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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Una riforma "a prova di insegnanti"

di GIANCARLO CERINI (*)

 

Il bipolarismo tra "bipartisan e spoil system"

L’analisi delle politiche di riforma (o di non-riforma) può avvenire da molteplici punti di osservazione: culturali, politici, sindacali, professionali, ecc. Sceglierò quest’ultimo approccio, consapevole dei suoi limiti ma anche delle sue potenzialità, perché oggi il confronto tra le proposte in campo non può avvenire solo in termini di "politicità" classica, di schieramenti rassicuranti (progressisti vs conservatori, destra vs sinistra, ecc.). Fa riflettere che il segretario del maggior sindacato italiano abbia introdotto la categoria del "sorriso" tra i possibili strumenti vincenti nell’attuale conflitto sociale e politico.

Quando parliamo di riforme scolastiche è necessario –per tutti- mettersi in una situazione di maggior ascolto dei docenti, per interpretare un disagio che si è manifestato lungo tutti questi anni, sul versante delle innovazioni proposte, anche con il viatico di importanti concertazioni tra le grandi organizzazioni sociali. Oggi le preoccupazioni nella scuola sono molto più "urlate", ma le analisi rischiano di essere troppo sommarie. Troppo liquidatorio è apparsa il giudizio sui materiali proposti dalla Commissione Bertagna: ad esempio, si è fatta poca distinzione tra la prima stesura del documento (novembre 2001) –certamente più apodittica e "chiusa"- e la seconda versione (dicembre 2001) –molto più problematica e "aperta". Certo, siamo rimasti colpiti (nel primo documento) dalla scarsa conoscenza di alcuni aspetti importanti della scuola italiana, come quella elementare, dalla pervicace volontà di azzerarne l’impianto organizzativo degli ultimi quindici anni, dal giudizio tranciante contro la scuola di base. Quasi non abbiamo notato il ravvedimento (nel secondo documento) nei confronti degli istituti comprensivi, della cultura della continuità, corredata di qualche orginale soluzione organizzativa, come i bienni didattici.

Ha prevalso in molti un senso di "indignazione" per la sospensione di leggi di riforma legittimamente approvate dal Parlamento (è il caso della Legge 30/2000) e per la constatazione degli scarsissimi margini a disposizione per una discussione aperta e serena, che non andasse subito al di sopra delle righe.

Le riforme della scuola richiederebbero uno spazio comune, al riparo dall’esprit de revanche. E’ pur vero che viviamo al tempo del bipolarismo, ma ancora dobbiamo impararne le regole, perché oggi tutto sembra essere messo in discussione: chi vince, vince tutto; chi perde, perde tutto. Insomma, siamo ancora al problema della legittimazione reciproca ("…ma questo è un regime…ma quella è una manifestazione eversiva…").

 

Valori in gioco e oggetti concreti

Proviamo con un approccio più laico. Ad esempio, di quali proposte stiamo parlando, su quali riforme ci stiamo confrontando ? Gli oggetti stessi del contendere sembrano sfuggenti. Qual è il punto forte della ipotesi politico-culturale che sta alla base del modello di ordinamento scolastico proposto dal Governo ? Possiamo ancora riferirci alle dichiarazioni programmatiche del ministro Letizia Moratti in Parlamento, nel luglio 2001, improntate da una rassicurante ricerca di appeasement sui valori dell’eccellenza e della solidarietà ? Oppure dobbiamo analizzare il "rude" modello sociale del primo documento elaborato della Commissione Bertagna (ove si teorizza che solo alcuni cittadini –quelli destinati alla filiera "liceale"- avranno diritto a dirigere tutti gli altri, cioè quelli precocemente incanalati nella filiera "professionale" o dei "mestieri") ? Oppure prendere atto dei ripensamenti d’impatto contenuti nella seconda proposta del gruppo Bertagna, ove emerge una certa idea di "curricolo di base", ma si rinuncia al "quadriennio dell’istruzione/formazione secondaria" ? O, ancora, dovremo seguire la doppia o tripla "stesura" del testo di disegno di legge operata via via dal Consiglio dei Ministri (con la successiva apparizione di "oggetti" non concordati in precedenza, né sottoposti a consultazione, come il ricorso alla delega legislativa o il "forcing" sull’anticipo scolastico a 5 anni, poi ridimensionato dalle "eccezioni finanziarie" dell’ANCI-Associazione nazionale dei comuni d’Italia).

Forse ci potremo appassionare attorno ai grandi disegni istituzionali, alle possibili visioni del mondo, ai valori in gioco, magari incerti tra una lettura minimalista, al limite dell’irriverenza (l’unico cambiamento sarebbe un anticipo "risicato" dell’età di iscrizione alla scuola elementare, per un restyling dei cicli dai 5 anni e mezzo ai 18 anni e mezzo, o, forse, di qualche mese appena), o una preoccupazione "catastrofista", di un disegno in grado di "azzerare" i risultati democratici acquisiti nella scuola della Repubblica, con le riforme avvenute a partire dagli anni sessanta. Qualcuno può perfino temere la rottura di un modello di società democratica, perché solo il 15-20 % di allievi ben formati avrà la possibilità di decidere, di partecipare, di essere cittadino a pieno titolo, mentre il restante 80% sarà un gagliardo -ma esecutivo- consumatore; siamo però certi che la campagna informativa in grande stile promossa dal MIUR smentirà decisamente questa lettura "ideologica": le riforme si fanno, appunto, per garantire a tutti pari opportunità: "una scuola per ciascuno e per tutti", per una piena cittadinanza (un motto "bipartisan" non si nega a nessuno).

La proposta politica appare ancora imprecisa, sospesa tra la "lievità" dei grandi valori (in cui tutti si possono riconoscere: la scuola di qualità, gli insegnanti protagonisti, la modernizzazione della didattica, la centralità degli allievi, ecc.) e la "pesantezza" delle misure di gestione finanziaria ordinaria (gli organici ridimensionati, le graduatorie modificate, gli esami di maturità rivisti, la riforma dell’amministrazione sospesa…).

 

Una proposta tecnica approssimata

Si ha poi l’impressione che la proposta tecnica sia, per tanti aspetti, del tutto aleatoria e alquanto improvvisata in molti dei suoi punti qualificanti.

Prendiamo la questione dell’anticipo scolastico. Se oggi –ci dicono le fonti ufficiali- riguarda appena il 5 % della potenziale leva d’età, perché farlo diventare un "cavallo di battaglia" della riforma ? Perché suscitare un vero e proprio vespaio tra gli esperti (gli stessi membri della Commissione Bertagna l’avevano esclusa) e tra i docenti interessati ? Quando lo stesso impatto operativo del mini-anticipo di 2 mesi a partire dal settembre 2002 sembra del tutto "fuori controllo". C’è discordanza tra le cifre fornite dal Governo (nella relazione tecnica allegata al disegno di legge) e quelle messe a disposizione da fonti indipendenti, in merito agli alunni potenzialmente interessati e quindi alle classi ed agli insegnanti necessari per far fronte a questa vera e propria "onda anomala" estiva.

Lascia perplessi il conteggio effettuato in qualche ufficio studi di elevare –di colpo- di 2 unità il numero medio di alunni per ogni classe prima elementare, a fronte dell’estensione della fascia di età degli alunni che potranno essere accolti (con una escursione di ben 20 mesi, tra i 5 ed i 7 anni). Per non parlare della riapertura delle iscrizioni, del reperimento dei locali, dell’informazione/formazione per i docenti, dell’elaborazione di programmi didattici appropriati, ecc.

Perché allora si insiste sull’attuazione della legge fin dal settembre 2002, con un dibattito parlamentare appena avviato, quando per la legge 30/2000 furono necessari 3 anni di lavori parlamentari e 18 mesi per l’elaborazione del piano di attuazione (e allora si gridò all’improvvisazione !).

L’insistenza sul concetto di anticipo presenta imprevedibili riverberi anche per la scuola dell’infanzia, ove si rischia l’improvvisazione delle soluzioni pedagogiche ed organizzative, per accogliere bambini di appena due anni e 4 mesi (per i quali la ricerca e l’esperienza dei "nidi" ci invita all’estrema cautela e comunque a salvaguardare rigorosissimi standard, nella qualità degli ambienti educativi, nei rapporti numerici tra adulti e bambini, nella preparazione e disponibilità di operatori qualificati).

 

Tra liberismo "sociale" e pedagogia della "responsabilità"

Sembra emergere, anche da questi apparenti dettagli, un modello sociale o addirittura etico-valoriale di stampo liberista-familista, per i suoi insistiti richiami alla libertà di scelta dei genitori, alla scelta personalizzata dell’età di accesso a scuola, alla condanna della presunta intrusione statalista nella sfera della privacy familiare, all’idea di un tempo scolastico più corto (e, dunque, "liberato") e di migliori opportunità coltivabili al di fuori delle istituzioni scolastiche.

Dunque, una sorta di mix tra "liberismo sociale" e "pedagogia della responsabilità". Basta riflettere sulle concezioni relative alla valutazione ed ai meccanismi di selezione/promozione delle opportunità. A ciascuno secondo i meriti o i demeriti, sembra essere il nuovo (o vecchio) credo pedagogico; e nei demeriti ci sta anche il comportamento (il voto in condotta, che sembra così "gettonato" nei sondaggi d’opinione). Allora i percorsi formativi inevitabilmente si devono differenziare, perché questa è la vita "vera"; ma la scelta sta tutta sulle spalle dei ragazzi, sulla responsabilità che essi assumono verso per il proprio apprendimento. "Diventare responsabili del proprio apprendimento" è un enunciato che i migliori studiosi di apprendimento sottoscriverebbero a piene mani, ma con la precisazione che l’assunzione di questa responsabilità (che ti accompagna poi lungo tutta la vita, anzi, ti "salva" la vita) è l’esito di un percorso formativo lungo e coerente, dai tre ai diciotto anni.

La costruzione di una progressiva responsabilità nell’apprendimento implica un impegno altamente professionale della scuola, per organizzare un ambiente intenzionalmente orientato all’apprendimento. Quando e come un ragazzo diventa responsabile del proprio apprendimento ? E E qual è la responsabilità dell’adulto, in questo rapporto "asimmetrico" ? Come si compongono le due responsabilità ?

La scuola non può rinunciare ad interpretare il proprio ruolo di espansione di opportunità di formazione, di affermazione di un diritto (costituzionale) all’istruzione, ma non può limitarsi alle enunciazioni di principio.

Non nascondiamoci che il concetto di "diritto al successo formativo" è stato largamente frainteso, percepito come il venir meno del rigore della cultura, dell’impegno, della conoscenza, foriero di una scuola della sola accoglienza, della socializzazione ad oltranza, del titolo di studio garantito senza troppi sforzi. Sono stati in molti (tra gli opinion maker e tra gli insegnanti) ad interpretare le riforme degli ultimi anni con questo tipo di lettura.

 

Il buio della "descolarizzazione"

Oggi si reclama una maggiore serietà negli studi, si chiede di ripristinare il voto in condotta, di soppesare con certezza meriti e demeriti nella progressione degli studi, di sottoporre tutto il sistema di istruzione a benefiche iniezioni docimologiche. Con un registro diverso, si insiste anche sulla maggiore libertà di scelta che viene consentita dai nuovi ordinamenti scolastici (in merito all’età di accesso, al tipo di orario, ai diversi "servizi" formativi, ecc.). Il rischio è quello di una rinuncia al ruolo istituzionale della scuola, ad uno "spazio pubblico" di formazione per tutte le generazioni. Se parti consistenti della formazione sono riconsegnate alle famiglie (ai servizi del tempo libero, alle dinamiche del mercato, alle opzioni individuali) è facile pronosticare una progressiva riduzione dell’intervento pubblico (finanziamenti, organici, iniziative) nei confronti della scuola.

E’ questo timore che oggi muove tanti genitori. Gli slogan sembrano fin troppo facili ed anche un po’ datati, come il "salviamo il tempo pieno" che riecheggia in molti movimenti spontanei. Disinformazione ? Tendenziosità ? Ideologia ? Può darsi che ci siano anche questi ingredienti, ma le richieste dei genitori sono molto più mature. Non è solo una domanda di "copertura" di un servizio di tempo scuola (più che legittima, perché le norme sugli organici tendono a comprimere la domanda di tempo pieno e, comunque, a ricondurla verso le medie nazionali, mettendo in crisi proprio le realtà con forte presenza di scuole a tempo pieno: Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, ecc.). I genitori chiedono di capire se al pomeriggio l’attività didattica diventerà un optional, gestita da animatori culturali (quasi fossero attività integrative facoltative o di doposcuola) o se continuerà ad essere garantita una giornata educativa "integrata", di pari livello educativo, affidata ad insegnanti con professionalità riconosciuta (e non al popolo precario dei "collaboratori coordinati continuativi").

Sembra che i genitori siano consapevoli, più di tanti esperti, del valore di un modello pedagogico, di una visione integrata della cultura e della conoscenza, in cui i linguaggi dell’alfabeto non possono essere separati dai linguaggi dell’immagine, della multimedialità, della musica, della motricità. Ci riferiamo ad alcuni aspetti del documento della Commissione Bertagna, in cui si disconoscono i principi fondamentali della scuola elementare riformata negli anni ottanta (fino a chiedere il ripristino del maestro unico, sostanzialmente fino alla classe quarta elementare), si torna a distinguere nettamente il tempo del curricolo fondamentale (caratterizzato dall’insegnamento "frontale") da quello aggiuntivo (caratterizzato dall’idea del laboratorio). Fa piacere che anche nell’indagine commissionata dal Ministero all’ISTAT sia emersa una vigorosa tendenza dei genitori interpellati (e degli insegnanti) a salvaguardare il modello organizzativo della scuola elementare (circa il 70 % dei genitori ha risposto di preferire un modello didattico imperniato sul team docente).

 

L’innovazione e la "sua" storia

Ma, allora, come si costruisce una riforma ? Questo è il vero punto debole del metodo scelto dal Governo per riformare la scuola. Il "logo" che campeggiava agli Stati Generali del dicembre 2001 è stato per molti una ferita: quel "punto a capo" è stato percepito non tanto come "rivincita" nei confronti della politica scolastica dell’Ulivo, ma come un voler negare la storia degli ultimi 10, 20, 30 anni di impegni, di riforme, di professionalità faticosamente messa alla prova nella scuola di tutti i giorni.

"Il punto e a capo" ci parla di una scuola non vista, non ascoltata, non consultata, non rappresentata dalle Commissioni di studio (assai ristrette e unilaterali) messe al lavoro negli ultimi mesi. Ci parla di interi processi di riforma ignorati o sottovalutati, come ad esempio la ricerca in atto nelle scuole materne statali (da Ascanio ad Alice fino alla sperimentazione sugli indicatori di qualità, bloccata), la crescita degli istituti comprensivi (che avrebbero bisogno di adeguati riconoscimenti e di incentivi per la ricerca sui curricoli, gli organici funzionali, le figure di raccordo, ecc.), le domande di innovazione provenienti dalle scuole secondarie superiori (alle prese con l’obiettivo ambizioso dell’espansione dell’obbligo scolastico e formativo).

Non è facile riformare la scuola. Si può essere scambiati per utopisti e giacobini. Ricordiamo la vicenda della "scuola di base", una scuola "che non c’è" secondo il documento Bertagna, impresentabile agli insegnanti (e agli elettori), senza radici nella nostra storia, forse "buona" per la Danimarca ma non per il nostro paese. E invece la vicenda degli istituti comprensivi ci rivela, se la leggiamo con attenzione e con serenità nelle sue luci, e nelle sue ombre, una cultura favorevole -nelle comunità, tra i genitori, tra gli insegnanti- all’idea di una "formazione di base" lunga, però tutta da costruire, da sostenere, da incentivare.

Sono oltre 180.000 i docenti che lavorano negli istituti comprensivi, ma quali azioni concrete abbiamo saputo fare nei loro confronti ? Quali segnali abbiamo mandato in questi anni ? Perché, ad esempio, non abbiamo imboccato con decisione l’idea di organico funzionale proprio a partire dalle scuole verticali ? Perchè non abbiamo garantito forme incisive di consulenza, di formazione, di ricerca sui curricoli in continuità ? Perché non abbiamo semplificato le procedure amministrative e gestionali per le segreterie ?

Siamo in grado di dare voce alla voglia di protagonismo che si manifesta in questa ampia area del nostro sistema scolastico ? Non dovrebbero essere proprio gli insegnanti di queste scuole a chiarire le caratteristiche del curricolo verticale, le ipotesi di articolazione interna, i rapporti e gli intrecci tra i docenti dei diversi livelli scolastici ?

Non è oggi facile ricostruire una passione tra gli operatori della scuola (ma anche tra i genitori) verso il concetto di scuola di base. E’ necessaria una "moratoria" di quattro o cinque anni, per offrire alle scuole interessate le condizioni per una ricerca sui curricoli, per una sperimentazione sul concetto di formazione di base, lasciando molto aperte le soluzioni o le ipotesi di tipo ordinamentale, senza rinchiudersi precocemente in un modello (sia esso di sette anni, di otto, per bienni, con altre scansioni). Le diverse soluzioni dovrebbero essere mantenute come orizzonte, affidando alla ricerca delle scuole la convalida delle ipotesi. Ad esempio, "Scuola-Città Pestalozzi" di Firenze lavora sulla base di un curricolo di otto anni, scandito per bienni, con uno snodo forte tra scuola elementare e scuola media: può essere una soluzione "felice", già praticata, da conoscere. Magari il professor Bertagna ha attinto da questo laboratorio della pedagogia progressista uno dei punti innovativi del proprio documento (?!); ma forse proprio per questo motivo il Consiglio dei Ministri, o meglio, i vertici di maggioranza, hanno provveduto diligentemente a cassarlo dal disegno di legge finale (!?).

 

Disegno di legge o "ballata popolare" ?

Oggi c’è il timore di costruire ipotesi alternative; si temono le "scottature" che hanno accompagnato la tormentata vicenda della legge 30/2000. Ma l’ipotesi alternativa deve scaturire dai bisogni reali di una scuola che sta già cambiando, ricollegandosi alle grandi esperienze di innovazione degli ultimi 10-20 anni. Nella scuola elementare si tratta di recuperare il patrimonio dei programmi del 1985, la cultura dell’alfabetizzazione culturale funzionale, l’idea forte di ambiente di apprendimento, le qualità di un team docente competente ed equilibrato. Presupposti molti più fondati e vissuti di alcune improvvisazioni contenute nel progetto Bertagna (come la bizzarra idea che i saperi disciplinari si incontrino in quinta elementare e che prima la conoscenza sia tutta ripiegata su una dimensione senso-percettiva o che l’apprendimento delle discipline fondamentali debba scaturire da metodologie di insegnamento frontale).

L’apprendimento, ci avvertono i migliori studiosi, è efficace se avviene in un ambiente costruttivo, interattivo, situato, strategico: queste caratteristiche non possono essere lasciate solo ai laboratori pomeridiani per le discipline espressive. La matematica, le scienze, la lingua, la storia, gli apprendimenti fondamentali, se non vogliamo ripetere gli insuccessi di questi anni, devono vedere un profondo rinnovamento nelle metodologie, una ricerca aperta sulla qualità dei saperi curricolari, una riflessione sull’organizzazione scolastica "sostenibile". Noi per primi dovremmo contenere gli eccessi di una modularità che ha portato, nella scuola elementare, alla moltiplicazione delle presenze dei docenti nelle classi, anche iniziali del ciclo di base.

La scuola dell’infanzia e la scuola elementare hanno elaborato in questi anni un loro sapere sulla riforma (l’attenzione ai bisogni, la qualità del contesto, la competenza dei docenti) che è molto accredito anche tra i genitori e nella società civile. Perché metterlo a repentaglio con soluzioni improvvisate ?

Nessuno si innamora più di modelli scolastici frutto delle ingegnerie del momento; questo è stato il limite anche del vecchio dibattito sui cicli. Forse oggi, occorre –come dice Claudia F. maestra impertinente in rete su www.edscuola.it - una riforma a prova di maestre e maestri. Perché forse "noi siamo già la riforma; la nostra scuola è già sogno divenuto realtà, è la scuola di tutti, ma nessuno se ne è accorto". Una vera politica di riforme dovrebbe dare visibilità a questa scuola di tutti, e rendere visibili i miglioramenti nel fare scuola, per i ragazzi e gli adulti: cosa cambia – con la riforma -negli edifici, nelle aule, nei corridoi, nei bagni, nei laboratori, negli uffici, nelle classi, negli insegnanti, nelle materie, nei libri di testo ?

E’ difficile contenere una simile idea di scuola in un solo disegno di legge. E’ sempre stato difficile, lo è a maggior ragione oggi. Non è pensabile, neppure, in breve tempo, aggregare proposte, idee, suggestioni, in un disegno di legge alternativo, tanto per mettere in agenda un contenzioso "parlamentare". Un disegno di legge, oggi, dovrebbe piuttosto assomigliare ad una "ballata popolare", che si arricchisce via via mentre si parla di una certa idea di scuola con gli insegnanti, con i genitori, con la gente, per tenere accesa la speranza che "un’altra scuola è possibile", perché è quella che faticosamente siamo riusciti a costruire in questi anni.

Oggi, l’autonomia scolastica, unita ad una più forte consapevolezza "federale" dei poteri delle comunità nel costruire una scuola migliore, ci fanno intravedere uno spazio per una iniziativa politica, culturale e professionale, con sostanziosi obiettivi: la generalizzazione della scuola di base (attraverso gli istituti comprensivi) dipende ormai dalle scelte delle comunità; l’elevamento dei livelli di formazione (dai 14 ai 16 anni di istruzione) dipende dai messaggi che scuole, imprese, agenzie formative, enti locali sanno inviare ai ragazzi sul "senso" dell’andare a scuola; lo sviluppo di una scuola dell’infanzia di qualità (applicando con intelligenza la "parità" della legge 62/2000 per un governo pubblico degli standard) è nelle mani della legislazione regionale.

Ecco perché il messaggio "un'altra scuola è possibile" (nella mia scuola, nel mio territorio, nella mia regione) non è un alibi difensivo, a rischio di secessione "leggera", ma può essere un modo credibile per rilanciare la voglia di protagonismo e di iniziativa per la "scuola che vogliamo".

 

(*) L’intervento riprende un contributo dell’autore, in fase di pubblicazione sulla rivista "Proiezioni".


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