Era dura, con Berlinguer... ma quanta passione!
Lettera aperta a Walter Veltroni

di Giancarlo Cerini

 

Cari colleghi,
penso che in queste ore stiano decidendo la composizione del nuovo Governo.
Impresa quasi disperata o inutile (a seconda dei punti di vista). Ma noi della scuola, come al solito, stiamo a guardare?
Così, ho preso carta e penna, e ho deciso di scrivere al Walter Veltroni.

Giancarlo Cerini


 

Gentilissimo Walter Veltroni,

in questi giorni si decide una parte importante del futuro della nostra scuola (non è in gioco solo il piccolo cabotaggio per i prossimi 12 mesi).

Si tratta di portare avanti con decisione le prime intuizioni (autonomia, saperi, cicli, professionalità) di una diversa politica scolastica avviata in questi quattro anni dal Governo dell'Ulivo (questo era il mandato degli elettori, al di là di tutte le giravolte di comodo dei 200 deputati che hanno cambiato casacca).

Però, non è facile e non è scontato cambiare la tradizionale marginalità dei temi della formazione nella nostra società civile (un po' periferica, un po' edonista, un po' inchinata ai poteri forti). Non è facile fare questo insieme con gli 800.000 insegnanti italiani, perché le convenienze non sono immediatamente a portata di mano, perché è difficile scuotere la sfiducia di un gruppo professionale troppe volte disilluso dalle "svolte" di turno.

Poi, diciamoci la verità, è mancata spesso una buona comunicazione tra chi doveva decidere e chi doveva partecipare a queste decisioni; troppo spesso la scuola ha avuto l'impressione di scelte già altrove avvenute, magari per ragioni nobili ma difficili da comprendere; troppe volte è mancata una capacità di ascolto e di valorizzazione dell'umile (ma altrettanto nobile) lavoro quotidiano compiuto nelle scuole.

Molti nodi sono venuti contemporaneamente al pettine: debolezza degli apparati amministrativi; inesistenza (o quasi) di quelli tecnici (ma chi ci parla con gli insegnanti?); distrazione delle sedi della ricerca e dell'università verso la scuola (figlia di un dio minore?); ingessatura degli apparati sindacali e associativi (ma quali sono oggi le forme di partecipazione sociale e politica, dopo il "crollo" dei partiti?); immaturità di larga parte del ceto politico locale nei confronti di disinteressate e generose politiche di sostegno alla formazione.

Tutto questo possiamo certamente addebitare a Berlinguer ed anche di peggio; raffigurarlo con le sembianze del "somaro" (ben gli sta?); pensarlo alle prese con gli infidi consiglieri (per definizione, non sono sempre tali?); troppo attento alle sirene dei "poteri forti" (confindustria, Cei, Europa, editorialisti, ecc.); troppo proteso verso le prime pagine dei giornali e gli umori dei sondaggi, piuttosto che al brusio di voci troppo indistinte provenienti dalle 30.000 scuole sparse in ogni angolo del paese.

Forse Berlinguer è stato anche questo, ma per favore, qualcuno ci convinca che all'orizzonte c'è qualcuno che offre di più, che sappia mettere passione civile in una impresa quasi disperata, che sappia raccogliere sfide culturali che vanno oltre il tornaconto personale o la popolarità di una serata televisiva.

Forlì, 24 aprile 2000