Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Strategia di Lisbona 2000/2010

di Francesco Butturini

 

Le date

     Chi scrive questa serie di riflessioni sulla Strategia Lisbona 2000/2010, è al servizio della Scuola e delle sue istituzioni, non di questo o dei  precedenti ministri. Vive la vita della sua scuola quotidianamente e partecipa da anni ad alcuni dei processi ministeriali di ricerca e di studio per la formazione in servizio dei docenti e dei dirigenti come responsabile del progetto ministeriale “Didattica della comunicazione didattica” dedicato, in particolare, all’attuazione del Primo Asse del “Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione”: Linguaggi, studiando con una rete di 85 scuole, di ogni ordine e grado, provenienti da tutte le regioni d’Italia, l’ambito disciplinare Linguaggi non Verbali e Multimediali .

     Con questa prima riflessione, credo opportuno partire da alcune date fondanti la Strategia; la prima è quella del “Trattato di Maastricht”, 7 febbraio 1992. Gli articoli 149  e 150 del Trattato sono dedicati all’istruzione e alla formazione negli stati dell’Unione.

     La seconda data è  quella della prima  riunione a Lisbona del consiglio e del parlamento europeo, 23, 24 marzo 2000. In quella riunione venne definito il programma integrato che sostiene la messa in opera della Strategia di Lisbona nel settore dell’istruzione e della formazione. Le riunioni si sono susseguite nel tempo. Ne ricorderemo solo altre due: 18 dicembre 2006, che licenziò le Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo in materia di istruzione e formazione e il 5 ottobre 2008, ultima verifica dello stato dei lavori di avvicinamento ai “cinque livelli di riferimento (Benchmark) del rendimento medio europeo che l’Unione dovrebbe raggiungere entro il 2010”. Una verifica con esito assai negativo e non solo per l’Italia.

      Altre due date importanti: il 22 agosto 2007 con il Decreto Ministeriale n. 139 il Ministero della Pubblica Istruzione regolamentava l’innalzamento dell’obbligo di istruzione (in esecuzione del comma 622 art. unico della legge finanziaria  26 dicembre 2006 n. 296), individuando quattro assi fondanti tale obbligo: Linguaggi, Matematico, Scientifico- Tecnologico, Storico - Sociale, definendone e precisandone le conoscenze, le capacità, le abilità e le competenze.

       Infine, l’ultima data, direi la più significativa: il 31 luglio 2008 (la scorsa estate) il nostro parlamento, all’unanimità, approvava il Trattato di Lisbona (sottoscritto dai capi di governo dei 27 Paesi dell’Unione il 13 dicembre 2007), aprendo quindi in maniera definitiva la stagione europea per l’Italia. Sì, perché non tutti si sono accorti che l’Italia è uno Stato dell’Unione Europea, uno dei 27 Stati ed uno dei 16 Stati che usano la stessa moneta, l’Euro. Non se ne sono accorti in tanti  ministeri, anche al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si stenta ad accettare l’idea che anche la Scuola italiana dovrà dare seguito positivo alle Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo in materia di Istruzione e Formazione, se vorrà la certificazione europea dei titoli di studio rilasciati dalle sue istituzioni scolastiche.

 

I Principi guida

Nelle prossime puntate della rubrica illustreremo i Cinque Livelli di riferimento,  le Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo licenziate nella seduta del 18 dicembre 2006 e le otto competenze chiave richieste a tutti i cittadini dell’Unione.

     Prima, però, è necessario conoscere i principi guida della Strategia di Lisbona e le mete cui quei principi tendono, perché, come testualmente troverete scritto nel testo licenziato dal consiglio europeo di Lisbona, entro il 2010, “l’Unione deve diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo”.

     Non è la prima volta che sentiamo parlare di “economia della conoscenza”: dai pensatori illuministi del XVIII secolo in poi, i principi guida delle nuove società, quelle moderne e post-moderne, qual è la nostra attuale società, sono basati sulla ricerca, lo studio, la conoscenza. In altre parole: su un sistema di istruzione che altro non è se non la Scuola e l’Università.

    Napoleone, infatti, con la legge 4 settembre 1802 n. 75  ( per l’Istruzione Media Dipartimentale) istituiva la scuola pubblica superiore, quei licei che, nel tempo, si trasformeranno, assumendo pieghe e curvature differenti e diverse. Napoleone aveva perfettamente compreso che senza istruzione di alto livello (media e universitaria) anche il suo impero sorretto da guerre continue, non avrebbe avuto vita lunga, come non ebbe; mentre, invece, la sua legge sulla pubblica istruzione superiore divenne legge non più abrogata in tutti gli Stati europei e da questi esportata nelle colonie e in tutto il mondo.

      Ecco dunque il primo punto su cui riflettere, noi, gente di Scuola e tutto il vasto mondo che della Scuola si interessa perché la frequenta, o la frequentano figli e nipoti: giungere ad un’economia fondata sulla conoscenza.

     L’Unione intende prepararne la transizione attraverso lo sviluppo di una società dell’informazione per tutti per creare uno spazio europeo della ricerca. E’ quindi necessario realizzare il mercato interno e renderlo pienamente operativo, rafforzando la competitività e il dinamismo delle piccole e medie imprese, sviluppando  mercati finanziari efficaci e integrati grazie al coordinamento delle politiche macroeconomiche. Bisogna quindi modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle risorse umane e creando uno stato sociale attivo. Per realizzare questo passaggio fondamentale è indispensabile adattare i sistemi di istruzione e formazione alla società della conoscenza, garantire più posti di lavoro e di migliore qualità; modernizzare la protezione civile e favorire l’integrazione sociale.

     A qualcuno verrà spontaneo chiedersi se stiamo parlando di Scuola o di politiche economico - sociali generiche e generaliste. Stiamo invece parlando proprio del compito primo, della motivazione prima, degli scopi di una Scuola della contemporaneità globale: di una Scuola per il XXI secolo, in grado di riprendere in mano le redini della Società, di cui deve essere la punta di diamante, l’ambito quotidiano della scoperta e della ricerca di ciò che serve per la Società. Non una Scuola serva della Società, ma una Scuola per la Società, davanti alla Società.

 

I livelli di riferimento

      Ora, per capire come muoversi, in quale direzione andare e dove dirigere il percorso del nostro sistema di istruzione e formazione, bisogna fare come quando, in montagna, per capire dove si deve andare, si guarda in alto, alla cima, alla nostra meta e si studia il cammino che si dovrà percorrere.

     Ecco, dunque, la meta cui deve tendere ogni Stato dell’Unione per raggiungere gli obiettivi della Strategia Lisbona 2000/2010: meta per tutti e non per qualcuno, secondo il principio fondamentale della società della conoscenza: “non uno di meno”.

     Parliamo dei “Cinque livelli di riferimento (benchmark) del rendimento medio europeo”:

1)     abbandono scolastico prematuro: ridurre la percentuale di abbandoni scolastici almeno del 10% (il problema dell’abbandono interessa anche il ricco Nordest);

2)     matematica, scienze, tecnologie: aumentare almeno del 15% il totale dei laureati in matematica, scienze e tecnologie, diminuendo nel contempo la disparità di genere (in Italia il deficit in questo campo è a livelli terzomondiali: anzi, ci sono Stati del Terzo Mondo che ci superano!);

3)     completamento del ciclo di istruzione secondaria superiore: arrivare almeno all’85% dei ventiduenni che abbiano completato tale ciclo di istruzione (anche in questo caso la nostra soglia è fuori di più del 10% e non si vedono progressi all’orizzonte);

4)     competenze di base: ridurre la percentuale dei quindicenni con scarse capacità di lettura almeno del 20% rispetto all’anno 2000 (anche per questa competenza – sembrerebbe impossibile – i nostri adolescenti vengono prima solo dei loro coetanei turchi);

5)     apprendimento permanente (lifelong learning): innalzare almeno al 12.5% la partecipazione degli adulti in età lavorativa (25 – 64 anni) all’apprendimento permanente.

     Questa dunque la meta generale per raggiungere quella società della conoscenza capace di competere a livello planetario con la realtà cinese, ad esempio, dove ogni anno le università sfornano qualcosa come 4 milioni di laureati o quella indiana, con un milione ed oltre di laureati, o, ancora, quella malaysiana con oltre cinquecentomila laureati. Realtà con cui già si confronta l’Occidente, confronto da cui uscirà perdente (U.S.A. compresi) se non cambia radicalmente rotta e non inizia ad investire massicciamente nell’istruzione e nella formazione.

     È naturale che di fronte a queste mete e a queste realtà planetarie un cittadino dell’Unione si chiede cosa potrà fare, come fare, dove andare.

     La risposta ce l’ha sotto casa, nelle scuole del suo quartiere, dalle scuole dell’infanzia, alle scuole primarie, dalle scuole secondarie di primo grado a quelle secondarie di secondo grado alle università.

     Sono le scuole che frequentano i suoi figli o i suoi nipoti: non può pensare che il problema non lo riguardi e che riguardi altri. Il problema ci riguarda tutti, uno per uno, anno per anno, scuola per scuola, perché senza l’istruzione e la formazione nessuno di noi, nemmeno il più ricco o quegli che si crede il più forte, potrà andare da qualche parte, se non alla sua estinzione, come individuo e come società.

     Nella Scuola, dunque, nell’istruzione e formazione sta la salvezza del singolo e della società.

 

Documento del 18 dicembre 2006

      Prendiamo ora in considerazione il documento “Raccomandazioni del parlamento europeo e del consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente”.

     Il documento lo potete trovare in tanti siti, come, ad esempio, quello del Parlamento europeo o il sito dell’ex-Indire (ora A.N.S.A.S.).

     Il documento si compone di  quattordici considerazioni, cinque raccomandazioni, quattro intenzioni e, in allegato, la compiuta descrizione delle competenze chiave.

     Analizzeremo con pazienza gli snodi e i punti principali di questo testo che viene da una lunga riflessione e altrettanto lunga maturazione, iniziata con il Trattato di Maastricht, come abbiamo accennato, e, in particolare con le dichiarazioni di intenti di Lisbona marzo 2000.

      La prima considerazione che propongo è generale: nella lettura del documento, a mio avviso, bisogna prioritariamente tenere in considerazione il fine: l’apprendimento permanente (Long life learning) che riguarda tutti i cittadini dell’Unione, dall’infanzia a dopo la pensione.

     Sembra un’ovvietà, ma non lo è assolutamente: la scuola (primaria, secondaria, terziaria) non esaurisce la richiesta e la necessità di cultura in una società contemporanea che scopre nella conoscenza la forza prima del suo progresso: civile, morale, economico.    

      Penso alle tante forme di analfabetismo di ritorno che disastrano le nostre democrazie e permettono, anzi, cercano una comunicazione del consenso acritico, soprattutto quando certificato dalle politiche vincenti: di governo o di sottogoverno, anche di antigoverno.

     Il silenzio e l’indifferenza che circondano, fasciano, nascondono i problemi reali, mettendo in primo piano, sotto i riflettori della pubblicità mediatica, fatti secondari, personali, importanti in linea di massima, ma non primari.

     Di questi giorni è il caso della famiglia Englaro.

     Domani sarà un altro fatto di cronaca, utile a far passare in secondo piano altri problemi, altri disastri.

     A volte, anche altri fatti validi e positivi.

     L’esempio migliore lo fornisce la storia quotidiana della nostra scuola, presente sui media solo quanto succedono fatti negativi. Mai o raramente presente per le tante, tantissime buone pratiche la caratterizzano giorno dietro giorno.

      Così in Italia sembra esistere solo la malascuola, la  malasanità, la malauniversità baronale, la ma giustizia, la malapolitica.

      Tutto serve per un martellante porta-a-porta della più totale disinformazione, cui concorrono tutti: di destra, di centro, di sinistra, per la impellente necessità di apparire, di esserci, di stare sotto i riflettori, e, possibilmente, di bucare lo scherzo.

      Tutto questo stato triste di scarsa civiltà della comunicazione deriva proprio dall’analfabetismo di ritorno che colpisce le generazioni dai giovani ai meno giovani, soprattutto quando non hanno goduto di un’educazione alla libertà e alla critica.

      Analizzando le considerazioni e le raccomandazioni, scopriremo lo linee guida per una vera società della conoscenza, della libertà intellettuale, della critica attiva e costruttrice di progresso e benessere: sociale e morale.

 

Le cinque raccomandazioni

      Esaminiamo le prime cinque raccomandazioni, delle quali, a mio avviso,  questi sono gli spunti fondamentali per una riflessione positiva:

1)     l’apprendimento permanente come risposta alla globalizzazione e al passaggio verso economie basate sulla conoscenza;

2)     sviluppo di abilità per la società della conoscenza;

3)     realizzazione di uno spazio europeo dell’apprendimento permanente;

4)     sviluppare l’apprendimento permanente con un’attenzione particolare per misure attive e preventive rivolte ai disoccupati e alle persone non attive;

5)     i livelli di riferimento (che abbiamo precedentemente descritto).

      Penso che a nessuno sfuggirà che, di fronte all’attuale situazione mondiale (globale) di crisi economica, queste prime cinque raccomandazioni, che, del resto, derivano dalle analisi degli anni Novanta del secolo scorso e non sono quindi nuove, sono la prima e la più importante risposta ai problemi generali e particolari delle macro e delle microeconomie.

     Di questi giorni, ancora una volta, per l’Italia sono alla ribalta le problematiche ( relative alle difficoltà  e possibili chiusure o riduzioni drastiche di impiego) di fabbriche come Aprilia o del sistema Chimico di Porto Marghera.

     Anche il turista più sprovveduto, quando giunge  Venezia, via cielo e via mare, guarda stupito quelle ciminiere che fumano a pochi chilometri dalla città e non capisce come sia stato possibile, allora, accostare un patrimonio artistico che può e deve rendere lavoro e benessere, con un altro patrimonio che può rendere lavoro e benessere solo se differentemente usato.

     Nessuno potrà mai pensare che quei lavoratori della Chimica (un tempo settore primario per l’economia italiana) debbano andarsene e perdere lavoro e sostentamento.     

     Ma nessuno può pensare che quelle ciminiere continuino ad inquinare il cielo, il mare, il sottosuolo.

     Solo un piano generale e concordato di educazione permanente può affrontare e risolvere il problema doppio dell’occupazione e della salute generale.

     Non si tratta, ora, di improvvisare corsi di trasformazione o di riconversione. Troppo poco e poco efficace.

     Bisogna pensare a un progetto strategico pluriennale, a volte accennato a volte iniziato, ma tante volte abbandonato o distrutto dai licenziamenti e dalle dismissioni. Un progetto strategico che non può se non essere globale. Certamente condiviso, ma non per questo abbandonato alle avventure dell’assemblearismo.

     Vi sembrerà strano o fuori posto che un uomo di Scuola proponga queste considerazioni. Io spero di no. Spero che i lettori capiscano che quando parliamo di Scuola, convintamene parliamo di economia, di progresso, di società della conoscenza con il massimo della concretezza. Pensando ad una Scuola davanti alla società, non serva della società (servetta cacciata in un angolo), ma a servizio della società e quindi punta di diamante della società.

     In questo campo, nel Veneto, conosco esperienze splendide di riconversioni a lungo termine e sono sicuro ce ne saranno anche in tante altre regioni italiane.

      Ecco una  prima riflessione dalle cinque raccomandazioni della Strategia di Lisbona.

 

 La cittadinanza

      Proseguendo la nostra riflessione, prendiamo in esame il punto sesto delle considerazioni che costituiscono la prima parte delle Raccomandazioni, in cui si riprende la relazione del Consiglio europeo del novembre 2004 dedicata al “contributo dell’istruzione alla conservazione e al rinnovo del contesto culturale comune nella società nonché all’apprendimento di valori sociali e civici essenziali quali la cittadinanza, l’uguaglianza, la tolleranza e il rispetto…”.

      Mi soffermo su questo punto perché è in discussione nel Gruppo Nazionale che sta elaborando il testo della certificazione per il compimento dell’obbligo di istruzione e il proscioglimento al diciottesimo anno di età.

     La discussione verte proprio sul tema della cittadinanza e su come far rientrare questo fondamentale passaggio verso una civiltà in grado di affrontare le crescenti diversità socioculturali.

      Come si può certificare il patrimonio di una cittadinanza acquisita come abitudine, anzi, come habitus naturale che prevede il rispetto del differente, acquisito come patrimonio e non come problema, non la tolleranza (è un sostantivo volterriano che mi infastidisce perché vi intravedo concessioni e sensi di superiorità), ma la condivisione (posso dirlo?) gioiosa, anche se difficile, dell’altro di cui io, che lo voglia o che non lo voglia, che me ne accorga o che non me ne accorga, sono responsabile, perché è fra le mie braccia (per ricordare Levinas di “Altrimenti che essere”, ma ancora prima, le riflessioni di Ivàn Fëdorovič nel libro undicesimo dei Fratelli Karamazov). Di lui, ripeto, sono responsabile: della sua vita e della sua sorte nella vita. Tanto più come educatore, come docente, come dirigente.

      Nella discussione nel gruppo, il problema nasce proprio da quii come certificare questo tipo di apprendimento della cittadinanza.

      Sull’argomento sta discutendo da questa estate la commissione Corradini, giungendo a considerazioni e soluzioni di tipo squisitamente didattico e prevedendo, anche se lo spazio è ambiguamente presente dall’attuale normativa di legge, un intervento di tipo scolastico.

       Io credo che la considerazione sesta vada oltre e contemporaneamente penetri profondamente nel problema: la cittadinanza deve diventare un habitus e come tale è quindi verificabile. La cittadinanza ha sicuramente bisogno di contenuti e di regole da conoscere e da rispettare: prima fra tutte la nostra Carta Costituzionale, che qualcuno tenta di mettere da parte dichiarandola vecchia e soprassata quando non è ancora stata attuata, anche laddove è stata novellata, come il caso del titolo V.

       Se il fine dell’istruzione è, nel rispetto degli articoli 3,9,33,34 della Costituzione, il raggiungimento di una buona cittadinanza composta di buona cultura, buone competenze, buona professione nel rispetto delle regole fondamentali della civile convivenza, allora mi sembra che una società della conoscenza, nel cotesto delle diversità socioculturali, debba essere composta da cittadini flessibili, duttili, in grado di confrontarsi, incontrarsi, sopportarsi vicendevolmente, stimolarsi, aiutarsi: con gli strumenti tipici dell’istruzione negli sviluppi dei differenti gradi, fino al terziario ed oltre.

     Il tutto è chiaramente certificabile come previsto dalle competenze chiave descritte nelle Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 e nel DM 22 agosto 2007 n. 139: Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione.

    Così, credo, si possono porre le basi per “consentire alle persone di accedere al mando del lavoro e di rimanervi” finalità concreta dell’istruzione “al fine del rafforzamento della coesione sociale”.

      Come si può constatare, parlando di scuola, parleremo sempre di società. Civiltà: parleremo di polis, faremo sempre politica.

 

Gli obiettivi non raggiunti

I punti settimo ed ottavo  delle considerazioni invitano ad una riflessione grave e quanto mai preoccupante.

     Punto settimo: non sono stati raggiungi gli obiettivi in materia di istruzione e formazione come previsti dalla commissione nel 2005 per quanto riguarda la dispersione scolastica, la preparazione generale degli adolescenti all’età di quindici anni, il tasso di completamento di istruzione secondaria superiore e la partecipazione degli adulti all’apprendimento; inoltre “dai dati raccolti emerge che le persone scarsamente qualificate hanno minori probabilità di partecipare al perfezionamento professionale”.

     La considerazione, come si vede espande il problema indicato nella sesta e da noi commentato nella precedente riflessione.

      Argomento grave che non viene sollevato quasi mai, anche se ha  una storia antica come la nostra occidentale. Mi riferisco, infatti, come primo spunto di riflessione al dialogo  platonico La Repubblica nel famosissimo mito della caverna ( libro VII 514b – 520) che vi invito a rileggere, insieme con una complessa e ricca riflessione  di Hans Blumenberg (H.B. “Uscite dalla caverna” Medusa ed. 2009). Riprendo l’affermazione platonica (La Repubblica II, 361 a):”Il più alto grado di ingiustizia consiste nel sembrare giusti senza esserlo” cui aggiungo la riflessione di Blumenberg”… una delle tecniche che l’ingiusto utilizza per sottrarsi alla visibilità, è il dono persuasivo della parola che gli consente di evitare con successo di sottoporre le proprie azioni alle pubbliche accuse” (op.cit.p.76).
      Perché parto da qui per invitarsi a riflettere sulla settima considerazione?

     In Italia, soprattutto nelle regioni del boom, del miracolo economico (io sono del Nordest “miracolato” e so e vivo  quello che dico) è molto facile riscontrare percentuali di dispersione totale, o di quell’altra dispersione che è la frequenza saltuaria che comporta una formazione ridotta e priva di quella maturità culturale richiesta dalla nostra Costituzione e dal parlamento e consiglio europeo.

      Per quattro anni ho fatto il preside in un liceo del lago di Garda: molti dei miei studenti incominciavano a frequentare regolarmente a stagione finita (dopo i Morti) e se ne andavano, di fatto, con la riapertura della successiva (ai primi di maggio). Ricordo ancora quello che mi disse una mamma di uno studente sveglio e molto bravo, quando era presente a scuola,  cui facevo “ingenuamente” notare quanto stesse perdendo suo figlio con quelle lunghe assenze, veri e propri abbandoni:”Signor preside, mio figlio in quei tre mesi che non viene a scuola, guadagna quanto lei tutto l’anno! Vuole che gli dica di rinunciare alla macchina, alla casa che già si sta costruendo?”

      Un ricordo che abbino ad una dichiarazione di Romano Prodi nel dicembre del 1995 alla Fiera di Verona in occasione della fondazione dell’Ulivo veronese:”Non si può essere ricchi e ignoranti per più di una generazione” .La sala mugugnò rumorosamente e ci trovammo ad applaudire in pochi, fra i volti scuri degli altri. Nel già ricco Nordest dove chiudono ogni anno migliaia di fabbrichette, si sta avverando quello che Prodi diceva, perché senza la  cultura d’impresa e generale, che deriva da una costante riqualificazione del proprio lavoro, non si potrà verificare quel perfezionamento professionale che permette di proseguire  e di confrontarsi a livello sempre più ampio, in un contesto che è fisiologicamente in costante, inarrestabile espansione planetaria.

     Ha quindi forza risolutiva quanto indicato nell’ottava considerazione che qui riporto a conclusione:”Il quadro di azioni per lo sviluppo permanente delle competenze e delle qualifiche additato dalle parti sociali europee nel marzo 2002 ribadisce la necessità che le imprese adattino le loro strutture più rapidamente per poter rimaner competitive L’accresciuto lavoro di squadra, l’appiattimento delle gerarchie, la maggiore responsabilizzazione e una crescente necessità di mansioni polivalenti portano allo sviluppo di istituzioni formative. In tale contesto la capacità delle organizzazioni di identificare competenze, di mobilitarle e riconoscerle e di incoraggiare lo sviluppo tra tutti i lavoratori rappresenta la base per le nuove strategie competitive.

   Senza scuola non si va da nessuna parte e la Scuola spesso sottovaluta questa sua radicale funzione di civiltà dell’economia.

 

Scuola e Università

La nona e la decima considerazione pongono l’accento sul problema chiave dello sviluppo sociale, civile, economico dell’Unione: la carenza di educazione e formazione permanente, anzi,  la disabitudine o l’indifferenza nei confronti di questo problema. Disabitudine ed indifferenza che creano quell’analfabetismo di ritorno che è la palude dentro cui stagnano le generazioni anziane, sia quelle che ancora svolgono una professione che quelle in pensione.

     Sull’argomento ritorneremo.

    Ora ci interessa maggiormente quanto affermato nella nona considerazione, dove si rileva che più di un terzo delle forza lavoro europea (80 milioni di persone nel 2004)” … è scarsamente qualificata,  mentre si è stimato che entro il 2010 quasi il 50% dei nuovi posti di lavoro richiederà qualifiche di livello terziario, poco meno del 40% richiederà un diploma di scuola secondaria superiore e solo circa il 15% sarà adatto a persone in possesso soltanto di una scolarizzazione di base” cioè dieci anni: l’assolvimento dell’obbligo.

     Di fronte a queste percentuali mi viene da tremare.

     Penso alle centinaia di storie dei miei studenti diplomati, anche con valutazione buone, persi nei meandri del fuoricorso, sopravissuti con qualche lavoro, accettato perché non c’era altro. Nessuna vera qualifica professionale, non perché la diano tutte le facoltà, ma perché la laurea può aprire la strada alla/della professionalizzazione.

      Se le stime sono ancora valide – e temo di sì – solo il 20% degli iscritti al primo anno di università si laurea utilmente, cioè in tempo, con una laurea spendibile sul mercato.

      Cifre alla mano, per l’Italia, ci troviamo ad avere tante – sempre comunque poche – lauree che non serviranno e pochissime che serviranno a chi le ha conquistate e per la società che le attende.

      Oggi sono stato alla discussione di laurea triennale di un consistente gruppo di miei studenti: una folla di parenti, amici, conoscenti stipata nel corridoio dove si aprivano le aule per la discussione. Una discussione giocata in pochi minuti su una tesi di poche decine di pagine, con una bibliografia di ricerca manualistica. Tesine senza fini e senza sostanza che non fanno prevedere orizzonti professionali. Ed è così anche per le tesi di specializzazione: qualcosa di più, ma poco. Troppo poco per le attese di Lisbona e Maastricht. Per le nostre attese.

      Allora ci si deve chiedere: cosa sta facendo la scuola secondaria di secondo grado? Cosa fa la scuola terziaria, cioè l’università? Cosa fanno per rispondere efficacemente a queste due considerazioni? Per la secondaria di secondo grado sono in vista solo tagli: alle ore di insegnamento, alle cattedre, alle classi. Per l’università, nulla che riduca quella incredibile parcellizzazione delle cattedre nate per genesi politico-amicale più che per necessità di ricerca scientifica utile per lo sviluppo sociale, civile, economico del Paese.

      Vanno radicalmente riformate Scuola e Università, ma non come si vorrebbero riformare oggi!

     Vanno ricostruite sulla base della solidità dell’impianto culturale, rivedendo i curricoli, esaltando l’autonomia, verificando i percorsi e gli esiti: con costanza, con rigore, con obiettività. Va valorizzato il merito e va introdotta la selezione, non per eliminare, ma per indirizzare; non per cacciare, ma per orientare.

      Si sta facendo qualcosa di simile?

     Si sta pensando?

     I nostri politici ( di tutti gli schieramenti) lo stanno pensando?

     I nostri dirigenti lo stanno pensando?

     I nostri rettori lo stanno pensando?

 

Differenze e lavoro comune

Le considerazioni, dalla decima alla quattordicesima, contengono il primo riferimento alle competenze chiave (su di esse ci soffermeremo analizzandole una per una) di cui devono essere in possesso tutti i cittadini dell’Unione; il principio della progressiva uguaglianza uomo/donna nel lavoro e nelle opportunità di lavoro; il raccordo istruzione/formazione mondo del lavoro; la necessità di avviare in tutti gli Stati membri efficaci processi di riforma del sistema istruzione/formazione; infine,  la necessità che gli Stati membri non procedano da soli e isolatamente nei processi di riforma, ma , in forza dell’articolo 5 del Trattato di Lisbona (principio di sussidiarietà), attivino processi comuni e collaborativi.

      La conclusione delle considerazioni mi sembra indichi senza ombra di dubbio quali siano gli atti fondamentali da compiere e i fini da raggiungere attraverso un processo efficace di riforme.

     Il punto cardine di questa prima parte  delle Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 che stiamo esaminano mi sembra sia la filosofia del lavoro comune. O meglio, di un processo comune di riforme studiate e attuate avendo di mira mete comuni e comuni principi, perché, se l’Unione non vuole essere solo una parola sulla carta ed un inno “europeo” alla Gioia, è chiaro che l’istruzione/formazione di tutti gli Stati, nel rispetto delle caratteristiche di ogni uno di essi, dovrà avere una forte caratteristica comune.

      Oggi ogni Stato dell’Unione si diversifica praticamente in tutto: dalla scuola primaria (da quando si inizia a frequentare: da cinque a sette anni) alla scuola secondaria di primo e secondo grado (la durata complessiva varia da dodici a tredici anni), alle varie forme di università e accademie.

      Non possiamo ignorare le differenti storie che caratterizzano da secoli i vari Stati.    

      Come ignorare le vicende secolari della tradizione inglese, o quelle germaniche di Federico II o le riforme napoleoniche e via dicendo per ogni Stato dell’Unione?

     Da basi differenti, tuttavia, con un cammino che non potrà essere breve, si dovrà arrivare a processi di certificazione comune – come di fatto si sta già progettando con gli EQF: European Qualification Framework – perché, alla fin fine, se gli studi servono per arrivare a professioni utili, credo risulti chiaro a tutti che un medico, un ingegnere, un avvocato, un insegnate sono tali in qualunque Paese dell’Unione.

       E qui si appunta un altro percorso tutto o in gran parte da verificare, se non proprio da aprire: il raccordo scuola/mondo del lavoro.

      Non penso solo alle università e alle scelte troppe volte superficiali compiute dalla maggioranza degli iscritti, causa prima del pesante fenomeno del fuori corso e degli abbandoni. Vado più indietro: quante volte le famiglie scelgono l’indirizzo di studio solo in base alla vicinanza dell’istituto ai luoghi di abitazione? Può anche essere che, se fatta bene, una scuola valga l’altra (ho i  miei dubbi seri in proposito), ma è certo che una scuola frequentata di mala voglia non condurrà se non a disaffezione allo studio, forte desiderio di finirla appena possibile, e nuovi facili errori nelle successive scelte.

     Anche questo è argomento grave che, per quello che conosco della situazione nel nostro Paese, presenta aspetti che devono destare grande preoccupazione. Faccio uno solo dei tanti possibili esempi: il liceo classico in sofferenza al Centro Nord, in buona tenuta al Centro Sud.

     Perché?

 

Le raccomandazioni

Proseguendo nella lettura del testo del 18 dicembre 2006, veniamo alla cinque raccomandazioni che precedono il tema centrale della Strategia di Lisbona, le Otto competenze chiave.

      Si apre nelle raccomandazioni un panorama di civiltà della conoscenza che poggia su di un principio fondamentale: l’educazione e l’istruzione continua come prassi naturale per tutti i cittadini dell’Unione, dalla scuola alla pensione, puntando tuttavia sulla prassi della riconversione e dell’aggiornamento, con un’attenzione sollecita e puntuale nei confronti dei cittadini in difficoltà: “Si tenga debitamente conto di quei giovani che a causa di svantaggi educativi determinati da circostanze personali, sociali, culturali o economiche, hanno bisogno di un sostegno particolare per realizzare le loro potenzialità educative”.

     Mi soffermo su questa seconda raccomandazione, perché quanto sta avvenendo in alcuni stati europei in questi ultimi anni (Francia e Italia in particolare) ignora e contrasta questa raccomandazione.

      Infatti, non è certo riducendo il tempo-scuola e la spesa per la scuola che si viene incontro a questa diffusa categoria di giovani.

     Probabilmente per i figli della borghesia colta e agiata la scuola potrà anche essere un tempo se non inutile certo non strettamente necessario. Questi cittadini, infatti, godono di tante altre possibilità di apprendimento e di arricchimento personale.

      Il parlamento europeo – e la nostra Carta Costituzionale – giustamente pensano a quella fascia giovanile che, senza la scuola, non potrà mai percorrere la difficile strada del progresso sociale e culturale, né mai potrà raggiungere quei risultati professionali che le sue potenzialità intellettuali permetterebbero.

     Un’ingiustizia sociale che, alla fine, si riversa negativamente su tutta la società, perché restringe e riduce le possibilità complessive e continua a destinare il meglio delle risorse a classi sociali sempre più ridotte ed esclusive: privilegiate.

     Vorrei ricordare che il liceo napoleonico prevedeva un assai ridotto quadro di lezioni settimanale (poco più di venti ore) che si accompagnava allo studio pomeridiano guidato, ma che era il segnale evidente che dietro quei giovani c’erano famiglie colte che integravano con la loro cultura e con la loro possibilità economica quanto la scuola istituzione non aveva quindi bisogno di offrire.

      Vi pare che oggi si possa ragionare in questi termini?

      Eppure quando si tagliano tempo pieno, ore di laboratorio, ore di lezioni, e si riducono gli insegnamenti a orari settimanali sempre più filiformi, si ragiona come se tutte le famiglie fossero in grado di integrare positivamente ed efficacemente i processi di apprendimento.       

     Poiché così non è, quali altre agenzie sostituiranno famiglia e scuola?

     Tutte le reti telematiche che invadono quotidianamente quasi tutte le fasce sociali giovanili: numerarle è ormai quasi impossibile. Basti l’ultima: twitter. Una rete, una vera ragnatela che non so quanto comunichi realmente, mentre temo di sapere quanto formi radicalmente. Per non parlare di tutto il sistema televisivo, pubblico (esiste ancora?) e privato(dominante) efficace veicolo ideologico che spesso ignora la scuola o la presente solo in negativo.

      Che farne dunque, allora, di questa seconda come delle altre raccomandazioni?

      Non saprebbe il caso di meditarle con sincera passione civile e trasformale in dettati di riconversione della nostra sempre più debole e massificata società?

 

Le otto competenze chiave

Eccoci ora alle otto competenze chiave che concludono il documento delle Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 e ne sono il suggello ideale e pragmatico insieme, essendo le otto competenze il tracciato di un percorso che tutti i cittadini dell’Unione sono chiamati a percorrere con l’istruzione e la formazione durante tutta la vita.

     La premessa:”Dato che la globalizzazione continua a porre l’Unione europea di fronte a nuove sfide, ciascun cittadino dovrà disporre di un’ampia gamma di competenze chiave per adattasi in modo flessibile e un mondo in rapido mutamento e caratterizzato da forte interconnessione.”

     Vi sono due sostantivi che vanno sottolineati – flessibilità e interconnessione – per  chiederci e chiedere conto alla nostra società se l’istruzione e la formazione che ci vengono offerte e i percorsi che in esse compiamo sono flessibili e interconnessi.

     La riflessione investe di prepotenza tutto il nostro sistema educativo nazionale.

     Per il sistema formativo regionale (mi riferisco ai Centri di Formazione Professionale, in particolare a quelli gestiti dai Salesiani in Veneto, Lombardia e Piemonte) credo non sia azzardato considerarli esempi efficienti ed efficaci di formazione ed educazione alla flessibilità, interconnessione e rapporto con il mondo del lavoro; non solo: al C.F.P. San Zeno di Verona, ad esempio,  uno studente che ne abbia qualità e voglia potrà passare dal C.F.P. Grafico, all’Istituto Tecnico serale Grafico, quindi concludere i suoi studi nella facoltà di Scienze della Comunicazione Multimediale. Da un C.F.P all’università!

     Quando, però, entriamo nel sistema scolastico nazionale, anche solo considerando il permanere di tre ordini – liceale, tecnico, professionale -  dobbiamo renderci conto che sarà difficile trovare flessibilità e interconnessione a portata di mano degli adolescenti e dei giovani che lo frequentano.

      Un primo passo, che spero significativo – si sta compiendo nella commissione Cipollone-Nardiello studiando i criteri generali e la formulazione pratica per la certificazione delle competenze, abilità e conoscenze raggiunte alla fine dell’obbligo di istruzione. Stiamo, cioè, traguardando un percorso decennale al decimo anno, alla fine quindi, senza poter disporre in maniera scientifica e verificabile l’inizio e lo sviluppo di quel percorso decennale. Eppure, già dai primi mesi dopo il Trattato di Maastricht era detto con chiarezza ciò che, nel testo del 18 dicembre 2006,  anticipa le otto competenze chiave:”L’istruzione nel suo duplice ruolo – sociale ed economico – è un elemento determinante per assicurare che i cittadini europei acquisiscano le competenze chiave necessarie per adattarsi con flessibilità” ai cambiamenti.

     Ed ecco, quindi, gli scopi del quadro di riferimento:

1)identificare e definire le competenze chiave per la realizzazione personale, la cittadinanza, la coesione sociale e l’occupabilità in una società della conoscenza;

2)coadiuvare l’operato degli Stati membri per assicurare che al completamento dell’istruzione e formazione iniziale i giovani abbiano sviluppato le competenze chiave a un livello che li renda pronti per la vita adulta e costituisca la base per ulteriori occasioni di apprendimento, come anche per la vita lavorativa, e che gli adulti siano in grado di svilupparle e aggiornarle in tutto l’arco della vita;

3) fornire uno strumento di riferimento a livello europeo per i responsabili politici, i formatori, i datori di lavoro e i discenti stessi, al fine di agevolare gli sforzi a livello nazionale ed europeo verso il proseguimento di obiettivi concordati congiuntamente;

4)costituire un quadro per un’azione ulteriore a livello comunitario sia nell’ambito del programma di lavoro “Istruzione e formazione 2010” sia nel contesto dei programmi comunitari nel campo dell’istruzione e formazione.”

 

La presentazione delle otto competenze chiave

      Veniamo ora alla presentazione delle otto competenze chiave: una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate al contesto – come recita il testo europeo -  strumenti fondamentali ed ineludibili per la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione – sempre citando dal testo ufficiale.

In ordine, non di importanza, ma come sono riportate:

1)comunicazione in madrelingua;

2)comunicazione in lingue straniere;

3)competenza matematica e competenze di base in scienze e tecnologia;

4)competenza digitale;

5)imparare ad imparare;

6)competenze sociali e civiche;

7)spirito di iniziativa e imprenditorialità;

8) consapevolezza ed espressione culturale.

      Un quadro generale, che va visto in prima battuta come tale, non distinguendo, non separando e non graduando.

     Se mai si potrebbe partire dalla quinta competenza: imparare ad imparare, che è il metodo, la tecnica e la filosofia di tutte le competenze, che siano otto o ottantamila, dell’Uomo sulla Terra, da quando si alzato sui due piedi ed ha incominciato, appunto, ad imparare ad imparare.

      Mi sorge un dubbio, lo stesso che percorre la civiltà occidentale dall’Etica Nicomachea in poi, con alcuni forti passaggi (come Le Confessioni di Agostino e su fino alla Lettera ad una professoressa dei ragazzi di Barbiana di Lorenzo Milani): non è che, quando la Scuola è divenuta Istituzione, si è messa di traverso alla quinta competenza (per tenere l’ordine di Lisbona) ed avrebbe ragione  chi, in tutti i tempi, ha predetto e predice la fine della Scuola-Istituzione?

     Perché antepongo questa riflessione alla presentazione delle otto competenze chiave?    

    Perché credo ancora che non possiamo non credere nell’utilità della Scuola- Istituzione – in concorrenza con tutte le altre agenzie informative-formative che la circondano oggi da tutte le parti con una potenza di convincimento fortissima.

      Mentre, infatti, è in irriducibile calo, così sembra, la forza educativa della  famiglia, mi sembra (spero di non essere proprio un illuso) che la Scuola stia conquistando (o subendo) ingressi in territori che un tempo erano della famiglia o dell’associazionismo laico e religioso.

      Contribuiscono a questa espansione di compiti educativi molto iniziative ministeriali, incominciando dal Progetto Giovani del ministro Franca Falcucci nel 1975 (ora bisogna dire Progetti giovani: viaggiando in Internet ne troverete a centinaia, comune per comune) che alla fine degli anni ’80 del secolo scorso iniziò lentamente a fare breccia in tante istituzioni scolastiche.

     Dal Progetto giovani  del 1975 , nei vari passaggi, alla commissione parlamentare del 1988 che si concluese con la relazione Savino del 1991, al complesso e ricco art. 326 del T.U.  16 aprile 1994 n. 297, nasce “Scuole aperte” e nascono le direttive che, a partire dalla storica direttiva 133 e dal D.P.R 567/96 “Suole aperte al pomeriggio e consulte”

hanno dato la possibilità concreta alla Scuola di aprirsi al territorio.

     Tutto questo a significare che, insieme con l’insegnamento-apprendimento, la Scuola-Istituzione ha scoperto che ci deve essere qualcosa d’altro che non contrasterà, ma svilupperà con nuove curvature la pratica dell’insegnamento apprendimento e quindi la speranza di insegnare ad imparare ad imparare.

      Ma tutto questo è un sogno, un’ipotesi, una meta o una realtà? Soprattutto una realtà diffusa?

      Quanti docenti e dirigenti credono in queste aperture? Quanti le subiscono? Quanti le ignorano? Quanti le combattono?

      Temo che la situazione attuale della Scuola e nelle scuole, nella grande confusione, incertezza, contraddittorietà che la sta invadendo dall’alto e dal basso, non sia delle più felici e  questo stato infelice contrasta con la necessità dello sviluppo generale delle otto competenze chiave.

      È, tuttavia, questo è il contesto  in cui la Scuola italiana  sta vivendo il suo ingresso in Europa  (con tutti i ritardi comuni, ufficiali e non ufficiali), e quindi in questo contesto situeremo l’analisi delle otto competenze chiave: realisticamente.

 

       Prima competenza: comunicazione nella madrelingua

    Parliamo di competenza, quindi di conoscenze, abilità essenziali che il testo analizza partitamente come capacità interattive, potremmo scrivere, come si manifestano in un atteggiamento positivo nei confronti della comunicazione nella madrelingua, nel possesso di  conoscenze linguistiche specifiche (morfosintattiche e di vocabolario), di capacità di dialogo critico e di abilità interpretative di vari tipi di testualità.

     Una competenza che vorrei riassumere  così, riportando alla lettera il testo”… abilità di distinguere e di utilizzare diversi tipi di testi, di cercare, raccogliere ed elaborare informazioni, di usare sussidi e di formulare ed esprimere le argomentazioni in modo convincente e appropriato al contesto, sia oralmente che per iscritto”.

      Non torna alla mente la definizione ciceroniana dell’ottimo cittadino, dell’oratore: vir bonus dicendi peritus!?

      Da aggiungere, infine, la “consapevolezza delle qualità estetiche e la volontà di perseguirle nonché intereresse a interagire con gli altri”.

      Sembrerebbe tutto chiaro e questo tutto chiaro ci riporterebbe ai nostri ricordi d’infanzia, quando, fin dalla prima elementare, la nostra maestra (la ricordo ancora con tanto affetto) ci insegnava a scrivere i primi pensierini, ad esporli davanti ai nostri compagni e a comporli insieme con un disegnino che li illustrava. Nella mia scuola il direttore didattico pubblicava sul giornalino (lo conservo ancora) i pensierini migliori. Poi, quanta grammatica, quanti esercizi, quanta analisi grammaticale, e, via, a seguire, quanta analisi logica. Si era solo alle Elementari, ma temi, riassunti, compiti di analisi costituivano la base solida e il lavoro quotidiano per insegnare a tutti quello che Alberto Manzi, qualche anno dopo, avrebbe insegnato ai milioni di concittadini analfabeti: saper leggere, scrivere e parlare in Italiano.

     È così oggi?

     Sarà così domani?

     Quando parliamo di madrelingua, intendiamo tutti l’Italiano? Siamo sicuri che intendiamo tutti l’Italiano?

     Nella mia regione, il Veneto, non tutti la pensano così e stanno già legiferando per un insegnamento del Veneto, senza nemmeno porsi il problema dell’Europa, ma nemmeno il problema di quale lingua veneta insegnare: il Veneziano (magari quello letterario di Goldoni)? Il cadorino? Il rovigotto? O il veronese, che cambia di quartiere in quartiere. O quella parlata imbastardita che risulta da mescolanze improvvisate di lingua televisiva e ricordi dialettali d’infanzia, sfiziosa parlata della borghesia colta?  

     Non credo si siano chiesti se esista una lingua veneta codificata, omogenea e uguale per tutta la regione. Non so nemmeno se ai nostri legislatori regionali questo problema appaia e se sia quindi da affrontare e risolvere.

      Riflessione e domande che valgono per tutte le regioni.

     Se penso che nel nostro bel Paese si va da Pantelleria e Lampedusa alla Val Aurina, dal Carso alle valli del Pellice, un Bel Paese che, come diceva De Gaulle per il suo, non si può governare perché: com’è possibile farsi capire da un popolo che produce 100 formaggi e cento vini diversi? E’ la sostanza delle parole che cambia, perché l’aglianico è vino, ma chi lo beve penserà vino quando beve una vernaccia tirolese?

      Non sto scherzando.

      Ripenso a quello che la mia maestra ci diceva: imparate l’Italiano se volete farvi capire da tutti.

      Aveva ragione.

      Aveva ragione?

 

     Seconda competenza: comunicazione in lingue straniere

Riprendo dal testo: “La competenza in lingue straniere richiede la conoscenza del vocabolario e della grammatica funzionale e una consapevolezza dei principali tipi di interazione verbale e dei registri del linguaggio. È’ importante anche la conoscenza delle convenzioni sociali, dellaspetto culturale e della variabilità dei linguaggi.” Con questa precisazione:” Nel contesto delle società multiculturali e multilinguistiche europee si dà atto che la madrelingua può non essere sempre una lingua ufficiale dello Stato membro e che la capacità di comunicare in una lingua ufficiale è condizione essenziale per assicurare la piena partecipazione dell'individuo nella società. In alcuni Stati membri la lingua madre può essere una delle varie lingue ufficiali… è importante riconoscere che molti europei vivono in famiglie o comunità bilingui o multilingui e che la lingua ufficiale del paese in cui vivono può non essere la loro lingua madre. Per questi gruppi tale competenza può riferirsi a una lingua ufficiale piuttosto che a una lingua straniera.”

     Mi sembrano spunti di riflessione fondamentali ricordando che, nelle nostre scuole, quando si parla di lingua straniera, si pensa automaticamente all’Inglese, dimenticando alcuni dati fondamentali per muoversi nel mondo a 360°. Nessuno mette in dubbio che la lingua inglese è supporto relazionale importantissimo. Ma nessuno dovrebbe mettere in dubbio che ci sono altre lingue altrettanto importanti, se non altro perché parlate da miliardi di persone: Il cinese mandarino e l’hindi da un miliardo di persone; lo spagnolo da 450 milioni  e il russo da 320 milioni e l’arabo e il portoghese da oltre 200 milioni. Si continua a dire e a scrivere delle nuove superpotenze, Cina e India, però non mi sembra che in molte scuole si insegni il cinese o l’hindi. Ora, se vogliamo parlare dell’Unione Europea in senso veramente europeo, e quindi mondiale perché aperto a tutto il pianeta, allora bisogna ripensare a tutto il sistema delle comunicazioni in lingue straniere e guardare, ad esempio, a quello che avviene nelle scuole del nord-Europa. Anni fa sono stato in Finlandia in un supermarket: la prima cosa che ho notato sono state delle bandierine sulle divise dei commessi e delle commesse. Al minimo erano tre (inglese, francese, russo), più spesso quattro o cinque; qualcuno ne aveva sei (anche l’Italiano, ma sempre l’arabo, quando erano più di tre). Proprio come ci capita di vedere nei nostri supermarket!

      C’è però, a mio avviso, un altro problema da affrontare: che tipo di lingua straniera imparano ad usare i nostri studenti. Che tipo di inglese, francese, tedesco, spagnolo (sono le quattro lingue straniere più studiate)? Divengono lingue culturali? Divengono, cioè, strumento culturale di relazione e di conoscenza, o sono solo povero strumento veicolare di poche operazioni fondamentali?

    Perché mi faccio e vi faccio queste domande?

    Non è vero che la Storia insegna, perché , se così fosse, non continueremo a compiere sempre gli stessi errori.

     Per circa quattro secoli tutto il bacino del mediterraneo parlava due lingue: latino e greco (questa seconda era lingua dei dotti e di corte). Il latino cancellò tutte le lingue delle popolazioni da est ad ovest dell’Europa e queste lingue, a loro volta, trasformarono il latino frantumandolo, pur conservandone le radici più solide, quelle morfo-sintattiche fondamentali.

     Secondo voi è così che deve o dovrebbe avvenire per un’Europa dell’Inglese dei 3000 vocaboli tutto compreso?

     Sono convinto che la complessità culturale delle mille lingue che fanno la Babele del nostro Parlamento europeo (27 lingue) non si risolve nella compattazione e, tanto meno, nella nascita di una lingua artificiale come fu il tentativo dell’Esperanto (dov’è finito?), ma in qualcosa d’altro che ancora non vedo all’orizzonte: la compenetrazione, livello per livello, delle lingue e la loro composizione nel reciproco rispetto delle valenza storico-culturali. Meta altissima che il testo riconosce e che credo sia una strada lunghissima da percorrere con più chiarezza delle attuali semplificazioni e riduzioni. Senza dimenticare che, nella mia regione, il Veneto,  chi lo governa ritiene importante che si insegni un dialetto!

 

      Terza competenza chiave: competenza matematica e competenze di base in campo scientifico e tecnologico

Come si evince dalla titolazione di questa terza competenza e, naturalmente ancora di più, dallo sviluppo esplicativo, si tratta di un processo di competenze, strettamente legate fa loro (come tutte le altre competenze,del resto) a definire un unicum che potremmo definire: mentalità scientifica in grado di verificare scientificamente l’esistente, i portati dell’esistente. Siamo, cioè, a livello filosofico. Ad alto livello filosofico.

     Basta soffermarsi a leggere la definizione A

”La competenza matematica è l’abilità di sviluppare ed applicare il pensiero matematico per risolvere una serie di problemi in situazioni quotidiane. Partendo da una solida padronanza delle competenze aritmetico-matematiche, l’accento è posto sugli aspetti del processo e dell’attività oltre che su quelli della conoscenza. La competenza matematica comporta, in misura variabile, la capacità e  la disponibilità a usare modelli matematici di pensiero (pensiero logico e spaziale) e di presentazione (formule, modelli, costrutti, grafici, carte)”.

     In questi giorni presiedo una commissione di liceo scientifico per gli esami di Stato conclusivi e queste parole vorrei vederle realizzarsi nelle prove scritte ed orali. La commissaria che interroga si sforza, effettivamente, di riportare il colloquio a livelli di pensiero. Lo studente, quasi sempre, per non dire sempre, riduce tutto al ricordo e all’applicazione di formule imparate a memoria di cui non conosce né l’origine, né la storia, né la motivazione. Le usa come si usano tutte le regole a scuola: da quelle morfosintattiche a quella chimiche, da quelle fisiche a quelle, appunto, matematiche. Tutto diventa un rito della memoria. Non del pensiero.

     Per cui suona ancora più astratta per noi e per i nostri studenti la definizione B

”La competenza in campo scientifico si riferisce alla capacità e alla disponibilità a usar l’insieme delle conoscenze e delle metodologie possedute per spiegare il mondo che ci circonda sapendo identificare le problematiche e traendo le conclusioni che siano basate su fatti comprovati.”

      Non un briciolo di riflessione sulla storia della scienza. A fianco della commissaria di Matematica e Fisica, la commissaria di Storia e Filosofia potrebbe/dovrebbe intervenire e chiedere il perché delle definizioni, il significato stesso dell’aggettivo scientifico.

      La storia della scienza che inizia per noi con i filosofi-matematici presocratici e arriva ai nostri giorni (ignorati nella Scuola che si ferma alla matematica dei primi ‘800 e alla fisica dei primi ‘900!) in una sequenza di affermazioni e negazioni che nascono da esperienze in progresso che si smentiscono o si confermano a livello laboratoriale secondo i mezzi a disposizione.

      Ecco: la parola disponibilità è ripetuta due volte e sta proprio a significare questa necessità da parte dei docenti e dei discenti di essere disponibili ai processi scientifici di verifica: sempre e solo laboratoriali.

      Avviene nelle nostre scuole?

      Non c’è bisogno di molto per realizzare un laboratorio di aritmetica e di matematica.    

     Ma quante volte i docenti scambiamo le quintalate di esercizi per laboratorio?

     Se poi andate a rileggervi l’Asse Matematico nel Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, credo che lo sconforto ( e l’imbarazzo) crescerà, invece di diminuire.

       Stiamo, stanno chiedendo alla nostra Scuola un qualcosa che, almeno per ora, è fuori dalla portata quotidiana di tanti, di troppi studenti e docenti.

 

Quarta competenza chiave: competenza digitale

     ”La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) … essa è supportata da abilità di base nelle TIC: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.”

     Sembrerebbe tutto naturale, tutto scontato: quasi facile. Così ovvio e così facile che questa quarta competenza chiave sarei tentato di saltarla.

     Ma non è così e lo scrivo con l’esperienza di decenni scolastici dedicati alla comunicazione globale, negli ulti anni compresa nel progetto ministeriale (di cui sono coordinatore e responsabile) “Didattica della comunicazione didattica”. Non c’è dubbio che la navigazione in Internet, e l’uso quotidiano che tanti adolescenti ne fanno,  metta in crisi il sistema tradizionale della comunicazione didattica, ma anche quello delle comunicazione domestica e di tutto il sistema relazionale. Penso a facebook e di lì e da lì a tutte quelle forme digitali e virtuali (compresa la TV interattiva) che sono oggi il sistema della comunicazione facile a portata di mano di tutti coloro che possiedano un PC e siano in rete. Non sono tutti i cittadini della Repubblica, ma sono sicuramente tanti.

      Lo stato relazione digitale e virtuale si pone come elemento reale di separazione nei processi relazionali di ieri, ma anche in quelli di oggi e penetra, quindi, profondamente in ogni realtà comunitaria: dalla famiglia alla scuola e ad ogni altra forma esistenziale comunitaria.

      Pertanto è questa una realtà esistenziale che va affrontata con grande attenzione e certamente non abbandonata a se stessa come sta avvenendo da troppo tempo.

      La Scuola deve essere presenza attiva e propositiva per recuperare e salvaguardare lo spessore umano della comunicazione: la voce, il volto, il gesto, l’odore dell’altro con cui stai relazionando.

      Ma c’è una seconda riflessione che desidero proporre, permettendomi di invitarvi a leggere quanto abbiamo scritto negli atti del sesto seminario nazionale del novembre 2008 (Quaderno MIUR n. 8 presente in tutte le scuole italiane): la società dell’informazione non trasmette solo in virtuale e le tecnologie sono varie: cinema, televisione, teatro, musica, arte, gesto, parola.

      Lo schermo del PC, per quanto grande,  non potrà mai provocare i processi diegetici del grande schermo cinematografico: né tanto mano potrà produrre il “rumore di fondo” della recita sul palcoscenico e la televisione non sarà a sua volta né cinema, né teatro,  ed uno spettacolo musicale al vivo non sarà mai riproducibile né nei CD o al PC o in televisione.

      Pensare che il virtuale del PC e della televisione soddisfino tutti e per intero i processi comunicativi è ridurre alla puntina da disegno la complessità delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

      Non parlo dei cellulari e loro svariate funzioni, perché la riduzione in questo caso è lillipuziana.

      Da queste due riflessioni derivo questa prima e provvisoria osservazione: la complessità delle articolazioni del sistema comunicativo non può ridursi, ma nemmeno può restare a come era prima di Internet e della televisione; per cui è compito della scuola intervenire sistematicamente e con chiarezza, partendo da quanto prescrive il Primo Asse “Linguaggi” del D.M. 22 agosto 2008 n. 139 che indica e prescrive le competenze, conoscenze e abilità da certificare alla fine dell’obbligo scolastico.

      Sollevo con questa citazione un problema grave che stiamo affrontando nella commissione Cipollone-Nardiello che ha il compito di predisporre le schede di certificazione: argomento su cui tornerò dopo aver concluso la riflessione sulle otto competenze chiave e su questa quarta competenza, troppo complessa e troppo “abbandonata a se stessa” .

 Mi preme ritornare ancora una volta sulla quarta competenza chiave, perché sul linguaggio digitale e sulle competenze annesse e connesse mi sembra non ci sia sempre sufficiente chiarezza: sia da parte degli studenti ( e famiglie), sia da parte dei docenti e dei dirigenti.

     Non pretendo di offrire soluzioni o dare risposte esaurienti. La verità, per me, è solo e sempre verificabilità e non è la sola ragione la forza motrice della mente: anche l’emozione è forza motrice e quindi …

     Mi pongo e vi pongo delle domande che non credo possano avere, almeno oggi, delle risposte certe e percorribili.

     Anzi, credo pongano a loro volta altre domande. Ognuno di noi dovrà porsi nuove domande di fronte all’attuale situazione della comunicazione digitale.

     Volevo scrivere: civiltà digitale. Però scrivendo civiltà, mi emoziono e penso alla nostra storia civile bimillenaria che parte da Socrate, si confronta con gli scrittori biblisti (Antico e Nuovo), e poi con gli estensori del Corano e via incrociandosi in quell’intrico di emergenze, contingenze, confronti e conflitti che costituiscono e sono la nostra civiltà mediterranea.

     Ecco le mie domande:

     E allora è facile, scontata la prima domanda: quanti sono stati e sono i linguaggi della comunicazione?

       Mai uno solo; sempre multipli, complessi, compositi.

      La raccolta dei vari linguaggi è, però, come un vocabolario: un  luogo dove sono messi insieme, vicini o prossimi, tutti i linguaggi, da quelli verbali a quelli non verbali. Ma tutti sono  testi di riferimento ( e relativi contesti) e tutti vanno oltre la memoria: il linguaggio silenzioso ma parlante e comunicante della memoria, per il quale pensiero e comunicazione sono un unicum, un il y a.

      Esiste prima un linguaggio (una lingua) o esiste prima e contemporaneamente lo strumento filosofico per destrutturarlo ed usarlo in maniere analitica e compositiva (per minutaglie, per grammi, e per unioni, sintesi, sintassi)?

       Quali sono le declinazioni dei linguaggi?

       Quali sono le coniugazioni dei linguaggi?

       Qual è la grammatica dei linguaggi?

       Qual è la sintassi dei linguaggi?

       È necessaria una grammatica dei linguaggi?

       È necessaria una sintassi dei linguaggi?

      Possediamo la grammatica e la sintassi del teatro, del cinema, della televisione; anche della danza e della musica: da Aristotele ad oggi.

     Possiamo affermare che possediamo una grammatica ed una sintassi della comunicazione mediale?

     Possediamo i principi della grammatica e della sintassi del linguaggio digitale?

      Il linguaggio digitale non è forse come una lingua sconosciuta,  di cui conosciamo vocaboli, principi generali di sintassi e di grammatica, ma non siamo in grado di comporlo

 ( e quindi conoscerlo realmente) se non per analogie.

    Con il linguaggio digitale procediamo per composizioni e ricomposizioni per analogia con il linguaggio analogico generale: con il linguaggio alfabetico o con quello alfanumerico.

     Sappiamo benissimo qual è il processo compositivo a base di 01: ne conosciamo la variabilità compositiva fino a predefinire le future composizioni digitali, come avviene per una lingua?

     Qual è lo spazio filosofico del linguaggio digitale?

     Qual è il suo spessore esistenziale.

     Aggiungo: quale la sua durata sentimentale ed emozionale?

     Posso parlare di filosofia del linguaggio digitale come posso parlare di filosofia della lingua?

 

Quinta competenza chiave: imparare ad imparare

     “Imparare ad imparare” è il titolo della quinta competenza chiave. Così recita il testo:

” imparare ad imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni sia a livello individuale che di gruppo” con “la consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni.

     Si potrebbe riassumere il tutto ricordando i processi di metacognizione che si attivano progressivamente nel cervello degli esseri umani (e non solo umani, visto  quello che imparano ad imparare anche certi animali) e scrivere quella frase topica che sentiamo ogni giorno: niente di nuovo sotto il sole!

      Ma veniamo alla giornata scolastica: ad una lezione standard e seguente interrogazione o verifica scritta.

     Cosa chiedono solitamente i professori. O meglio: tanti professori (anche all’università; sarei tentato di scrivere: soprattutto all’università)? Chiedono e controllano e verificano e valutano che lo studente ripeta il più possibilmente ricordando ed adeguandosi a  ciò che loro hanno spiegato, dettato, fatto prendere in appunti.

      Si abitua così ad imparare ad imparare?

     Così si abitua a ripetere. Cioè a non imparare ad imparare.

      Un tempo i nostri insegnanti ci facevano usare moltissimo la memoria: a memoria interi brani dell’Iliade, dell’Odissea, poi della Divina Commedia (io ho imparato a memoria il primo canto dell’Orlando Furioso) e, per chi faceva il Classico, brani in lingua dai classici.    

     Serviva per imparare ad imparare?

     Nostalgicamente, quando voglio sorprendere qualche studente del mio liceo, cito tranquillamente spezzoni di poeti, prosatori in Greco o in Latino: mi sono rimasti nella mente con singolare freschezza. Ma domando ancora: mi sono serviti per imparare ad imparare? O mi sono servite le trenta lezioni di un corso monografico tenuto nell’a.a. 64/65 dal prof. Pietro Ferrarino su un solo verso del VII sec. a.C.: Religentem esse oportet religiosus nefas? Il professore scompose infinite volte e in infiniti modi questo verso saturnio, derivandone e ricavandone decine e decine di domande senza risposta o domande che originavano altre domande.

       Da quelle lezioni ho imparato un metodo che ho poi applicato durante tutti i miei anni di insegnamento: non fare domande agli studenti su quello che avevamo spiegato, discusso, studiato, ma chiedere loro di farmi domande o di proporle ai loro compagni.  Queste sono state le mie interrogazioni.

      Credo, infatti, che imparare ad imparare significhi proprio imparare a fare e a porsi domande, affinché la conoscenza acquisita si metacognitivizzi, divenga abilità e competenza per conoscenze nuove e competenze e abilità nuove in un processo senza fine, dove la memoria serve come strumento (fondamentale), non come fine,  e l’emozione diviene uno stimolo intellettuale forte, che genera nuove intuizioni, nuovi bisogni, nuove esigenze, nuove domande, perché non è solo la ragione a guidare la mente.

      Ecco, anche questa questione dell’emozione nell’insegnamento-apprendimento mi sembra che troppe volte sia assente nei nostri processi educativi-comunicativi-didattici.

       Io credo che senza l’emozione dello stupore e della meraviglia di fronte al nuovo che  riusciamo a presentare ai nostri adolescenti, non ci siano né crescita, né nuove conoscenze, ma solo stanche, sempre più stanche ed inutili ripetizioni.

     L’esempio più drammatico, a mio avviso, è dato dai curricoli per l’insegnamento della matematica e della fisica: si fermano, quando va bene, alle soglie del XX secolo. E noi e i nostri studenti non brilliamo in queste discipline: è un caso?

 

Sesta competenza chiave:”Competenze sociali e civiche”

Ognuno vede che siamo di fronte all’universo civile, sociale, culturale e politico dell’educazione e quindi della scuola

     Non potrò  quindi accontentarmi di un solo articolo e mi perdonerà l’amico Luciano Corradini che è l’autore del “Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione”, presentato dal ministro Gelmini il 4 marzo scorso, se non inizio la mia riflessione da questo documento, nato da una commissione, ma sofferto  soprattutto da Corradini, che, a mio avviso, rappresenta oggi, nel contesto complesso della cultura scolastico-pedagogica italiana uno dei pochi punti di certezza e di qualità. A quel documento mi rifarò dopo una prima riflessione generale, invitando i miei pochi lettori a leggerlo, se ancora non lo avessero letto.

      Inizio questa prima riflessione riportando la definizione della sesta competenza: ”Queste – scl. competenze sociali e civiche – includono competenze personali, interpersonali e interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di  partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate, come anche a risolvere i conflitti ove ciò sia necessario. La competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture sociopolitici e all’impegno a una partecipazione attiva democratica”.

      Mi commuovo tutte le volte che leggo questa definizione, perché mi sembra sia il più chiaro ed efficace commento dei Principi fondamentali e della Parte I della nostra Carta Costituzionale, così ignorati, e così raramente insegnati nelle aule delle nostre scuole e nella Scuola in generale, che trae il suo motivo d’essere proprio da questa Carta Costituzionale.

     Nella mia ormai lunga vita scolastica non ho ricordi un un maestro o di un professore che mi abbiano  mai detto o letto un articolo d ella nostra  Costituzione, anche quando, dopo il D.P.R. 13 giugno 1958 n. 585 (ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro) l’Educazione Civica sarebbe dovuta essere materia di insegnamento.

      Nell’anno scolastico 1958/59 frequentavo la quarta ginnasio. Il libro di Educazione Civica ce lo fecero adottare. Credo di possederlo ancora: intatto, perché nessuno, né in quell’anno né nel seguente, ce lo fece aprire.

      Parlare della Costituzione alla fine degli anni ’50, così vicini ancora agli anni  difficili del primo dopoguerra? Scherziamo? A scuola non si deve far politica.

     Anche negli anni del liceo che seguirono, mai una volta il nostro professore di storia e filosofia ci parlò della carta costituzionale.

     Del muro di Berlino: di questo sì. Ricordo una lunga lezione sul pericolo comunista: erano i primi giorni di scuola in seconda liceo, autunno 1961. Ho tenuto gli appunti di quella lezione straordinaria – cioè fuori programma e non se ne parlò più per il resto dell’anno –:  Inizia con  il ricordo della rivoluzione di Budapest del 1956 e prosegue enumerando le terribili malefatte del comunismo, dell’Unione Sovietica, del pericolo della libertà che incombeva su tutta l’Europa. Della nostra salvezza che ci veniva dagli Stati Uniti d’America e dalla nostra storia risorgimentale. Nemmeno una parola sulla Resistenza e sul frutto più grande e duraturo della Resistenza: la Carta Costituzionale.

     Parto da questo ricordo per cercare di capire il vero  senso del Documento di indirizzo dell’amico Corradini.

    Proseguo nella riflessione sulla sesta competenza chiave (Competenze  sociali e civiche), riferendomi in modo particolare al Documento di indirizzo di cui dicevo nell’altro intervento, ma riprendendo anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (12 dicembre 2000) e la Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione(30 aprile 2007).

      Il Documento di indirizzo si compone di due parti: una Premessa (diciannove pagine) e Nuclei tematici e obiettivi di apprendimento relativi a Cittadinanza e Costituzione (sette pagine).

     Questa seconda parte mi interessa poco, anche se, ad un primo sguardo, sembrerebbe quella più importante, perché individua gli obiettivi di apprendimento per i vari ordini di scuola e detta le linee guida e le problematiche che dovrebbero costituire la nuova disciplina Cittadinanza e Costituzione. Poi però, dopo la conferenza stampa del 4 marzo scorso in cui il ministro Gelmini ha presentato il tutto, vieni a sapere che questa nuova disciplina dovrebbe essere insegnata all’interno di altre discipline (Storia, Geografia, Diritto ed Economia) e che diviene così una delle tante educazioni (ambientale, stradale, volontariato).

     Allora, dico la verità, mi sono venuti i brividi, perché all’istante mi è tornata alla mente l’estate 1994, ministro della pubblica Istruzione Francesco D’Onofrio, con quella decina di educazioni (compresa quella delle buone maniere a tavola) che si sarebbero dovute insegnare a scuola. I brividi perché ho avuto la netta sensazione  che tutta la seconda parte naufragherà nel vuoto di quello che è stata Educazione Civica dal 1958 ad oggi.

      Allora sarebbe meglio essere chiari e ripetere che Cittadinanza e Costituzione non si insegna, si vive attraverso un’attiva partecipazione da parte di tutte le componenti scolastiche, secondo i vari ordini, gradi, funzioni e competenze, nella vita quotidiana della scuola, valorizzando tutti gli organismi di rappresentanza e collegiali oggi esistenti, e, magari, riformando quelli che, passati gli anni dell’entusiasmo Decreti Delegati, si sono rivelati se non inutili, certo poco utili (a volte, poco seri): a partire dal collegio docenti e consiglio di istituto.

     Però io continuo a credere che nelle scuole della Repubblica dovrebbe trovare posto, in vario modo e con diversità di intensità e di tempi, un insegnamento che dovrebbe proprio essere quel Cittadinanza e Costituzione come viene molto bene illustrato nella Premessa, da cui trarrò alcuni spunti, perché credo che la scuola sia oggi, meglio, rimanga  oggi l’ultima spiaggia per la salvezza di alcuni valori civili e sociali che sembrano perdersi nel vuoto della retorica assembleare o nelle liti continue che caratterizzano da troppi anni i confronti e i dibattiti su qualsiasi tema. Basti pensare a certe , a tante, troppe trasmissioni televisive in cui sembra si insegni che solo urlando, litigando, insultandosi, sovrapponendosi si sia qualcuno,  si valga qualcosa, si possa avere una ragione di cui non si capisce più nemmeno la consistenza.   

      Dimostrazioni queste di incompetenza civica e sociale, gravissima, perché ostentata come forza, preziosa forza che piace e che sarebbe voluta dalla maggioranza della popolazione.

     Per questo, dunque, tornerò sulle riflessioni della prima parte, che raccolgono un sapere civile che va non solo conservato e preservato, ma diffuso con coraggio, costanza, pazienza, ma anche con la stessa vivacità con cui altri presentano la loro incompetenza civile e sociale.

     Proseguo nelle riflessioni sulla sesta competenza chiave, riportando alcuni pensieri chiaramente espressi nella prima parte del Documento di indirizzo, partendo dalla conclusione:”La Costituzione diventa in tal modo non solo il documento fondativo della democrazia del nostro Paese, ma anche una “mappa valoriale” utile alla costruzione della propria identità personale, locale, nazionale ed umana: e fornisce chiarezza di idee e di motivazioni utili ad esercitare la cittadinanza attiva, anche in termini di impegno personale nel volontariato”(p.17).

     Questa indicazione di lettura,  di conoscenza e di applicazione della nostra Costituzione, la affianco ad un altro pensiero, espresso nel Documento di indirizzo dopo aver citata la Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione (30 aprile 2007), che raccoglie a sua volta le riflessioni sulla cittadinanza,  quale intreccio di relazioni fra il singolo e gli altri:”In tal senso, la scuola deve essere intesa quale comunità educante all’interno della quale gli studenti e le studentesse – soggetti centrali dell’educazione e del’istruzione – hanno l’opportunità di crescere sul piano umano e culturale, e quale istituzione che persegue l’obiettivo di formare cittadini e cittadine solidali e responsabili; aperti alle altre culture e pronti ad esprimere sentimenti, emozioni e attese nel rispetto di se stessi e degli altri; capaci di gestire conflittualità e incertezze e di operare scelte ed assumere decisioni autonome agendo responsabilmente”(pp.14-15).

     Non ho voluto parafrasare, perché questi pensieri sono così chiaramente esposti  e sono così incisivi nella loro chiarezza, che ho ritenuto opportuno ognuno possa rileggerli in integrale.

      Ad essi desidero aggiungere alcune mie riflessioni che derivano dall’esperienza quotidiana nel liceo che dirigo.

     In queste settimane, otto miei studenti (sette studentesse ed uno studente) accompagnati da una professoressa, hanno partecipato alla missione in Israele e Palestina del progetto Il tempo delle nostre responsabilità, e due di loro sono entrati a Gaza.

     L’esperienza è stata vissuta da altre centinaia di loro compagni per mezzo di due collegamenti in video-skype, e, per Gaza, in audio: da quell’esperienza durata dal 10 al 17 ottobre, quegli otto studenti hanno cambiato la loro visione del mondo, della giustizia, della democrazia, dell’eguaglianza, della pace. La loro visione del mondo.

     Torneranno in Palestina quest’estate ed abbiamo già preso accordi con alcune scuole locali per scambi, confronti, incontri e attività comuni.

      Perché riporto tutto questo?

     Perché fa parte del nostro Patto educativo di corresposabilità vivere azioni quotidiane di pace e fa parte intima e profonda della nostra Carta costituzionale vivere azioni quotidiane di pace.

      Se non lo facciamo nella quotidianità della vita scolastica, nelle scuole di ogni ordine e grado, dove troveremo il tempo e il modo di farlo?

     Dove, come, quando inizieremo quel difficile quanto meraviglioso cammino di comunità educante, autoeducante coeducante che è la comunità scolastica,  una realtà  fatta di adulti, fanciulli, adolescenti, giovani che vivono insieme l’esperienza dell’incontro con l’altro?

 

Settima competenza chiave: Senso di iniziativa e di imprenditorialità

Questo senso concerne “la capacità di una persona di tradurre le idee in azione. In ciò rientrano la creatività, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come anche la capacità di pianificare e di gestire progetti per raggiungere obiettivi”.

      Scelgo questa indicazione perché mi sembra possa aiutarci a capire questa settima competenza chiave che, quando la presentai al mio collegio docenti, suscitò perplessità, imbarazzo e una certa diffusa diffidenza. Si disse: ecco, questo è l’ultimo passo, dopodiché la scuola diventa un’azienda … o una fondazione con carattere di azienda.

     Invece credo non sia così e che questa settima competenza vada meditata non con ostilità, sia per evitarne le forme aziendalistiche e/o professionalizzanti prima del tempo, sia anche per coglierne gli aspetti a mio avviso chiaramente positivi.

       Infatti, se nello studio e nella vita della scuola, di ogni scuola di ogni ordine e grado, mancano creatività, innovazione, assunzione di rischi, tutto diventa noioso ed inutile, ripetitivo e decisamente non educante. Tradurre un brano, affrontare un problema di matematica o di fisica, impegnarsi in una ricerca storica o letteraria, affrontare un testo filosofico; per i più piccoli: affrontare la nuova dimensione di vita di gruppo, vita di classe, tutto questo non prevede iniziativa e non si configura come una vera e propria impresa?  

Con le dimensioni e i tempi della fanciullezza e dell’adolescenza: quei tempi e quelle dimensioni che permetteranno di configurare sempre i valori di quest’impresa con i valori fondamentali di “Cittadinanza e Costituzione” per rinviare a quel progetto che tanto mi sta a cuore ( e sta a cuore a tanti) e che invece sembra non trovare spazio utile ed adeguato negli attuali schemi di riforma.

     Il vero problema è un altro: come si potrà trovare spazio di impresa, di creatività, di innovazione in una scuola cui sta per essere tolto anche l’ultimo spazio di autonomia?

     Leggete il D.P.R 30 marzo 1999 n. 275, il Regolamento per l’autonomia, e vedrete quante volte si parla e ci si riferisce a qualcosa che è molto simile a questa settima competenza chiave.

     Quel D.P.R. da qualche anno è lettera morta o quasi: abolito dal 2002 l’organico funzionale di istituto che era stato sperimentato in 350 scuole ed aveva permesso di giocare il rischio della progettazione nella composizione delle cattedre e quindi nella realizzazione dei curricoli; ridotti a quasi zero gli spazi di flessibilità e duttilità nell’organizzazione della vita scolastica, sia per la rigidità delle attuali cattedre che per il numero sempre più pesante di studenti per classe. E di conseguenza alla rigidità delle cattedre, ridotti anche i finanziamenti del fondo di istituto che dipendono dal numero di docenti nell’organico di diritto.

     Riflessione finale, amara: senza autonomia questa settima competenza chiave è affidata solo alla creatività di singoli  dirigenti e docenti coraggiosi.  

     Consolante, ma forse un po’ troppo poco.

 

Ottava competenza chiave “Consapevolezza ed espressione culturali”

Anche per questa ottava competenza partiamo dalla definizione “Consapevolezza dell’importanza dell’espressione creativa di idee, esperienze ed emozioni in un’ampia varietà di mezzi di comunicazione, compresi la musica, le arti dello spettacolo, la letteratura e le arti visive”.

La seconda parte del testo potrebbe così riassumersi: noi e il mondo-cultura che ci circonda. Così intendendo le conoscenze, le abilità e le competenze che permettono a tutti i cittadini dell’Unione di conoscere le proprie radici culturali ed artistiche espresse e comunicate con tutti i mezzi e di conoscere le radici e i fenomeni culturali ed artistici di tutti i popoli e rispettarli.

Viene subito da pensare a quelli che tanti docenti ancora si ostinano a chiamare “programmi ministeriali” ignorando che ogni istituzione scolastica si dota dei suoi curricoli che dovranno corrispondere alle linee e agli obiettivi ministeriali nazionali: sono in grado di insegnare il gusto dell’evento artistico e culturale nella sua complessità territoriale, nazionale e internazionale? Quanto nazionalismo nei nostri programmi di letteratura italiana che ignorano i livelli decisamente superiori delle altre letterature, soprattutto quando arriviamo ai secoli e agli autori dal XVII secolo ad oggi. Sempre che della letteratura e dell’arte di oggi si parli nelle nostre scuole.

I nostri studenti si diplomano senza conoscere nulla o quasi (anche se, per fortuna, qualcosa hanno imparato studiando le lingue e le letterature straniere: ma erano più impegnati sugli aspetti linguistici che su quelli artistici!) di grandi mondiali come Stendhal o Rimbaud e Baudelaire, Dostoeyskij e Tolstoj, per non parlare di Shakespeare o Calderon de la Barca e chi legge Cervantes e chi Lopez de Vega?

Per venire al XX secolo, quanta parte della grande letteratura sudamericna è giunta nelle nostre scuole? E tutte le grandi opere delle letterature storiche cinesi, giapponesi, indiane? E del mondo culturale arabo, cosa conoscono i nostri studenti?

In altri termini: come si potrebbero orientare nel panorama mondiale del nostro granello di sabbia che è la Terra?

Bisogna scegliere. Certo. Allora proviamo a lasciar stare Manzoni, decisamente in ritardo su tutto il romanzo ottocentesco (il suo compito storico è stato disperso ed è la televisione che fa la lingua comune degli italiani, non più l’autore dei Promessi sposi) e proviamo a far studiare – se non è possibile nella lingua originaria, in buone traduzioni – un grande romanzo come Il rosso e il nero di Stendhal. Sicuramente avrete letto I fratelli Karamazov: un testo che ingloba in sé tutta la storia della nascita della cultura del XX secolo con le sue crisi, le sue paure, le sue speranze deluse, ma anche le sue impossibili glorie. Un capolavoro in assoluto che ogni giovane dovrebbe aver letto e studiato, come leggono e studiano a scuola I promessi sposi di cui non riesco più a cogliere il succo della contemporaneità e della profezia come colgo ne I Fratelli Karamazov.

      Sono solo esempi, perché bisognerebbe parlare della pittura, della scultura, dell’architettura, del teatro, del cinema, della televisione, della musica, della danza, di tutto ciò che è e fa cultura del nostro secolo e che entra così poco nella nostra scuola, ancorata ai modelli stereotipati di una lettura ipercodificata che li rendono noiosi anche quando sono immensi come Dante, Boccaccio, Ariosto o Leopardi.

Se penso che ci sono ancora docenti che fanno studiare Carducci con il suo “grosso mister dell’universo”: sì, è scritto proprio “grosso”  il mistero dell’universo, come una bella grossa …!

Non è l’ultima questa  ottava competenza, perché parlamento e consiglio europeo ne hanno aggiunta una nona: alfabetizzazione multimediale, di cui parleremo la prossima volta a conclusione  di queste riflessioni sulle Raccomandazioni della Strategia di Lisbona.

 

Conclusioni

Vorrei  iniziare a concludere queste mie considerazioni e riflessioni sulla Strategia di Lisbona (ricordando, però, che la questione rimane aperta e costantemente in fieri) riportando i punti salienti del documento approvato a Strasburgo il 16 dicembre 2008: ”Alfabetizzazione mediatica nell’ambiente digitale”. È però necessaria una premessa di metodo (e di interpretazione) sui testi approvati dal Parlamento europeo.

Nei titoli della risoluzione si parla di “ambiente digitale” e di “alfabetizzazione mediatica”; mentre nel  testo (ed una parte la riporterò) si distingue fra “una educazione ai media” e un “utilizzo della TIC nell’insegnamento”.

Questa distinzione,che mi trova del tutto concorde (spero ricorderete le mie riflessioni sul linguaggio digitale nei due articoli sulla quarta competenza chiave), va sempre tenuta presente,  perché ci rimanda ad un dibattito e ad un confronto che dura da una decina d’anni, almeno da noi, dall’ultimo confronto avvenuto nell’allora commissione Berlinguer-De Mauro (aprile 2001) fra coloro che intendevano risolvere la “nuova” comunicazione nelle TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) e coloro (io ero tra questi) che sostenevano e sostengono che le TIC non risolvono e non possono risolvere tutta la complessità della comunicazione umana: nella storia di ieri (è lapalissiano), ma anche in quella di oggi e di domani. Se non altro perché l’essere umano non è virtuale, ma fatto di carne-ossa-intelligenza e, speriamo, un’anima: si muove, respira, tocca, parla, immagina e vede, danza, odora, mangia, cresce. Nasce, vive,  muore. Tutte banalità che vengono dimenticate quando si entra nel virtuale, una second life che tende ad annullare l’unica vera vita: quella che pesa sulla crosta della Terra.

Partirei proprio da queste riflessioni prima di entrare nel merito delle risoluzione del Parlamento europeo del 16 dicembre 2008, cui altre ne sono seguite sullo stesso argomento: dalla Raccomandazione della Commissione del 20 agosto 2009 alle Conclusioni del Consiglio europeo del 27 novembre 2009.

La questione è divenuta un problema centrale nelle riflessioni della Commissione delle comunità europee, perché i processi di comunicazione digitale sono percorsi di pratica quotidiana che copre e assolve parti sempre più significative della vita dei cittadini europei ( e del Pianeta) dalla più tenera età alla più avanzata.

Senza tregua.

Senza spazi di attesa, perché le innovazioni prevengono le stesse attese, anche le più incredibili.

È inutile fare esempi su argomenti che tutti noi conosciamo per innovazioni di cui quotidianmente ci avvaliamo.

A volte mi sembra di essere come trascinato da una deriva. Anzi: da uno tsunami che tutto travolge, tutto distrugge con la sua potenza misteriosa.

C’è del mistero, infatti, in questi cicloni innovativi che sembrano risolvere tutto, lasciando tutto sepolto nella marea invadente delle novità.

Una dietro l’altra.

Giorno dietro giorno.

E ci guardiamo negli occhi, noi della generazioni cartacea per chiederci se ci siamo ancora e chiedere alle generazioni digitali se ci sono ancora, perché il virtuale di cui si nutrono dipende da un po’ o un tanto  di corrente elettrica: un fremito che se scompare, fa scomparire tutto.

Mai successo?

Se lo chiedono?

Ce lo chiediamo?

È saggio, è umano affidare tutta la nostra comunicazione, cioè la nostra storia di umani sulla crosta di un granello di sabbia che viaggia nel vuoto, ad un fremito di elettroni?

 

     Aggiungo una postilla alle riflessioni precedenti (poi rifletteremo sulla nona competenza chiave: alfabetizzazione digitale) che sono nate da un evento “banale” capitato al mio liceo in questi giorni: interruzione della corrente elettrica per 24 ore e quindi … tutti a casa perché a scuola c’era  niente da fare, oltre al fatto che senza riscaldamento sarebbe stata dura.

     Il titolo della postilla potrebbe essere questo: la Torre di Babele.

     Il racconto di epoca ellenistica rivela una situazione non differente dalla nostra: fine dei grandi imperi e progressiva frantumazione culturale, in presenza di una avanzata società tecnologica (come diremmo oggi), sia per quanto riguarda le potenzialità e le abilità ingegneristiche generali, che per quanto riguarda gli avanzamenti nelle ricerche e negli studi scientifici e filosofici. Ed una lingua comune.

 Un’epoca, quindi, non molto dissimile dalla nostra.

Oppure si può pensare che il nostro “progresso” sia andato tanto più in là ed abbia anche solo scalfito o mutato i peripli celesti?

      Anche  per quest’epoca, dunque, in cui nel bacino orientale del Mediterraneo si affaccia per la prima volta la possibilità di una lingua comune (la koiné  ellenica) dopo l’effimero impero di Alessandro e di una sostanziale cultura comune - a livello alto, naturalmente: letterario, filosofico, artistico, ma anche commerciale -  potremmo pensare ad un mondo di “magnifiche sorti e progressive”.

    Eppure, riprendendo in mano antichi racconti popolari, a qualcuno vengono i brividi e descrive quanto è scritto nel racconto della Torre di Babele.

     Cioè, nel punto massimo di sviluppo tecnologico tutto affidato alle capacità degli uomini, di alcuni uomini,  il processo viene dissolto, disperso. Come quando c’era stato il diluvio universale. Come quando una città come Ninive, che per attraversarla occorrevano sei giorni di cammino, scompare e la natura si riappropria dei territori che l’uomo, alcuni uomini, avevano occupato con i trionfi delle loro costruzioni.

     Ecco, la potenza del virtuale, per la quale basta un hacker a fermare il mondo e a scatenare una guerra atomica, non vi fa venire in mente la storia della Torre di Babele?

     Il virtuale è una specie di koiné. Si sono dissolti i grandi imperi territoriali (altri se ne affacciano … come allora,  il futuro impero romano). La tecnologia sembra non avere più limiti alle sue innovazioni e scoperte.

     Eppure … eppure da decenni viviamo come sull’orlo di un abisso, circondati da possibili eventi che oggi si possono chiamare al Qaeda, ieri una quotidiana minaccia nucleare e in mezzo le varianti che tutte assomigliano al finale della storia della Torre di Babele.

     Se queste dovessero essere le nostre “magnifiche sorti e progressive” non ci sarebbero grandi motivi di allegria e viene il dubbio che anche il rifugio della second life sia a cielo aperto e poco rifugio, quindi.

     Poi viene alla mente un altro pensiero: l’umanità, nella sua complessità e completezza, ha sempre vissuto sull’orlo dell’abisso senza mai cadervi. Almeno fino ad oggi, anche se, ciclicamente, c’è andata terribilmente vicina, di generazione in  generazione.

     E, allora, basterebbe non assolutizzare nulla delle sue invenzioni, cioè delle invenzioni degli uomini, di alcuni uomini, e vivere con convinzione la filosofia di vita di Diogene il cinico che, ad Alessandro che gli offriva tutto, chiese solo di farsi più in là, per non togliergli la luce del sole con la sua ombra.

 

      Prendo spunto per quest’ultima riflessione dalla “Raccomandazione della Commissione delle Comunità europee” del 20 agosto 2009” sull’alfabetizzazione mediatica nell’ambiente digitale per un’industria audiovisiva e dei contenuti più competitiva e per una società della conoscenza inclusiva”. Il titolo, e poi lo sviluppo della raccomandazione, spiegano perché dobbiamo interessarcene parlando di scuola.

     Non se ne vorranno i signori commissari (supponendo qualcuno di loro ci possa leggere) se inizio ls prima parte della riflessione affermando che questo testo – come per ora succede regolarmente quando si tratta l’argomento della comunicazione oggi – è ambiguo nella definizione degli ambiti e dei riferimenti alla comunicazione mediatica.

        Così recita il comma 13:”L’alfabetizzazione mediatica comprende tutti i media e ha lo scopo di migliorare la conoscenza delle numerose forme di messaggi mediatici che le persone incontrano nella vita quotidiana. I messaggi sono i programmi televisivi, i film, le immagini, i testi, i suoni e i siti web veicolati da diverse forme di comunicazione”.

      Al paragrafo 15 si afferma che “l’alfabetizzazione mediatica … è una competenza fondamentale…” per tutti e dovunque”…una delle condizioni indispensabili per  una cittadinanza attiva e piena e per prevenire e ridurre i rischi di esclusione dalla vita sociale”.

      Direi: splendido leggere che andare al cinema (anche a teatro), ascoltare musica, visitare mostre e viaggiare in Internet sono competenza fondamentale per una cittadinanza piena. Ma … a leggere in altri paragrafi, non credo proprio che sia questo il senso di alfabetizzazione mediatica, e, dalla definizione appena trascritta, multimediale.

     Il tutto si riduce all’ambito digitale, come chiaramente prevede il paragrafo 12 che parla di  “diffusione dei contenuti creativi digitali e la moltiplicazione delle piattaforme di distribuzione on-line”.

     Nel titolo si parla di “industria audiovisiva” con evidente riferimento agli audiovisivi (che dovrebbero essere, stando al paragrafo 13, tutti i media: altra confusione e comunque altro aggettivo da chiarire), poi si parla di alfabetizzazione mediatica che sembra ridursi ad alfabetizzazione digitale.

      Non credo sia indifferente questo passare senza scosse apparenti da audiovisivo a multimediale a digitale, arrivando rapidamente a concludere che è nel linguaggio digitale che si riassume il tutto della comunicazione che fa cittadinanza piena.

     Prima di andare oltre, vi propongo la rilettura di Fedro (275a e b) relativo all’invenzione della scrittura, perché di scrittura (digitale, nel nostro caso, ma sempre scrittura) stiamo parlando:”La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la imparano, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei,e non dal di dentro e da sémedesimi: dunque tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza non la verità: divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre … non le sapranno; e sarà ben difficile discorre con loro, perché sono diventati conoscitori di opinioni, invece che sapienti”.

     A prima impressione, una domanda impossibile: Platone conosceva già wikipedia e  Inernet in generale?

      A seconda impressione: dobbiamo riprendere le riflessioni che ho scritto negli ultimi interventi e curvarle su una civiltà della comunicazione che si sta riducendo al virtuale, con tutte le conseguenze sociali, psicologiche e psichiche, morali ed economiche che tutti conosciamo.

     Cosa può fare la scuola in questo progetto di generale second life che riassume quanto di fisico pensavamo restasse nella comunicazione-relazione fra esseri umani fatti di cervello pensante, emozionante, di sensi, di odori e di sapori.

     Riprenderemo l’argomento continuando nell’analisi della nona competenza chiave.

     Nella galassia delle comunicazioni, spesso si è gravati dall’impressione di una deriva, più simile ad uno tsunami che ad una dolce risacca.

      Tuttavia ci si deve capacitare, rendersi conto che non se ne esce e non se ne può uscire e incominciare a ripercorrere con la memoria i passaggi – di  architettura  in architettura dei processori dai primi Commodor ad oggi – che ci hanno via via, a volte inavvertitamente, introdotti nel mondo della grande ragnatela.

     Ora ci siamo dentro: che lo vogliamo o no.

     Nella storia è già accaduto altre volte: il fuoco e la cottura dei cibi, la ruota, i metalli, la scrittura, la stampa, il motore, la radio ed oggi il web digitale.

     Si può fermare la storia della comunicazione?

     Meglio viverla il più coscientemente possibile.

     Ecco perché  riprendo l’analisi della nona competenza chiave e con quest’analisi chiudo le mie  riflessioni sulla Strategia di Lisbona, confidando siano potute servire a qualche lettore.

      Ma prima un invito caloroso: non dimenticarsi mai di quello che abbiamo alle spalle, del grande patrimonio di teatro, arte, danza, musica, cinema, televisione. Non sono processi digitali, anche il digitale li può parzialmente (molto parzialmente) veicolare come ricordo (la scrittura, di cui Platone parla nel Fedro sopra ricordato), non come comunicazione. Senza i processi diegetici del grande schermo, senza l’odore e il rumore dell’impiantito del palcoscenico, senza il frusciare vario degli strumenti (che tutti fanno “rumore”), senza la stanza della televisione, senza il sapore del quadro e il respiro ventoso di una colonna corinzia,  non c’è comunicazione multimediale, ma solo la monomedialità del digitale.

      La nostra ricchezza è ricchezza di storia e per noi italiani significa un valore inestimabile, visto che possediamo il 75% dei beni artistici del Mondo e siamo gli eredi primi della grande tradizione mediterranea.

      Vogliamo perderlo?

     Contemporaneamente, però, per non essere trascinati dalla deriva tsunamica del web, dobbiamo saperci entrare con forza, creatività, un pizzico di coraggio.

     Riprendo le mie riflessioni sulla Raccomandazione partendo dal punto 5:”Il Consiglio di Lisbona ha constatato che ‘ le industrie che producono contenuti informativi creano un valore aggiunto mettendo a frutto la diversità culturale europea e veicolandola in rete’. L’agenda europea per la cultura, avviata nel 2007, istituisce un quadro strategico per affrontare le principali sfide nel settore della cultura …” il Consiglio ha evidenziato “ il contributo specifico che la cultura può dare alla creatività e all’innovazione…” per cui la Commissione europea intende “stimolare la competitività nel settore TIC e creare uno spazio unico europeo dell’informazione.”

      Di nuovo – ma senza polemica – resto stupito, amareggiato e molto preoccupato nel vedere ridurre tutto alle TIC (Tecnologie dell’informazione computerizzata).

      Equivale a pensare che basti la scrittura per trasmettere tutta la creatività della ricerca umana: teatro, musica, arte, cinema, televisione.

      Prima riflessione derivata da questa riduzione: cosa può, cosa deve fare la scuola per allargare questa riduzione senza perdere il valore aggiunto delle TIC, ricordando che non esiste informazione che non sia anche e contemporaneamente formazione, perché noi abitiamo le parole, abitiamo il linguaggio, per ricordare Gadamer.

 


La pagina
- Educazione&Scuola©