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Convegno “Idee di scuola”
Adro, 7 settembre 2002

Sistema dei media e identità in movimento della scuola

di Roberto Maragliano – Università Roma Tre
(r.maragliano@uniroma3.it)

 

I media come risorsa per costruire mondi

Il mio modo di intendere i media digitali e più in generale le tecnologie della conoscenza e della comunicazione è meno interessato agli aspetti tecnici e materiali di funzionamento di questa o quella macchina e più proiettato a cogliere, nella disarticolazione/riarticolazione dei blocchi del sapere messa in scena dell’azione congiunta dei numerosi strumenti di cui disponiamo oggi per conoscere, conoscerci e comunicare, l’occasione per avviare un ripensamento dell’intera area dell’esperienza umana, e, all’interno di questa, della specifica componente educativa.

Ciò che sostanzialmente io penso delle tecnologie è che ne vada valorizzata in primo luogo la funzione epistemologica, soprattutto in relazione alle dinamiche che scaturiscono dal loro agire in forma congiunta, e che quindi sia da evitare la tendenza, peraltro assai diffusa, a ridurre l’identità di ciascun mezzo ai soli aspetti materiali e funzionali che ne caratterizzano l’impiego. Introdurre dentro il tema delle tecnologie l’esigenza di un’analisi il più possibile attenta e concettualmente fondata dei processi di conoscenza ed esperienza che il loro intermediarsi tra soggetto, altri soggetti, oggetto/i, ambiente e soggetto stesso mette in azione servirebbe anche a sottrarsi ad un altro diffusissimo luogo comune, quello vede al di sotto di tali processi, perennemente, il conflitto tra uno strumento e il suo presunto antagonista.

Riconosco che questa è una tesi controcorrente, non solo rispetto a chi guarda ai media con aria di sufficienza (sono tanti, nell’ambito della pedagogia accademica nostrana, e ancor più nell’ambito della pedagogia spontanea di quanti si occupano o soltanto si preoccupano di formazione) ma anche nei confronti di chi facendo suo l’impegno d’interpretazione delle semiosi favorite dai diversi mezzi del conoscere e del comunicare non include dentro a questo ambito d’impegno il mezzo libro, o di chi riducendo il tutto ad un problema pratico ritiene che la scuola debba impegnarsi in un compito di alfabetizzazione ai nuovi media. Ma certo non mi si potrà rimproverare l’averla formulata tardivamente o in modi reticenti: il mio Manuale di didattica multimediale è del 1994 [1] e il volumetto Tre ipertesti su multimedialità e formazione [2] è anch’esso del 1998 e mai in quei due testi viene sostenuta l’idea che le tecnologie, in campo pedagogico-didattico, svolgano funzioni soltanto strumentali; inoltre ci sono, a documentare un tale orientamento, le attività di ricerca e formazione di cui dà conto il sito web del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive di cui sono responsabile, attività volte a promuovere una “pedagogia esigente”, pensata e teoricamente centrata sulla possibilità di interpretare i media come dispositivi filosofici. [3] 

Certo, le macchine ci aiutano ad accumulare e scambiare conoscenza e ci permettono di realizzare meglio questi compiti, ma ciò che ce le rende preziose e insostituibili è che, squadernando innumerevoli rappresentazioni del mondo e invitandoci a farle nostre, costruendo realtà ma anche facendocele costruire in innumerevoli forme, ci costringono a pensare, appunto, le forme del mondo e, assieme ad esse, le forme che noi stressi diamo al mondo. In altri termini, dialogando e interagendo tra di loro, e facendo tutto ciò tramite noi stessi, i media ci mettono a contatto diretto con i quadri ma anche con le cornici del conoscere. E questa è, io credo, un’opportunità epistemologica che non possiamo permetterci il lusso di ignorare.

Se avessimo una sola fonte di sapere, questo stesso sapere risulterebbe monodimensionale (o, come chiarirò successivamente, adimensionale). Ciò che mi preme mettere in evidenza è che più fonti abbiamo e più media usiamo più facce possiamo scoprire dell’universo del sapere e quindi più articolata può farsene il nostro impegno di percezione, costruzione, concettualizzazione, comprensione. [4]  

Naturalmente, un approccio siffatto presuppone che ci sia, da parte dell’uomo (non già dell’utente di questo o quel mezzo, ma dell’uomo generale che usa le macchine, ne pratica un certo numero e in un qualche modo ne incorpora le funzioni), [5] un continuo lavoro di tessitura, cioè un’attività ininterrotta, sia conscia sia inconscia, di istituzione di collegamenti fra le diverse immagini del mondo che vengono proposte dal singolo mezzo, e tra queste e le immagini proposte da tutti gli altri media.

 

L’idea di sistema dei media, dentro la scuola

Da quanto detto fin qui consegue che la scelta di portare a scuola le molteplici configurazioni date dalle macchine al sapere potrebbe favorire non già una volatilizzazione del sapere stesso (come alcuni ingenuamente credono) ma al contrario la sua inscrizione in una logica di concretezza, solidità, operatività: prerogative, queste, che è più facile immaginare garantite dall’esercizio di una sorta di “conoscenza al plurale” piuttosto che da una “conoscenza al singolare”.

Che poi buona parte dell’idea e di pratica di scuola di cui disponiamo sia centrata sulla conoscenza al singolare e che questa scelta, non vissuta come tale ma come un dato di fatto, risponda ai requisiti della praticabilità e della comodità pedagogico/didattica è altra questione, che appunto andrebbe vista come tale, cioè come un problema di cui essere consapevoli, e non invece come un assunto irrinunciabile, quasi un assoluto metafisico.

Cosa intendo dire, con questo? Che la scuola di cui parliamo e che pratichiamo (anche a livello universitario) è comunque di tipo tecnologico, essendo costituita in massima parte di esperienza mediata. Il problema nasce dal fatto che la sua identità e la sua articolazione sono modellate su una sola tecnologia, la stampa, [6] e dal fatto che la mancanza di un confronto permette una sorta di nascondimento di questa matrice tecnologica. La scrittura a stampa, infatti, sia per ragioni storiche [7] sia per ragioni che chiamerei di “psicologia degli enti”, [8] è vissuta non tanto come un apparato materiale e quindi come una delle possibili configurazioni del sapere proposto (sia pure la migliore, la più elevata e sofisticata, ma pur sempre “una”), bensì come “la Forma” del sapere, l’unica che gli sarebbe legittimamente propria. 

Una tale cortocircuito (come definirlo altrimenti?) presenta indubbie comodità per la scuola, e in particolare per l’azione di chi insegna e di chi impara. Per esempio, la comodità di centrare l’attenzione solo sui “contenuti”, senza mai doversi porre il problema di come essi siano configurati, di quale matrice o cornice cognitiva siano espressione; o, ancora, la comodità di proporre/illudersi che si possa approdare ad un modo oggettivo, univoco per riprodurre l’articolazione dei contenuti e per verificarne l’acquisizione da parte degli allievi. [9]  

Ma questo cortocircuito, va detto, è anche espressione di una tipica soluzione di autoaccecamento o di razionalizzazione distorcente, in quanto corrisponde al non voler vedere niente che sia al di là di ciò che si giudica (aprioristicamente) visibile, niente che sia posto fuori di ciò che si è deciso (in forma conscia o no) di poter/voler vedere.

Secondo l’approccio al quale invece mi rifaccio, tecnologizzare il sapere scolastico significa compiere una serie di operazioni esplicite ma concettualmente complesse, che muovono dalla decisione principale, di tipo strategico, mirante ad affiancare all’ordine  preesistente, inteso come emanazione di un’unica forma tecnologica, quella determinata dalla stampa, altri ordini, provenienti da altre forme tecnologiche. Una decisione coerente con l’esigenza di dar vita, anche dentro la scuola, ad un sistema dei media. [10] Per cominciare, questo impegno potrebbe tradursi nell’accettare, o meglio nel volere che il libro (la “forma libro”) interloquisca educativamente con il computer (la “forma computer”).

Costruire un sistema là dove oggi c’è unicità ed esclusività permetterebbe di ampliare la portata critica e di consolidare la portata strategica dell’esperienza che il giovane matura in sede scolastica, sia sul piano cognitivo sia su quello affettivo e relazionale, in quanto, procedendo in questa direzione (libro + computer + …), non risulterebbe esclusa, da questa azione di rispecchiamento plurimo di individuo e media, nessuna forma o espressione della cosiddetta “esperienza generale”.

 

L’idea di sistema dei media, fuori della scuola

Il senso di questa prospettiva può risultare più chiaro, o almeno mi auguro sia così, se si prova ad individuarne i presupposti al di là degli spazi dell’intervento intenzionale, nel mondo esterno alla scuola.

Qui non c’è luogo dell’esperire e del fare che non venga continuamente sollecitato, influenzato, addirittura modellato e costruito dall’azione congiunta dei media o per l’edificazione del quale i media non forniscano a tutti noi risorse cognitive differenziate, comunque vissute all’interno di una logica di sistema.

In riferimento a questo dato di fatto, si può affermare che la nostra vita è totalmente plurimediale, oggi, o  multi-mediale, [11] cioè giocata dentro l’azione di più mezzi, i quali presentano diverse identità e nature, e operano, dentro di noi, secondo modalità di connessione continua, coerenti con una logica di sistema tanto stringente e avvincente (e vincente!) da sembrare spontanea, quasi naturale.

Cerco di chiarire questo punto, che considero cruciale. Non sto parlando del fenomeno del forte condizionamento culturale che, sul piano individuale e collettivo, rischia di produrre l’azione coordinata di più mezzi, quando c’è un qualcuno che ne detiene la proprietà e ne governa unitariamente l’attività. Non voglio negare che questo sia un problema serio, è serissimo. Il fatto è che sto parlando di altro, qui. Sto chiamando in causa l’attività di cucitura, integrazione, connessione che l’individuo (o il gruppo al quale appartiene) compie tra i vari elementi di conoscenza/esperienza prodotti dalla sua esposizione ai media. Mi riferisco dunque ad un impegno che non trova mai sosta, in ognuno di noi, articolandosi diversamente sul fronte conscio e su quello inconscio e quindi assumendo configurazioni diverse e producendo risultati differenziati a seconda del grado di consapevolezza che ciascuno ha del problema di “confrontare le cose” e del livello di familiarità con questo o quel mezzo, ma anche della familiarità, propria di ciascuno, con l’idea di sistema.

Di fatto, quel che ognuno ascolta/vede alla televisione rimbalza automaticamente su quel che legge sul giornale, e questo a sua volta si intreccia con  ciò che può ricavare dalla navigazione in Internet o dallo scambio di messaggi (elettronici e no) con i suoi conoscenti, per non dire del sottofondo sonoro che a questo intreccio di temi viene garantito da radio, dischi, brusii, chiacchiere e rumori urbani, o per non dire ancora dell’articolazione visiva che a tale intreccio viene assicurata dall’album di immagini fisse e in movimento che inesauribilmente squadernatagli dalle superfici dei corpi e degli oggetti, dai monitor, dagli schermi. E così via.

Abitanti del villaggio dei media - un villaggio grande quanto il mondo, anzi ben più grande di esso (perché capace di moltiplicarlo con l’aiuto dell’immaginazione, della teoria, la simulazione, della narrazione) -  costruiamo la nostra identità, giorno dopo giorno, o, secondo un altro punto di vista (a mio avviso più corretto) ci dotiamo di più identità, giorno dopo giorno, proprio stando dentro l’intreccio dei media, dentro le loro interfacce, e svolgendovi il ruolo di attori, non solo di consumatori. [12] Quindi connettendo cose, ma anche connettendoci a cose.

 

Apocalisse dei media

Nel mettere sotto osservazione i fenomeni di cui ho detto non mi sembra dunque di toccare aspetti marginali, ritenendo invece che essi fungano da elementi centrali, da fattori di identificazione del nostro stare al mondo.

Questo impegno a connettere, cucire, tessere è una prerogativa irrinunciabile dell’uomo odierno, [13] considerata la vastità dell’offerta di elementi assicurata dai media. Ma così si potrebbe ipotizzare che sia sempre stato, fin da quando l’uomo, dotatosi della parola parlata, dell’immagine e della scrittura ha usato queste risorse come strumenti per conoscere, ma anche per edificare il mondo, e per farlo in modo integrato.

Tutto bene, dunque? Tutto chiaro, allora? Direi proprio di no.

Spesso, infatti, ci accorgiamo di non disporre, oggi che il problema è più eclatante di quanto non fosse ieri, di apparati concettuali capaci di farci vivere con coscienza, consapevolezza, criticità e (perché no?) serenità questa cruciale e sempre più pervasiva componente del nostro esistere.

Capita infatti con una certa frequenza, e comunque oggi ben più di ieri, e non solo in campo educativo, che ci si trovi di fronte a rappresentazioni “apocalittiche”, terroristiche e terrorizzanti, relativamente all’azione dei media, discorsi che appaiono basati su impressioni più che su dati di osservazione, su luoghi comuni più che su concetti, su filosofie “spontanee” più che su teorie fondate, e che finiscono col dividere in due la nostra coscienza (per non dire della/e nostra/e identità): la parte che ci fa comunque e necessariamente interlocutori dei media, l’altra che ci fa sentire vittime dei media, proprio in quanto ne siamo utenti. Di qui la condanna ad una sorta di perenne schizofrenia: siamo quel che siamo per effetto dei media ma contemporaneamente neghiamo (o vorremmo fosse annullata) questa dimensione. [14]  

Ecco allora che fissare alcune concettualizzazioni di base, per esempio proporre una riflessione preliminare, come sto facendo qui,  sull’idea di “sistema dei media”, potrà servire a tutti noi per misurarsi con qualcosa di più impegnativo e gratificante che non delle semplici (o complicate) istruzioni per far funzionare un computer o delle banali considerazioni sul rapporto fra realtà e rappresentazione: E ditemi voi, tanto per mettere a tacere quest’ultimo tema (che tanto sembra appassionare psicologi e pedagoghi), se c’è una realtà qualsiasi, fatta propria dall’uomo, che si presenti nuda, totalmente scissa da modalità di rappresentazione, ditemi voi a che cosa mai si riduca la realtà se a sostenerla non c’è l’incontro tra più codici e elementi di costruzione, ditemi voi se l’idea di realtà di chi conosce più cose e in più modi diversi sia meno o più realistica di chi ne conosce meno, di cose, e in un minor numero di modi.

Muoverci nella direzione di “concettualizzare le tecnologie” ci dovrebbe aiutare a tenere desto quel che un po’ tutti chiamiamo “spirito critico”, anche se poi intendono questa entità in modi assai diversi. [15] Tanto più dovrebbe risultare necessaria questa azione, quanto più il mondo, esterno e interno a noi, si fa più complicato e indecifrabile.

Queste considerazioni, com’è ovvio, le sto facendo anche in relazione alle condizioni di drammatica incertezza che da tempo il mondo sta provando, e in particolare dal giorno dell’attacco alle Torri di New York.

Globalizzazione comunicativa e iper-multi-anarco-medialità sembrano essere due caratteristiche forti di questa tragica, grandiosa e opaca svolta nella “messa in scena” della realtà collettiva.

Stiamo andando, infatti, ben al di là dei confini della “documentazione” o di quella che fin qui abbiamo chiamato “guerra in diretta”. I media non si limitano a farci assistere, ci stanno portando la guerra in casa (ma anche elementi di pace, fortunatamente!). Ognuno di noi vive a pezzi l’insieme magmatico di questa realtà, se ne fa delle rappresentazioni, se la cuce a suo modo, utilizzando il megapuzzle delle rappresentazioni collettive fornitoci dal sistema dei media, ma usando anche la megacornice che questo sistema comunque ci assicura. In questo groviglio, in questo reticolo tutto si tiene, tutto interagisce con e rimbalza su tutto: i grandi simboli e i grandi sentimenti, i fatti collettivi e i loro risvolti umani, la necessità dei casi e la casualità degli ordinamenti necessari; tutto è rappresentazione ma anche presentazione e presenza, tutto è realtà solo in quanto è molteplicità, è gioco (mi si perdoni l’espressione!) di rappresentazioni. [16] Cosa sarebbe, chiediamoci, questo lacerante grumo di esperienza di una guerra “aperta”, collegata ad altre in corso, lontana e vicina nello stesso tempo, locale e globale, loro e nostra, cosa sarebbe se avessimo a disposizione un solo codice, una sola risorsa di presentazione del mondo e del nostro starci dentro? Se dunque l’angoscia per una guerra esterna e interna trova modi di contenimento è perché possiamo vedere e possiamo vivere questa “cosa” in vari modi, da diverse angolazioni e prospettive, è perché in tutto ciò ci è riservata comunque una parte attiva, che è proprio quella che affida a noi (alla nostra parte cosciente ma anche a quella inconscia) il compito di istituire collegamenti, di integrare, di predisporre tessuti (testi) di conoscenza e di esperienza. Se dunque non soccombiamo è perché il teatro dei media ci offre una grande occasione per problematizzare e confrontare, riaggiustare e condividere elementi di problematizzazione, dunque per sfuggire al ricatto di fatti e giudizi dati una volta per tutte.

 

Forma libro e forma computer

Vengo, a questo punto, al risvolto pedagogico e scolastico del ragionamento che ho fin qui sviluppato. E sarò sintetico, considerato che chi abbia seguito la linea di ragionamento proposta fin qui non dovrebbe incontrare difficoltà alcuna nel prolungarla fin dentro il contesto educativo.

Mi è capitato più volte (e soprattutto nei testi citati all’inizio) di parlare della scuola (e dell’università) che conosciamo e ancora pratichiamo, quella configurata in forma di libro, come di una scuola monomediale. Non è così, o almeno adesso non mi sembra più che una tale attribuzione sia adeguata.

Preferisco parlare, ora, di scuola amediale, cioè di una scuola che adotta sì il formato del libro, che struttura i suoi saperi e le sue azioni sui saperi in base alla forma-libro, che rifiuta (o semplicemente non conosce) altra figura epistemologica, ma che poi nasconde (a se stessa e al mondo) questa sua scelta, e quindi si autopropone come luogo di irradiazione del sapere tout court, non dunque del sapere mediato dalla tecnologia stampa e dalla forma particolare che essa dà al mondo.

E’ questa stessa la scuola che continua a fare resistenza al computer, o che, se decide o è costretta a tollerare la novità, lo fa proponendosi di “addomesticare la bestia”, cioè trattando il computer alla stregua di un libro o, peggio ancora, chiudendolo nella gabbia del ‘laboratorio’.

Perché lo fa? Per autoconservazione, mi sembra evidente. Perché, se cedesse su questo punto, cadrebbe buona parte della sua identità storica e attuale, verrebbe allo scoperto l’autoaccecamento di cui è causa e ad un tempo vittima, si troverebbe costretta a riconoscere l’ipocrisia sottostante all’idea che sia possibile riprodurre e irradiare contenuti “allo stato naturale”. Perché, credo di averlo espresso in termini sufficientemente chiari, dovrebbe ammettere (a se stessa e al mondo) che il suo è un sapere mediato, è una delle possibili configurazioni di sapere mediato, può darsi o addirittura è certo che sia la più efficace, economica, vantaggiosa, ma è pur sempre “una” configurazione rispetto ad “altre” possibili.

Entrando a scuola (ma entrandoci bene, per quello che è e sa fare, per la forma epistemologica che gli è propria) [17] il computer produrrebbe dunque un primo effetto di disincantamento, per il fatto di dare visibilità di forma alla forma del libro, e poi uno che chiamerei di “ispessimento epistemologico”, consistente nell’aprire nuove prospettive di conoscenza/esperienza. Insomma, nel fare ‘sistema’, seppur minimo (ma in un qualche modo bisogna pur cominciare) aprirebbe nuove vie e farebbe capire che quelle precedentemente battute, che potranno/dovranno essere mantenute, erano anch’esse delle vie, per quanto di forma differente: non erano la terra. [18]  

Ma consentirebbe anche la legittimazione scolastica di intelligenze fin qui considerate poco degne di un tale riconoscimento, quelle non-accademiche o anti-accademiche che però il mondo d’oggi sta sempre più valorizzando (e riscoprendo). Alludo alle forme dell’intelligenza concreta; la vulgata scolastica della teoria piagetiana le vorrebbe scomparse fin dai primi vagiti dell’intelligenza formale, e invece governano molta parte delle attività e dei pensieri di noi adulti: la pratica manuale, ovviamente, ma anche l’arte,  il gioco, il buon senso, il corpo, l’affettività, insomma tutti gli ambiti entro i quali intuizione, globalità, immersione, reticolarità, connettività, simulazione contribuiscono a concretizzare un paradigma di conoscenza/esperienza diverso ma non alternativo a quello segnato da analisi, scomposizione, astrazione, chiusura. [19] 

Lo si potrebbe affermare con una formula. Adottando il computer, la scuola fa sistema: salva il libro, si salva dal libro, fa testo (ovviamente,  nel senso di tessuto).

 

Multimedialità per quale scuola

Ovviamente sono dell’idea che una positiva trasformazione del sistema di istruzione non possa concretizzarsi solo attraverso un intervento di questo tipo, anche se tengo a sottolineare che metterlo ai primi posti dell’agenda del cambiamento non significa predicare e attuare una sorta di riduzione della politica e dell’azione pedagogica alla didattica quanto dare il giusto riconoscimento alla questione di decidere che cosa e come la scuola debba dare in termini di cultura, esperienza, sapere, rispetto a ciò che danno altre realtà della scena sociale odierna (che comunque svolgono un’azione educativa).

Altri elementi vanno inclusi nel disegno, o meglio nel ri-disegno del sistema scuola.

Sono poi quelli su cui, negli ultimi anni, si è concentrato il confronto pubblico in fatto di riforma scolastica. Elencarli risulterebbe pretestuoso rispetto all’impianto di questo mio ragionamento.

Mi limiterò dunque a identificare, tra gli elementi di discussione, quelli o le classi di quelli che vedo più facilmente entrare in relazione con il taglio esigente (epistemologicamente e pedagogicamente esigente) che qui ho inteso dare all’inquadramento scolastico delle tecnologie della conoscenza. Alcuni degli elementi del confronto/conflitto sul cambiamento hanno ricevuto una sanzione normativa e stanno già entrando in azione, altri godono di un riconoscimento normativo ma non di quello attuativo, altri ancora sono presenti solo come auspicio o appunto per un intervento legislativo di là da venire. Di fatto, sono tutti contemporaneamente e a volte confusamente presenti dentro la rappresentazione collettiva (il “teatrino”?) della riforma scolastica. Ma mio è il modo di identificarli e contestualizzarli qui.

La riarticolazione costituzionale, istituzionale e amministrativa del sistema. Approdato a quasi centocinquant’anni di vita, l’assetto generale della scuola italiana sta mettendo in discussione, per la prima volta in modo impegnativo, la sua originaria e mai infranta vocazione centralistica. Non lo fa, però, in totale indipendenza rispetto ai processi in atto di riarticolazione dello Stato e degli altri apparati di governo del sociale, bensì mosso dalla comune esigenza di dare identità e voce a tutte le forme di espressione della volontà collettiva, da quelle più vicine e contestualizzate rispetto ai regimi di vita degli individui e dei gruppi a quelle più mediate e distaccate relativamente a tali localizzazioni primarie. La ridefinizione dei compiti dello Stato, delle Regioni, degli Enti territoriali e dei singoli istituti scolastici autonomi in ordine all’identità dell’istruzione e della formazione, all’individuazione delle funzioni generali del sistema scolastico e di quelle locali e dei modi per realizzarle chiama in causa, attraverso la messa in mora della pratica classica del “programma ministeriale” e l’identificazione di standard ai quali i diversi curricoli e piani dovranno adeguarsi, un’idea di “sapere” più ampia e complessa di quella sancita dall’organizzazione dei contenuti dell’insegnamento per “discipline”. Non è improprio cogliere, dentro questo processo, anche la messa in crisi del monopolio della “forma libro” (e quindi delle pratiche ad essa collegate). Pur non militando nel partito di quanti sostengono che il computer sia di per sé una soluzione dei problemi della scuola, mi risulterebbe difficile negare che la sua costruttiva accettazione, accompagnata ad un ridimensionamento delle logiche manualistiche, possa fungere da volano e sostegno ad un processo di democratizzazione delle pratiche della produzione/riproduzione del sapere.

La ridefinizione della base culturale della scuola. Il passaggio, avvenuto nel giro di pochi anni, da una scuola secondaria a base sociale ristretta ad una scuola secondaria a base sociale ampia, e la conseguente progressiva eliminazione delle dighe di contenimento e dei meccanismi di reiezione che assicuravano l’omogeneità dell’utenza di riferimento, ha di fatto mutato la ragione sociale dell’intero sistema scolastico, senza però che venisse mutato il suo impianto ordinamentale e culturale. E’ giunto il momento di far fronte ad un tale impegno. Molto probabilmente l’impianto tripartito classico (un ciclo iniziale di base, uno intermedio di smistamento, uno conclusivo nelle diverse filiere) non ha più senso oggi che tutta o quasi la popolazione in età frequenta due terzi del curricolo scolastico. Ne ha invece la riduzione dei termini dell’impianto da tre a due, e ancor più ne avrebbe la ridefinizione in termini complessivi e unitari del portato culturale e didattico del primo dei due cicli. Su questo terreno la promozione di spazi educativi plurimediali può rappresentare una  risorsa preziosa.

La creazione di un indirizzo organico  per la formazione. Un sistema scolastico più adeguato alle trasformazioni della società di quanto non sia quello corrente deve concedere ben altro risalto e riconoscimento all’esigenza di far interagire cultura e lavoro, sia rendendo la cultura produttiva e l’esperienza di produzione una delle componenti del curricolo scolastico in senso stretto sia dando realizzazione materiale e profilo culturale e didattico ad un serio indirizzo di preparazione alle professioni, che ponga il nostro paese alla pari con altri europei. Anche qui l’accoglimento dell’idea e della conseguente pratica di una pluralità dei media e delle loro matrici di costruzione/diffusione dei saperi (professionali come accademici) può svolgere un efficace ruolo di propulsione. [20]  

 



[1] Diventa poi, nel 1998, Nuovo manuale di didattica multimediale. Con cd-rom, Bari, Laterza.

[2] Sempre Bari, Laterza.

[3] L’indirizzo è: http://LTAonline.educ.uniroma3.it . In particolare, l’invito che rivolgo al curioso di rete è che, navigando il sito, non manchi di entrare in contatto con il lavoro di messa a punto e di confronto dialettico delle categorie interpretative relative all’ipotizzato “approccio epistemologico” ai media, per come esso risulta dal Diario di Bordo on line del mio insegnamento di Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento, negli anni accademici 2000/1 e 2001/2. Ne ricaverà anche l’immagine di una didattica di livello universitario che per un verso aspira ad essere coerente con le caratteristiche reticolari e dialogiche degli spazi telematici e per  un altro verso non rinuncia a ricorrere alla forma libro, e alle sue prerogative epistemologiche, al fine di salvaguardare la parte (relativamente) fissa dell’impegno di produzione/riproduzione del sapere. 

[4] E’ un paradossale effetto del caso (o, se si preferisce, di letture disattente) che, tempo fa, mi sia capitato di esser messo alla gogna per un presunto impegno di de-concettualizzazione dell’insegnamento scolastico dal pamphlet di Lucio Russo, Segmenti e bastoncini (Milano, Feltrinelli, 1998), dove, in quanto “pedagogista esperto di tecnologie didattiche multimediali”; qui mi sono trovato collocato d’ufficio dalla parte delle conoscenze empiriche, mediate dal bastoncino (in senso reale e metaforico), in irriducibile contrapposizione agli accademici seri che difendono le conoscenze formali,  materialmente e metaforicamente fondate dall’idea di segmento. Non ci vorrebbe molto a capovolgere un tale ragionamento e mostrare quanto la rimozione del tema della “forma” che il libro a stampa conferisce al sapere metta Lucio Russo nelle condizioni di usare il libro e l’universo di conoscenza ad esso collegato come bastoncino. Ma forse è più giusto dire: “come bastone”.

[5] Coerentemente con l’intento “filosofico” di tale mia impostazione, ritengo corretto richiamare il fatto che alla sua base si trova, tra gli altri, un filone di ricerca dai contorni sufficientemente precisi, oggi, e precisamente quello che va più o meno propriamente sotto l’etichetta di “scuola di Toronto”. Per una puntualizzazione rimando al mio saggio I molti media e le molteplici forme del sapere, in via di pubblicazione sulla rivista “Studium Educationis”.

[6] Relativamente ai limiti fattuali di una conoscenza esclusivamente basata sul codice simbolico-ricostruttivo, in primo luogo sulla lingua scritta e stampata, e alla possibilità di legittimare, anche in campo pedaogogico, altre modalità semiotiche, rimando alle considerazioni sviluppate da Francesco Antinucci in Computer per un figlio (Bari, Laterza, 1999) e La scuola si è rotta (bari, Laterza, 2001) e a quelle proposte da Domenico Parisi in Scuol@it (Milano, Mondatori, 2000)  e Simulazioni (Bologna, Il Mulino, 2001).

[7] Universalizzazione del progetto educativo e industrializzazione del libro sono fenomeni che vanno di pari passo, dal Settecento in poi.

[8] Non interagire con altri né rispecchiarsi in essi rende debole e fa svanire l’Io, dunque, come già detto, non avere confronti permette al libro di smaterializzarsi.

[9] Non a caso uno dei problemi più laceranti del confronto scolastico attuale è quello della valutazione, dei suoi fondamenti e delle sue tecniche. Visto che la discussione è in corso e non sembra far intravedere composizioni, almeno a breve, perché non introdurvi anche la specificazione qui presentata, cioè l’attenzione alla determinazione tecnologica dell’idea di oggettività del sapere e quindi anche dell’idea di oggettività delle forme di verifica dell’acquisizione del sapere? Sarebbe corretto far posto alla consapevolezza di come su queste idee pesi l’ipostatizzazione tipografica del sapere. Scendendo a livello pratico non si può accettare che la verifica di percorsi multimediali preveda l’uso di strumenti monomediali. Vedi, a questo proposito, le osservazioni da me proposte, insieme a Giovanni Moretti, nel saggio Valutare nel multimedia, in Roberto Maragliano – Ornella Martini, Stefano Penge, a cura di, I media e la formazione, Roma, Carocci, 1996.

[10] Per il concetto di “sistema dei media” v. Peppino Ortoleva, Mediastoria, Milano, Net, 2002.

[11] Uso il termine, qui, con il trattino, per impedire che venga confuso con quello senza trattino, usuale nell’universo digitale.

[12] Vedi, a questo proposito, Silvia Vegetti Finzi, Io-corpo-macchina e nuovi costrutti d’identità, in “Psiche”, n. 1/2002, pp. 149-169

[13] Illuminante è, su questo versante, l’analisi di Francesca Rigotti, Il filo del pensiero, Bologna, Il Mulino, 2002, soprattutto nel ricondurre molte delle metafore più usuali in ambito di scrittura alla loro matrice “femminile”, coincidente con le tecniche della tessitura.

[14] Dall’antichità in poi, innumerevoli volte l’uso di un mezzo è stato piegato all’esigenza di mettere in discussione se stesso. Ma partendo dalle osservazioni di Platone sull’alienazione indotta dalla scrittura e approdando ai dibattiti odierni, ovviamente televisivi, sui pericoli della tv o ai siti web dedicati alle insidie del mondo digitale sembra di assistere per un verso ad un riproporsi sempre più stanco dei medesimi argomenti, via via svuotati di senso, per un altro verso ad un incremento di aggressività nel tono di chi li propone: un’aggressività che spesso assume toni apocalittici, come mostra, fin dal sottotitolo (ma ancor più dalla rimozione dell’esigenza di confrontarsi in termini analiticamente adeguati con il portato conoscitivo delle culture dell’oralità), il volume di Raffaele Simone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Bari, Laterza, 2000.

[15] Nel secondo dei Tre ipertesti…, cit., ho provato a movimentare la versione pedagogica del tema, introducendo la distinzione tra una criticità verticale, caratterizzata dalla “presa di distanza” e dal “distacco” ma talora appesantita dalla difficoltà di prendere in carico i contesti entro i quali agiscono i processi di conoscenza sottoposti a critica e quelli relativi all’esercizio critico, e una criticità orizzontale, che agisce in medias res, si con-fonde con le cose e di conseguenza opera su elementi sporchi, aperti, ma li mette in gioco e contemporaneamente si mette in gioco. Il mio parere è che l’una non possa sussistere senza il concorso dell’altra, e che assieme vadano a costituire un circolo dialettico capace di arginare l’irrigidimento dell’idea stessa di criticità, vale a dire la sua assunzione acritica.

[16] Non a caso non sono stati pochi coloro che, riflettendo sulla “svolta” introdotta dall’attacco alle torri, hanno chiamato in causa il Dostoevskij de I demonî e il carattere epistemologicamente e psicologicamente destabilizzante di una narrazione confinata e dominata dalle dinamiche di un dialogo ininterrotto, incapace di far approdare a verità definitive quanto foriero di contrasti e conflitti innumerevoli sull’idea stessa di realtà e sulla possibilità che si giunga con sicurezza a stabilire “come effettivamente sono andate le cose”.

[17] Che per un verso fa affidamento sulla figura della “rete” e per un altro trae sostanza e alimento dalle procedure del dialogo.

[18] Per un approfondimento della proposta rimando al mio Verso una scuola bilingue, in “Iter”, II, 6, settembre-dicembre 1999, pp. 56-60. L’articolo, come gli altri che vado via via pubblicando su carta e in rete, è reperibile alla sezione Multimedialità e dintorni/Scritture del sito indicato alla nota 3 del presente contributo.

[19] D’obbligo è, a questo proposito, il riferimento a Seymour Papert, I bambini e il computer, Milano, Rizzoli, 1994 (ma anche: http://www.fub.it/telema/TELEMA12/Papert12.html; http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/p/papert02.htm) e a Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Milano, Apogeo, 1997 (ma anche http://www.fub.it/telema/TELEMA12/Turkle12.html; http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/biografi/t/turkle.htm).

[20] Sull’insieme degli argomenti sfiorati nel presente contributo è in via di pubblicazione, per l’editore Laterza, un mio volumetto dal titolo La scuola dei tre no.


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