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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Quel che rimane…
delle
Unità di apprendimento

di STEFANO STEFANEL

Le Indicazioni nazionali allegate al D.lgs 59/94 hanno introdotto nella normativa primaria il concetto di Unità di apprendimento.[1] L’introduzione a livello legislativo di caratterizzazioni pedagogiche ha portato la comunità scolastica ad interrogarsi sia sulla liceità di un simile inserimento, come allegato ad un decreto legislativo, sia sulla reale portata di questa innovazione nel panorama della didattica, soprattutto in riferimento alla scuola primaria. Con l’emanazione del D.lgs 226/95 sul 2° ciclo dell’istruzione il concetto di Unità di apprendimento è stato riproposto senza alcuna variazione. Per l’attuale parte politica al Governo, nel futuro la scuola deve procedere per Unità di apprendimento. Tutto questo sta generando apprensione e attesa, perché la questione ha perso il suo valore espressamente didattico ed educativo ed è diventata solo politica. La coalizione di Centro sinistra ha dichiarato nel suo programma che abrogherà molta parte della Riforma morattiana (alcune componenti di quella coalizioni stanno ancora dicendo che va abrogata tutta e subito), mentre il Centro destra ha stabilito per via legislativa che l’Unità di apprendimento dovrà “accompagnare” l’alunno italiano in tutto il suo percorso scolastico[2].

 

Apprendimento/insegnamento. Tutto l’impianto nato dalla legge delega 53/2003 e dai successivi decreti applicativi si fonda sul concetto di “apprendimento”, messo in contrasto – anche se mai in forma esplicita – con il concetto di “insegnamento”.[3] La separazione dell’insegnamento dall’apprendimento è una questione teorica che data da lungo tempo, tant’è che lo sviluppo di una certa operatività nella scuola, la ricerca attorno alle competenze e alle abilità (al “saper fare”), il difficile meccanismo dell’individualizzazione degli insegnamenti ha cercato di porre rimedio ad una dicotomia, a tratti troppo forte, tra ciò che nelle scuole veniva insegnato e ciò che dagli alunni veniva appreso.

L’idea che il punto di arrivo del processo didattico sia l’Unità di apprendimento non ci può far dimenticare che fino all’attuale riforma nella scuola si è parlato per lungo tempo di Unità didattiche[4]. Chi ha scambiato il concetto di Unità di apprendimento per una sorta di maquillage di quello di Unità didattica (un po’ usurato dal tempo) ha sottovalutato la profondità della proposta, nata nell’ambito del gruppo di lavoro ristretto diretto da Giuseppe Bertagna. L’impianto delle Indicazioni nazionali è andato a sostituire sia i Nuovi programmi della scuola media del 1979, sia ai Programmi della scuola elementare del 1985, sia gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del 1991. Il fatto che già il Regolamento per l’autonomia (D.P.R. 275/1999) avesse permesso di aprire la discussione su quelle emanazioni ministeriali, di fatto abrogando i Programmi[5],  non ha aiutato il dibattito, perché poche scuole hanno utilizzato il Regolamento dell’autonomia per ridefinire i contorni dei saperi insegnati a scuola, delle abilità coltivate, delle competenze verificate in rottura con il passato legato a Programmi ministeriali declinati dalle scuole attraverso Programmazioni.

L’idea pedagogica, che sta alla base del modello riformato è molto complessa, infatti la pedagogia di riferimento è una pedagogia a due facce: la prima guarda verso i docenti e li invita a “individualizzare”, l’altra guarda alle famiglie e chiede loro di “personalizzare”[6]. Tra questi due segmenti di formazione si colloca dunque un’idea di persona, che deve raggiungere il “successo formativo” (di cui parla il D.P.R. 275/99). Alla base di questo successo formativo ci sta  un ideale di apprendimento, come elemento cardine dell’attività didattica, che decide di non legarsi più in forma diretta all’insegnamento. Il concetto di “persona” che sta nell’idea dei Piani di studio personalizzati non è in contraddizione con il concetto di alunno che si aveva nella scuola precedente. Il concetto di “persona” nell’impostazione riformatrice è in contraddizione con l’idea di “gruppo” inteso come comunità di apprendimento o come comunità di ricerca. Che poi nell’ambito delle nostre scuole la logica del gruppo (“gruppo classe”, “gruppo di studio”, “gruppo di livello”, “gruppo di ricerca”, “gruppo di lavoro”, ecc.) sia impossibile da sradicare è dovuto ad una forte solidarietà pedagogica nata e sviluppatasi negli anni passati e che ha radici profonde nella storia del secondo dopoguerra. E’ molto difficile che una ridefinizione per via legislativa dei saperi  possa andare a toccare durature basi di prassi pedagogica.

 

Rendicontare la didattica. Con l’introduzione delle Unità di apprendimento la didattica italiana dovrebbe spostarsi dalla parte della programmazione a quella della rendicontazione dell’evento pedagogico. E’ un salto molto ardito, anche perché presuppone una trasformazione della didattica seriale in didattica “epifanica” e la trasformazione della programmazione preliminare in piano di lavoro e di verifica  progressiva degli apprendimenti dei propri allievi. Se si divide la sequenza processuale proposta dalle Indicazioni nazionali si vede chiaramente come i tre momenti costitutivi dei Piani di studio personalizzati hanno una scansione piuttosto autonoma tra di loro e solo la loro fusione permette una sistemazione organica. Tra il punto di partenza del lavoro programmatorio della scuola (la definizione degli Obiettivi formativi) e quello finale (la declinazione delle Unità di apprendimento) si stende il territorio degli Obiettivi specifici di apprendimento, che sono già stati definiti dalle Indicazioni come “livelli essenziali di prestazione” che le scuole devono fornire ai propri allievi (ma che non necessariamente gli allievi devono recepire in toto, visto che possono personalizzare il loro percorso formativo), nella duplice codificazione di ciò è conoscenza (colonna a sinistra degli OSA) e di ciò che è abilità (colonna a destra degli OSA). Il far transitare gli Obiettivi formativi all’interno di un terreno strutturato significa costringere la progettualità a diventare il punto di origine della fusione tra le esperienze personali dei ragazzi e quelle professionali dei docenti.

Un altro elemento che distingue le Unità di apprendimento dalle Unità didattiche è la loro totale apertura alla trasversalità e alla transdisciplinarietà, perché il passaggio attraverso i saperi divisi e gerarchizzati è già sancito negli OSA. Sembra quasi che le Indicazioni nazionali assegnino alla scuola riformata il compito di contaminare le conoscenze e le abilità, dopo aver ordinato in forma arbitraria, ma sintetica, tutto ciò che del sapere umano deve comparire nella formazione di un bambino dai 6 ai 14 anni. Il meccanismo programmatorio delle Unità di apprendimento ribalta completamente la didattica per obiettivi, che partiva comunque da un programma di studi nazionale. Nelle Indicazioni nazionali non c’è il programma e compare invece l’invito a gestire il sapere per grandi aree, utilizzando gli Obiettivi formativi come una  coperta da stendere sulle varie declinazioni del  sistema dell’istruzione. Se non ci può essere apprendimento senza competenze, allora bisogna trovare il modo di sposare le “buone pratiche” della scuola “modulare” o “media” del passato con le esigenze di una didattica che punta solo su ciò che può venir appreso e valutato. Il riferimento immediato è quello ad alcuni spunti teorici di Edgar Morin, Jerome Bruner e Howard Gardner.

 

Dare coerenza alla didattica. Per poter gestire al meglio le Unità di apprendimento è necessario frammentare il meno possibile l’attività didattica e cercare di raccogliere all’interno degli Obiettivi formativi quelli che sono gli elementi caratterizzanti della società attuale. E’ un lavoro molto complesso, perché rischia di diventare obsoleto nel momento in cui viene codificato sulla carta. Proprio l’evenienzialità dell’Unità di apprendimento dovrebbe però venire in aiuto, in quanto permetterebbe una rapida definizione di ciò che si lega allo specifico didattico di quella data scuola e di quel dato ambito culturale. Il Piano dell’offerta formativa e la sua stesura e approvazione da parte del Collegio docenti[7] avrà sempre più uno scopo ordinatore e orientatore di quello che sarà il processo di sviluppo culturale e didattico di ogni singola scuola. Il Pof nasce dalla ricerca e dalla valutazione e non ha momenti di stasi o di abbandono (non è un adempimento burocratico, ma il vero e unico laboratorio della scuola nella sua evoluzione), per questo permette di declinare Obiettivi formativi che permettano di “aprire” gli OSA e quindi costruire delle Unità di apprendimento, che siano il punto di incontro tra la scuola dei programmi e degli obiettivi e la scuola delle esperienze personali. Il Pof di ogni scuola è il punto di partenza per la creazione di un reale  “sistema degli apprendimenti”[8].

Se la didattica modulare della scuola elementare e quella coordinata delle scuole medie avevano come obiettivo primario la reductio ad unum delle varie metodologie e dei vari meccanismi valutativi, la didattica delle Indicazioni nazionali cerca invece un’unità nella diversità dei percorsi (appunto la personalizzazione), non tanto attraverso cornici onnicomprensive, quanto attraverso il trasferimento, nel progetto generale di ogni scuola, delle singolarità nel loro sviluppo “storico” e “critico”. Far convivere i due sistemi sarebbe molto faticoso e richiederebbe sforzi programmatici che vanno al di là di quanto le scuole paiono in grado di realizzare. Bisogna però stare attenti a non cadere nell’evidente pericolo di appiattire tutta la didattica sugli OSA, quasi che gli OSA possano essere dei “nuovi programmi” anche se declinati in forma sintetica e non discorsiva. Non si tratta insomma di trovare sotterfugi per poter continuare ad operare come si è sempre fatto e come se nulla fosse accaduto, ma di non perdere le “buone pratiche” e comprendere in che modo inserirle in un sistema di progettazione curricolare fortemente mutato.

 

Unit of Learnig Outcome. Il concetto di Unità di apprendimento si è sviluppato in ambito europeo quando si è cercato di trasferire i crediti da un sistema dell’istruzione o della formazione o universitario da uno Stato all’altro. Appurata l’impossibilità di trasferire i diplomi così come erano stati acquisiti nei vari Paesi nell’ambito dell’Unione Europea si è fatta strada la certezza che solo attraverso una certificazione delle conoscenze, abilità e competenze (alte) realmente acquisite si sarebbe potuto raggiungere un sistema trasparente e operativo di trasmissione delle persone nell’ambito della società della conoscenza. Le Unit of Learning Outcome devono dunque certificare le conoscenze (knowledge), abilità (skills) e competenze (wider competences)  realmente acquisite dal soggetto e dunque inequivocabilmente spendibili nel mercato della conoscenza. Questo meccanismo di certificazione “a tasselli” permette di abbattere le tre barriere relative alla società della conoscenza: la non accumulazione di competenze acquisite, la loro non validazione e quindi il loro non trasferimento. Attraverso la verifica delle Unit of Learning Outcome si eliminano i tre “non” e si permette una certificabilità spendibile.

Questo meccanismo trasportato nella Riforma Moratti ha prodotto un blocco nella ricerca e un rifiuto dell’innovazione in chi si è trovato a dover fronteggiare un sistema di certificazione che non è stato capito nella sua derivazione, nella sua necessità, nella sua attuabilità. Coloro che hanno pensato le Indicazioni nazionali hanno poi fornito spiegazioni spesso confuse e certo molto complesse, nell’ambito di un’idea di ologramma che è di tipo metafisico e dunque va in controtendenza rispetto a molta parte della cultura italiana. E il documento Lavorare per Unità di apprendimento in vista dei Piani di Studio Personalizzati – L’uso dei Documenti nazionali[9] ha mostrato con impietosa evidenza la teoricità e la complicazione di un metodo di lavoro basato su esperienze che non sono italiane.

        

Saperi contaminati. La sistematicità del processo di apprendimento può trovare forma compiuta con l’abbandono della rigida divisione disciplinare coniugata attraverso le materie inserite nelle ore. Sarebbe necessario giungere all’ un’integrazione dei saperi per la definizione delle competenze da certificare e l’utilizzo delle abilità acquisite in forma veicolare o strumentale. Non si scambi quanto sopra detto per un richiamo utilitaristico alla prassi o all’economicità del sapere, ma si cerchi di vedere - se è possibile - il tentativo di passare da un sistema di saperi gerarchizzati ad un sistema di saperi contaminati.

         Forse è possibile che il passaggio elettorale non crei ulteriori traumi alla scuola italiana se questa farà intendere una capacità di contaminazione tra due idee diverse di organizzazione scolastica. Se il DPR 275/99 apriva verso una sistematica individualizzazione dei percorsi formativi (parlando di Obiettivi specifici di apprendimento, di ore opzionali, di scelta delle famiglie, di doppio canale), la legge delega 53/2003 ha aperto – con terminologia analoga - ad un’idea di personalizzazione che tenta di “acchiappare” lo spirito del tempo. Bisognerebbe cercare di raggiungere, attraverso la contaminazione, un modello unitario, che contempli la possibilità di integrare l’insegnamento e l’apprendimento, l’unità didattica e l’unità di apprendimento, l’individualizzazione dell’insegnamento e la personalizzazione del percorso nella ricerca di un’uscita decorosa se non virtuosa da un tortuoso percorso di riforma[10].


 

[1] Il lessico delle Indicazioni nazionali non aiuta a dipanare i dubbi teorici e pedagogici propri di ogni nuovo modello: “Le Unità di Apprendimento, individuali, di gruppi di livello, di compito o elettivi oppure di gruppo classe, sono costituite dalla progettazione: a) - di uno o più obiettivi formativi tra loro integrati (definiti anche con i relativi standard di apprendimento, riferiti alle conoscenze e alle abilità coinvolte); b) delle attività educative e didattiche unitarie, dei metodi, delle soluzioni organizzative ritenute necessarie per concretizzare gli obiettivi formativi formulati; c) - delle modalità con cui verificare sia i livelli delle conoscenze e delle abilità acquisite, sia se e quanto tali conoscenze e abilità si sono trasformate in competenze personali di ciascuno. Ogni istituzione scolastica, o ogni gruppo docente, deciderà il grado di analiticità di questa progettazione delle Unità di Apprendimento.”

[2] In poco tempo si è formata sull’Unità di apprendimento una notevole letteratura di riferimento, non sempre coerente e non sempre univoca. Citerei come riferimenti due testi di Ermanno Puricelli: L’Unità di apprendimento, “Scuola e Didattica”, n° 4 del 15 ottobre 2003; Unità di apprendimento come indicazione metodologica, “Scuola e Didattica” n° 14 del 1° aprile 2005. Anche se la coniugazione completa proposta da Puricelli in Una procedura per l’impostazione dei Piani di studio personalizzati (sul sito www.icsviadeisalici.it) non convince per la sua formalistica complessità. Le varie esemplificazioni di Gregoria Cannarozzo (raccolte in www.icsviadeisalici.it, ma pubblicate in diverse sedi) non riescono a levare l’idea di una certa artificialità nell’impostazione d’insieme.

[3] Giacinto Iannuzzi, Valutazione, verifica e portfolio tra obiettivi formativi e piani di studio personalizzati, in “Amministrare la scuola”, n. 1, gennaio 2006.

[4] Si veda su “Scuola e Didattica”, n° 1, settembre 2005: Contrapposizione e/o integrazione tra “vecchia” e “nuova” didattica?, L’accusa di Pasquale D’Avolio e La difesa di Ermanno Puricelli.

[5] E’ uno dei passaggi più controversi del DPR n° 275/99: l’articolo 17 (“Ricognizione delle disposizioni di legge abrogate”) abroga gli articoli 123 (“Programmi didattici” per le scuole elementari) e 166(“Programmi e orari di insegnamento” per le scuole medie) del T.U. (D.lgs n° 297 del 16 aprile 1994). In precedenza il DPR 275/99 aveva demandato alle scuole l’emanazione dei curricoli, senza “vietare” il mantenimento dei vecchi Programmi.

[6] Maurizio Gentile, Differenziazione didattica, in “Voci della scuola”, volume V, Tecnodid, Napoli 2005

[7] Il rapporto tra il Pof e il Consiglio d’Istituto mostra la necessità di un rinnovo radicale degli Organi collegiali e dei loro poteri. L’emanazione delle linee di indirizzo e l’adozione del Pof sono momenti “indolori” solo per prassi, visto che il Consiglio d’Istituto avrebbe il potere di intervenire in maniera pesante sui meccanismi della progettazione didattica.

[8] Antonio Valentino, Progettare e organizzare la scuola, Valore scuola, Roma 2001.

[9] “Inserto” su “Scuola e Didattica”, n° 1, settembre 2005.

[10] Come forse è stato notato in questo ultimo periodo ho sempre usato la minuscola, dopo aver abusato della maiuscola per tutto l’articolo. La speranza è che le parole della didattica tornino ad essere nomi comuni e finiscano di essere nomi propri.


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