino al giugno 2000, quando approvata la legge 30, dopo una faticosa fase di passaggio del testimone tra Berlinguer e De Mauro, fu istituita la megacommissione sui curricoli dalla scuola dell’infanzia al post-secondario. Tra il 97 e il 2000 in effetti si è discusso molto e la produzione di quegli anni è stata copiosa (vedi i quaderni Le Monnier); abbiamo poi saputo che c’era stato uno scontro tra licealisti e “popolari” e che alla fine, stando a quello che dice Maragliano, avevano prevalso i primi senza giungere però alla vittoria …. perché nel frattempo era cambiato lo scenario politico e riprendeva il “pendolo”. (5)

Conclusione: tra il 1994, all’epoca del grande Convegno di Fiuggi sulla Superiore (c’erano tutti bei nomi dell’establishement scolastico, tra cui ricordo, oltre naturalmente a un Brocca in fase calante, un incisivo Bertagna) e il 2001 si sono persi alla fine 7 anni nell’attesa e altri 3 si sono successivamente persi a dibattere sul “maestro unico” o il “doppio canale”, che poi, lo ripeto ancora una volta, era il problema del “secondo canale”.

 

 

QUALE LICEALITA’?

 

Ritorno allora alla domanda essenziale: cosa si deve intendere per “licealità” nel secolo che è appena iniziato? Certamente non può essere il regno della pura “theoria” a cui si contrappone la “Téchne” (che sia detto tra parentesi etimologicamente vuol dire “arte” e quindi ha poco a che fare con la vil “meccanica”) La licealità corrisponde a una forma di sapere che va oltre il possesso di abilità specifiche e mira a formare competenze di tipo “trasversale”, vale a dire che una formazione di tipo liceale privilegia la concettualizzazione rispetto alla “contestualizzazione”, nel senso che quest’ultima è propedeutica alla prima e non viceversa. 

Ma tale caratterizzazione di tipo concettuale non esclude anzi reclama un radicamento della teoria nella “pratica”, intesa nella sua accezione più alta di “praxis”, che è cosa diversa dalla semplice “operatività” o dal lavoro puramente materiale, ma che comprende in sé l’intelligenza sia teorica che pratica. Uso il termine “praxis” nell’accezione marxiana (sì proprio lui) nelle celebri Tesi su Feuerbach. e che unisce appunto “pensiero” e “azione” con un nesso inscindibile. Il pensiero puramente “speculativo” o, come direbbe Aristotele, “contemplativo”, è insufficiente a cogliere la realtà, la quale tuttavia esige proprio l’attività teorico-pratica dell’uomo per essere compresa. Si conoscono le cose trasformandole, appropriandosene in senso “antropologico” e sociale. Si potrebbe utilizzare la stessa concezione vichiana che si conosce solo ciò che si fa.

Su questa base è avvenuto in Italia tra gli anni 50 e 60 l’incontro tra filosofia idealistica e il marxismo, che ha saputo innestare in una sintesi originale l’apporto della filosofia Deweiana (il cui pragmatismo non va confuso con lo strumentalismo tipico della cultura americana). Parlo della migliore tradizione pedagogica italiana di quegli anni. E’ qui anche il superamento non solo delle “due culture” (Snow) ma della stessa contrapposizione tra conoscenza e tecnica. A parte questi richiami di tipo storico-filosofico, mi pare importante sottolineare come in questa linea si collochino i più recenti Documenti che fanno da sfondo al dibattito sulla cultura e la Scuola negli anni 90, vale a dire il Libro Bianco del 95 della Commissione Europea e il rapporto dell’Unesco del 1997, dove si afferma ancora una volta l’importanza accanto al “sapere” del “saper fare” (oltre al saper “essere”) 

Su questi principi a me pare concordino un po’ tutti, da Bertagna a Brocca per citare i sostenitori del “doppio canale”, accanto naturalmente ai sostenitori di una istruzione e formazione “integrate”

In un intervento a tal proposito (vedi sito EDSCUOLA.it: Bacheca sulla Riforma) Bertagna afferma che tra i cardini della Riforma c’è “la riscoperta della cultura del lavoro e delle professioni (alternanza scuola lavoro sia nei licei sia negli istituti; coinvolgimento del mondo dell’impresa e delle forze sociali nella determinazione dei percorsi formativi dell’istruzione e formazione professionale.. e il  superamento della tradizionale separatezza tra scuola e lavoro, tra studio intellettuale e operatività, tra funzioni cognitive e percettivo-motorie-manuali, tra conoscenze e abilità, tra lezioni, da un lato, e laboratori/tirocini, dall’altro; quindi, per dirla col linguaggio ordinamentale della riforma, superamento della tradizionale gerarchizzazione e separazione tra theoría e téchne, tra il sistema dell’istruzione liceale (licei) e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale” anche se poi conclude con il “rifiuto, allo stesso tempo, della confusione tra theoría e téchne, tra licei e istituti dell’istruzione e della formazione professionale; i due percorsi sono diversi per natura e per scopo: confonderli danneggia gli uni e gli altri, e impedisce la reciproca valorizzazione”

Ma il problema sta proprio nel trovare questa sintesi e come soprattutto evitare di fare una scuola per pensare e una per fare, per usare l’espressione di Tiriticco.

A chi scrive interessa innanzitutto che tale sintesi si realizzi nei Licei; viste le mie competenze e la mia esperienza non mi avventuro in campi a me poco familiari. Dirò solo che il Progetto 92 per le professionali, che ho potuto leggere qualche anno fa, mi sembrava eccessivamente “ambizioso” e la realtà ha dimostrato che non solo è stato applicato davvero in rarissime “isole felici” , ma alla fine non è riuscito a frenare l’emorragia di allievi verso la formazione professionale o l’abbandono scolastico. Al contrario!  

Sapere e saper fare vanno sempre considerati unitariamente e questo vale sia per il percorso formativo liceale che per quello professionale; si tratta di definire il livello o il grado di teoreticità o di operatività che caratterizzano i due percorsi. MA INTANTO E’ IMPORTANTE CHE TALE “UNITARIETA’” PASSI INNANZITUTTO TRA GLI ATTUALI LICEI E I TECNICI. Ben vengano gli stages anche nei Licei e soprattutto la pratica “laboratoriale” che non va ristretta alle sole discipline scientifiche, ma può riguardare le stesse discipline letterarie e storico-sociali. Esempi in tal senso non mancano; si tratta di recuperare quella che nel Brocca si definiva l’ “area di progetto” innestandola nell’intero triennio finale, con uno spazio maggiore proprio nell’anno terminale. Ben venga il potenziamento della dimensione culturale nei Tecnici, come in parte è già avvenuto in questi ultimi anni con le sperimentazioni. Occorre superare infine il vecchio dilemma terminalità-propedeuticità. Comunque è evidente che il percorso liceale non potrà essere professionalizzante, per cui si richiede una prosecuzione nella Formazione superiore (aanuale o biennale) o all’Università. (6) Più che di indirizzi a questo punto bisognerebbe legare le varie tipologie di Liceo ad “ambiti culturali e professionali” recuperando ancora il concetto di “preprofessionalità” presente nel Brocca. Inutile aggiungere che anche gli accessi all’Università o alla formazione post-secondaria andrebbe canalizzata almeno nell’ultimo anno.

Per i Licei, per tutti i Licei e non solo per quelli “storici”  ritengo si debba riproporre aggiornandolo il “vecchio”(?) asse culturale che era alla base delle proposte di riforma degli anni 70/80.

Accanto all’asse storico-scientifico occorrerebbe, a parere del sottoscritto, introdurre la terza dimensione culturale e pedagogica che è costituta dalla “tecnologia”. La conoscenza scientifica, così come è intesa in molti casi e nella realtà scolastica liceale, è ancora troppo intrisa di “teoria” ; i laboratori, eccetto pochi casi, costituiscono una semplice appendice dell’insegnamento scientifico, quando non sono proprio assenti. (In fondo, mi rispondevano i docenti di Fisica, cosa pretendete con 2 ore settimanali nel Liceo classico e perfino nello Scientifico!) In questo modo davvero si dovrebbe superare la paura della “licealizzazione” che a quanto è dato capire identifica la “licealità” con quella tradizionale di derivazione gentiliana; mentre qui si parla d’altro.

Tornando alla questione del doppio canale, a me pare che esistano anche altre ragioni per giustificare la differenziazione dei percorsi.

La paura o il rifiuto della “canalizzazione precoce” non può farci dimenticare che a un certo livello (meglio 14 o 16 anni?) i due canali dovranno distinguersi se non si vuole affermare la unitarietà di tutto il segmento superiore (cosa a cui dopo gli anni 70 nessuno ormai pensa più). 

E’ indubbio che il momento “concettuale” o dell’astrazione è caratteristico della “licealità” mentre nel percorso professionale si tende a privilegiare quello operativo. Come è indubbio che nell’istruzione liceale ci debba essere una prevalenza dell’analisi, del pensiero lineare dichiarativo su quello procedurale, della astrazione sul caso particolare.

Volendo usare la metafora della “mano destra” e della “mano sinistra”  dirò che nel percorso liceale è richiesta una “dominanza cerebrale sinistra” con tutto quel che ne consegue (dominanza e non esclusivismo!). Oppure richiamandomi alla teoria delle intelligenze multiple di Gardner , credo non si possa non riconoscere che il percorso liceale è più  vicino alla intelligenza linguistica (verbalizzazione) e logico-matematica, senza trascurare le altre, in particolare quella interpersonale  e quella che Goleman definì l’intelligenza emotiva. Così gli strumenti dell’apprendere in un percorso liceale si baseranno maggiormente sui testi, per lo più scritti (ma non solo quelli), sul “leggere”, discutere/scrivere, senza trascurare il vedere o l’ascoltare e l’agire. Nessun percorso di istruzione e/o di formazione può fare a meno del pensiero critico, ma è evidente che un approccio di tipo “filosofico” ai problemi è fondamentale per tutti i percorsi liceali. Al massimo si può discutere su come introdurre elementi di filosofia anche negli altri percorsi (non certamente la “storia della filosofia”.).

Non c’è da scandalizzarsi di questa diversità, perché è evidente la differenziazione di “intelligenze” e di attitudini, che non prefigurano necessariamente gerarchie sociali, e neppure di tipo intellettuale. Comprendo i timori di quanti vedono i rischi sempre incombenti di considerare come “naturali” o innate le “capacità” o le attitudini che si formano al contrario durante le fasi dello sviluppo e non mi sfuggono gli effetti del condizionamento socio-familiare sullo sviluppo delle intelligenze. Ma qui mi sento di richiamare il compito della Scuola di base a operare per un “decondizionamento”, che non sempre è stato perseguito …. e non solo per colpa del Ministero.

Quanto alle tipologie di lavoro è vero che non esistono più lavori puramente direttivi e mansioni esclusivamente esecutive, (chi è così arretrato da non condividere questa affermazione?) ma il grado di direttività e di esecutività continueranno indubbiamente a differenziare i lavori e chi li esercita nche nel futuro; così i livelli più alti di “istruzione” indubbiamente predisporranno a lavori maggiormente “direttivi” rispetto agli altri.

Ma la nuova licealità del terzo millennio dovrà fare i conti con quella che è stata definita la “rivoluzione pedagogica” di questi ultimi decenni (vedi BOTTANI: Insegnanti al timone”), vale a dire il cognitivismo e le nuove teorie dell’apprendimento, per non parlare del paradigma della complessità e dell’espansione dalla multimedialità. Tutto questo non potrà non comportare anche una rivoluzione nell’insegnamento, soprattutto nei Licei, dove le pratiche didattiche sono rimaste in gran parte legate ai vecchi modelli trasmessivi . Siamo tutti convinti che la didattica tradizionale basata sulla triade lezione-interrogazione-valutazione debba essere superata;  che lo studio sui testi o l’apprendimento decontestualizzato andavano bene e potranno ancora andar bene per parti di “programma”, ma che occorre introdurre la modularità, l’interdisciplinarità e la molteplicità dei linguaggi anche nei Licei, evitando comunque troppo facili innamoramenti per la “modularità” e l’interdisciplinarità a cui abbiamo assistito negli anni scorsi

Una nuova licealità è quindi una impresa tutta da percorrere ed è questa la sfida della nuova scuola superiore

 

                                                                

 

                                                                             Prof. Pasquale D’Avolio

                                                           già Preside di Liceo classico e di Liceo scientifico

                                                                                           UDINE

 

 

 

 

Nota n. 1 Intanto mi pare giusto richiamare il fatto che solo in Italia si parla di “istruzione e formazione professionale” e non è chiaro se l’aggettivo “professionale” si riferisce solo alla formazione oppure a entrambi i termini, nel qual caso avrebbe dovuto essere declinato al plurale. Nella Costituzione del 1948 si parlava di “istruzione artigiana e professionale”. Con la legge n.845/12978 si introdusse la “formazione professionale”  e tale distinzione fu accolta nella Legge 30/2000 da cui si arriva al nuovo art. 117 che parla di “istruzione e formazione professionale” affidata (affidate?) alle Regioni. Per una ricostruzione storica vedi A.CENERINI: Un rompicapo storico. I Poli lo complicano  su AVIO, AUONOMIE , Armando Editore, n 1-2 , 2003,  BERTAGNA e TIRITICCO sul sito www.Edscuola.it

 

Nota n.2 . Detto en passant, ci sarebbe da chiedersi provocatoriamente: chi ha detto che i Licei rappresentino davvero il “primo canale”? Non lo sono né sul piano numerico, come dicevo, né  nell’attenzione dell’opinione pubblica (salvo forse per la grande stampa che quando parla di “esami di Stato” si riferisce solitamente a quello del classico e dello scientifico; ma si sa che i giornalisti provengono per lo più da tale tipo di scuola) né, diciamolo pure, nelle attenzioni dei governanti e dei legislatori, se guardiamo alla penuria di risorse materiali ed umane, (sul piano quantitativo intendo!) riservate ai Licei. I Licei attuali, si sa, sono frequentati per lo più dai figli della borghesia (lo erano nel dopoguerra e lo sono a distanza di 60 anni dalla Costituzione) e forse non hanno bisogno di risorse statali.

Se poi ci mettiamo la condanna “senza appello” del Ministro Berlinguer qualche anno fa (“Il Liceo Classico ha corrotto gli italiani” ) e le resistenze interne sempre molto forti a toccare quello che fino a qualche anno fa era il “gioiello di famiglia” (il Classico intendo) si capisce che meno si parla dei Licei e meglio è; almeno per alcuni.

 

Nota n. 3 Evito l’aggettivo “tradizionali”, perché non sarebbe vero per una gran parte dei Licei che hanno innovato molto negli ultimi anni. Basterebbe scorrere le riviste degli anni 70/80, tra le quali cito SENSATE ESPERIENZE delle Scuole sperimentali

 

Nota n. 4 Il numero iniziale degli indirizzi 16 fu portato a 17 con lo sdoppiamento di quello economico, ma non fu accettata la proposta ad es. di un indirizzo turistico e fu lasciata da parte la questione dell'artistico che nacque successivamente con un Progetto autonomo chiamato "Michelangelo". Bisogna tener conto che negli anni 70/80 anche nell'ordine classico si era assistito al proliferare di indirizzi sperimentali, (linguistico moderno per i classici, Biologico-sanitario, matematico-fisico e tanti altri per lo scientifico) per non parlare dei vari progetti Igea, Ergon ecc.  degli istituti tecnici. Una progettazione interessante ma che aveva creato più di un problema per individuare finalità e corrispondenze con i corsi “normali”. E soprattutto si era avvertita l'esigenza di costruire quadri orari possibilmente omogenei per i vari ordini di Scuola. Si trattava in alcuni casi di progetti ottimi, qualcuno eccellente, ma accanto a queste esperienze pilota erano sorte anche sperimentazioni poco adeguate. (in molti casi prevalse semplicemente l’esigenza di salvaguardare l’utenza e .. l’occupazione negli Istituti Magistrali in via di esaurimento)

     Resta da dire qualcosa sulle innovazioni interne al Progetto, vale a dire alla loro struttura redazionale. A differenza dei Programmi tradizionali, consistenti in una serie di contenuti prescrittivi e delle semplici note iniziali che sarebbe eccessivo considerare "finalità", i nuovi Programmi operavano una distinzione concettuale tra finalità (generali e specifiche di ciascuna materia), gli obiettivi di apprendimento, i contenuti e le indicazioni didattiche, rivolte agli insegnanti. Il grado di prescrittività era inverso a quello preautonomia, nel senso che i programmi richiedono la massima prescrittività per le finalità e minima per i contenuti e soprattutto per le metodologie didattiche. Si e' sottolineata, a volte per criticarla, da varie parti una impostazione didattica innovativa che risalirebbe a una "pedagogia degli obiettivi", di matrice comportamentistica. In altre parole lo sforzo maggiore e' stato quello di tradurre gli obiettivi di apprendimento in performance, comportamenti intellettuali e non intellettuali osservabili e misurabili e quindi verificabili. Il rischio di cadere in forme di didatticismo esasperato, di perdere cioe' di vista gli obiettivi generali di tipo "sintetico" e di voler misurare semplicemente le "prestazioni" e' certamente presente, ma non direi che discende come conseguenza necessaria dalla impostazione dei Programmi Brocca. Tuttavia e' indubitabile che l'accento venga posto prevalentemente sull'apprendimento, per cui, come diceva Niceforo, "l'approccio alla costruzione dei programmi doveva essere di tipo non più statico-descrittivo, centrato sulle discipline e i contenuti, bensì dinamico-operativo, centrato sul soggetto..." per cui "i piani di studio, intesi come aggregati di discipline disposti secondo determinati criteri di distribuzione orizzontale e di successione verticale, sono stati in realtà pensati e costruiti come curricoli, cioè come insieme coerenti di finalità e obiettivi, da perseguire -ad opera del docente- sulla base di scelte metodologiche e didattiche idonee al migliore conseguimento dei risultati dell'attività educativa" (pag. 2 Relazione di Fiuggi, Febbraio 1994). I “curricoli” reali in effetti non corrispondevano realmente a tali criteri, e soprattutto alla fine erano prevalse le logiche (o meglio le lobby) disciplinari che avevano portato a quello che venne definito il "sovraccarico" dei curricoli. Questo valeva soprattutto per le scuole dell'ordine classico (dove si arrivava alle 34 ore settimanali) laddove nei Tecnici esso si aveva un “dimagrimento” del curricolo e una contrazione del tempo scuola. Di qui le opposte resistenze nei due ordini di Scuola

Ho voluto richiamare queste tappe per dire che nel “Brocca” c’erano tutte le premesse di quello che successivamente verrà codificato con l’Autonomia, si introduceva anche nelle superiori il concetto di “curricolo” e soprattutto veniva ad essere definitivamente superata l’impostazione dualistica dell’istruzione superiore.

Mi piace infine riprendere alcuni punti basilari del Progetto e in particolare laddove si afferma “Assegnare alla Scuola secondaria superiore una funzione educativa e culturale più qualificata significa dare a tutti i piani di studio uno spessore tale da comprendervi l’insieme dei sistemi concettuali e simbolici con i quali l’uomo cerca di interpretare se stesso e la realtà, dei sistemi espressivi attraverso i quli prende forma l’esperienza vissuta e dei sistemi di azione  che permettono di dominare e di organizzare l’ambiente sociale e produttivo” (sottolineature mie)

I Piani di studio che ne conseguivano, pur criticabili per certi aspetti per quello che dicevo prima, tentavano di dare una risposta a tali presupposti, perché, come si affermava poco dopo “ Un piano di studi è sempre è sempre una interpretazione concreta, in un determinato momento storico, di una teoria della cultura e della scuola”.  

 

Nota n. 5 Il sottoscritto ricorda al contrario l’”impero” dei pedagogisti quasi tutti di provenienza magistrale e una nutrita schiera di teorici delle “competenze” di derivazione confindustriale o “professionale”. Non mi sono accorto della presenza di una Direzione Classica potente come magari era nei tempi andati e salvo qualche voce isolata i “maitre a penser” avevano tutti le ascendenze di cui parlavo prima. Un profluvio di tecnicismi e di pensiero “complesso”, di “modularità” e di “nuclei concettuali” tali da far vergognare i timidi sostenitori della didattica sequenziale e dello storicismo, che avranno fatto certamente il loro tempo, ma non meritavano certo di essere messi al ludibrio dei nuovi “didattici” che esaltavano le magnifiche sorti e progressive degli istituti professionali, dove le “innovazioni” abbondavano, almeno sulla carta; salvo poi andare a scoprire che gli IPSIA restavano pur sempre la Scuola dei “sufficienti” e che un buon terzo di essi si perdevano nei primi due anni.

Un po’ di sobrietà sia nei toni che nel linguaggio abbiamo potuto apprezzarla nel Documento della Nuova Spes del 2000, ma quelli, oltre che “conservatori” erano degli inguaribili “licealisti”.

 

 

6 Forse sarebbe il caso di ripensare al quinto anno dei Licei!!! Si è ancora in tempo per ricondurre tutti e due i percorsi al quadriennio? Scomparirebbe così la “gerarchia” tra un percorso quinquennale e uno quadriennale!

 


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