Letizia Moratti tra Palazzo Madama (RM) e l’arena di Rimini (CL)

di Giancarlo Cerini (*)

 

La scuola tra alternanza e accordi "bipartisan"

Dopo l’avvicendamento alla guida del Governo, avvenuta con le elezioni politiche della primavera del 2001, ci si interroga sulle prospettive future del nostro sistema scolastico, alla luce dell’intensa stagione di riforme preannunciate (e solo in parte) realizzate durante la gestione dei ministri Berlinguer-De Mauro (1996-2001) e a fronte delle vivaci critiche espresse dalla nuova maggioranza a molte delle leggi approvate nella passata legislatura, in primis alla legge n. 30 del 10-2-2000, meglio conosciuta come "riordino dei cicli".

E’ evidente che la "sostanza" dei problemi del sistema formativo non può essere affrontata a colpi di slogan e con provvedimenti amministrativi ad effetto o, addirittura, allontanando o diluendo ogni ipotesi di intervento. La stessa Letizia Moratti, nuovo Ministro all’Istruzione (ricordiamo che la caduta dell’aggettivo "pubblica" è dovuto alla riforma "Bassanini" nell’organizzazione dei Ministeri) ha assunto – in sedi pubbliche e parlamentari – un preciso impegno politico a dar corso ad interventi "rapidi e tempestivi" per sostenere lo sviluppo qualitativo del sistema di istruzione e formazione.

La sospensione dell’attuazione di alcuni provvedimenti, decisa durante l’estate 2001 (ci riferiamo, in particolare all’avvio del riordino dei cicli a partire dalle classi prime e seconde della scuola di base, ma anche alla introduzione graduale di indicatori di qualità per la scuola dell’infanzia, alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi e orari per la scuola secondaria superiore), sembra essere piuttosto l’effetto del nuovo meccanismo elettorale bipolare, che obbliga all’alternanza "secca" della posizioni, piuttosto che una completa inversione di rotta o di strategia politica.

Nelle dichiarazioni programmatiche del Ministro Letizia Moratti (tenutesi nel mese di luglio 2001 presso la Camera dei Deputati ed il Senato) si segnala l’esigenza di promuovere trasformazioni nella scuola che siano largamente condivise e che vadano oltre i tradizionali schieramenti ideologici. A tale visione sembra ispirarsi la preannunciata strategia della consultazione e con il coinvolgimento di genitori, studenti ed operatori scolastici (in verità praticato, con alterne fortune, anche dalla precedente gestione politica). A tal fine è stata costituita una apposita commissione di esperti (di soli sei membri) con il compito di procedere ad un lavoro di comparazione delle proposte in campo e di redazione di nuove ipotesi, da sottoporre ad una ampia consultazione che dovrà concludersi con gli "Stati generali dell’istruzione", una sorta di Conferenza nazionale della scuola che riprende una idea già praticata agli inizi degli anni ‘90.

La tabella di marcia delle riforme subisce dunque un rallentamento, per consentire un approfondimento delle questioni in gioco, che potrebbe sfociare anche in un eventuale ripensamento delle scelte fino ad ora compiute. In particolare, nell’occhio del ciclone potrebbe finire la proposta di riordino dei cicli scolastici, contenuta nella legge 30/2000, che aveva dato luogo a numerose e controverse prese di posizione. Ne sono testimonianza i contrastanti pareri espressi (nella primavera 2001) dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei Conti sui primi provvedimenti attuativi, che presentavano anche i nuovi indirizzi curricolari per la scuola di base.

 

Diagnosi, vincoli e risorse

Un possibile punto di partenza per il nuovo dibattito sulle riforme da realizzare potrebbe essere rappresentato da una diagnosi condivisa sullo stato di salute "formativa" del nostro paese. I punti di crisi da affrontare riguardano i molti deficit del sistema formativo italiano, che ci vengono con puntualità ricordati nei Rapporti internazionali dell’OCSE sulla qualità della scuola. Sui bassi livelli di produttività culturale della scuola italiana (scarso numero di diplomati e laureati, standard di apprendimento non soddisfacenti in campi disciplinari strategici, ecc.) il giudizio è ampiamente concorde. Più controversa è invece la valutazione sui costi del sistema formativo, per alcuni (la Confindustria, in primis) decisamente fuori controllo, mentre altre fonti mettono in evidenza i costi aggiuntivi (interpretabili però anche come investimenti) dovuti alla diffusione capillare sul territorio delle istituzioni scolastiche, alla integrazione nelle scuole comuni degli alunni handicappati, al contenimento del numero medio di alunni per classe.

Va ricordato, ad onor del vero, che gli ultimi anni, indipendentemente della formula di Governo, hanno visto un progressivo ma costante diminuzione del numero delle scuole, delle classi e degli insegnanti (in misura più significativa del decremento demografico). Basta citare i dati del dimensionamento delle istituzioni scolastiche avvenuto nel biennio 1999-2000 (con la riduzione degli istituti autonomi da 17.000 a circa 10.500) o i meccanismi di progressivo controllo degli organici del personale (con tetti restrittivi fissati nelle annuali leggi finanziarie). E’ emblematico che la quota del prodotto lordo riservata alla scuola sia ormai tra le più basse dei paesi europei (solo il 4,8 % rispetto ad una media del 6 %).

Da questi dati e da questi vincoli prenderà avvio l’azione di governo del nuovo ministero, dopo il "successo" del blitz estivo sulla immissione in ruolo di 60.000 nuovi docenti. Il problema non consiste solo nel coprire parte dei "posti vacanti": ricordiamo che restano diverse decine di migliaia di posti programmaticamente lasciati senza titolare, da ricoprire con personale precario. Occorre chiedersi quali siano le competenze professionali dei nuovi docenti immessi in ruolo, come sia possibile incrementarle e, soprattutto, come intervenire per ricostruire negli insegnanti italiani una motivazione forte nei confronti della professione, della cultura da elaborare e trasmettere, del rapporto educativo con gli allievi da alimentare. Insomma "vivere alla grande a scuola, si può!" come ha affermato il neo-ministro a Rimini (agosto 2001), di fronte alla platea un po’ scomposta di Comunione e Liberazione, ma i passaggi per arrivare a questo risultato richiedono un serio investimento pluriennale sulla scuola pubblica italiana.

 

I valori in gioco

Nella scuola emerge la preoccupazione per il possibile asservimento dell’istruzione alle ragioni più immediate del mercato, dell’impresa, dell’occupabilità, e si esprime freddezza anche verso alcune posizioni comunitarie: l’Unione Europea ha insistito molto sul tema della spendibilità dei crediti formativi per offrire migliore qualità e opportunità di lavoro. Il mondo della scuola auspica una formazione "disinteressata", in grado di sviluppare quei "saperi di cittadinanza e di responsabilità" indispensabili per partecipare attivamente alle dinamiche sociali di una realtà assai complessa che implica la capacità di muoversi in uno spazio culturale senza più delimitazioni rassicuranti.

Molte delle critiche espresse alle ipotesi di riforma dei curricoli, elaborate negli ultimi anni, hanno contestato l’eccessiva curvatura sul "saper fare", sulla dimensione tecnologica e multimediale, ma anche l’enfasi sulla centralità dell’alunno e sul "successo formativo", elementi interpretati quasi come segnale di disimpegno progressivo dai saperi forti, alfabetici, formali, gli unici a conferire autonomia di pensiero. Evidentemente non è facile districarsi in questo dibattito, perché tutti gli interlocutori auspicano una formazione che assicuri "cultura generale, flessibilità dell’intelligenza e acume critico" (Documento "Nova Spes", estate 2001), tutte qualità promosse solo da docenti con "il gusto per l’insegnamento, il senso morale, il piacere che viene dal far conoscere, far discutere, far costruire sapere" (Documento dei "Saggi", primavera 1997).

Il fatto è che da premesse (quasi) simili possono scaturire modelli formativi assai diversi:

o l’avvicinamento dei percorsi culturali (disinteressati) e di quelli professionali (orientati alla pratica) nell’ottica del sistema formativo integrato, della connessione tra le conoscenze, della fungibilità delle diverse forme di apprendimento (questa è stata l’ipotesi sottesa all’espansione dell’obbligo scolastico e, soprattutto, dell’obbligo formativo);

o la proposta di una netta distinzione dei percorsi formativi: da un lato i ragazzi destinati ad inserirsi in tempi brevi nel mercato del lavoro (e quindi necessitati ad una più sicura e specifica padronanza/addestramento su competenze operative), dall’altro i ragazzi destinati a percorsi pre-universitari e quindi orientati verso conoscenze di carattere più generale ed astratto.

Il dibattito sul sistema "duale" – nei prossimi mesi - sarà assai "caldo", ma dovrà dar conto di alcune questioni decisive:

qual è il discrimine tra cultura generale e cultura professionale in una realtà ove si intrecciano ormai linguaggi, forme di comunicazione (verbale e non), tecnologie, in un mix che sembra andare oltre il tradizionale approccio alfabetico alle conoscenze?

l’incontro con gli alfabeti (in pratica, con i segni della scrittura e quindi con le capacità di argomentazione, di analisi e di valutazione) va considerato ormai elemento portante di una formazione culturale di livello superiore e quindi riservata a pochi?

realisticamente il sistema deve limitarsi a selezionare solo gli allievi migliori? ma allora, non verrebbe meno la stessa funzione dell’esperienza educativa e culturale affidata ad un esteso sistema pubblico di istruzione?

 

Gli elementi di continuità/discontinuità

E’ proprio sul concetto e sull’identità della scuola pubblica (e del suo rapporto con la scuola privata) che il confronto potrebbe farsi molto aspro (cfr. i recenti interventi di U.Eco, di E.Severino, di E.Scalfari).

Intanto esiste un profilo giuridico del problema, che risale almeno alla Costituzione del 1948, che individua diritti e doveri in capo ai soggetti "privati" che intendono gestire scuole, ma anche l’impegno per un trattamento scolastico equivalente per gli allievi delle scuole non statali, ma senza che questo comporti "oneri per lo Stato". Nella scorsa legislatura si era raggiunto un punto di equilibrio attorno al concetto di "parità" (Legge n. 62 del 10-3-2000). La legge istituisce il sistema nazionale di istruzione (un sistema "integrato", piuttosto che pubblico tout court) al quale accedono le scuole statali e non statali che si impegnano a realizzare determinati standard di funzionamento, controllati pubblicamente.

Il rispetto di tali requisiti (pari accesso, pubblicità, programmi, organizzazione, professionalità) conferisce il carattere di servizio "pubblico" (paritario).

Vengono garantiti, quali elementi di autonomia e diversità rispetto alla scuola statale/pubblica:

il riferimento ad una precisa ispirazione culturale, pedagogica o religiosa dell'istituzione "privata";

le modalità di reclutamento del personale (anche per chiamata diretta del gestore, in coerenza con tale ispirazione).

Questi sono i punti controversi al centro del più recente dibattito, sollevato anche dal D.L. 255/2001, che equipara – ai fini del reclutamento degli insegnanti nella scuola statale - il servizio di insegnamento prestato nelle scuole pubbliche ed in quelle private.

Resta inoltre, come è noto, la questione dell’eventuale finanziamento alle scuole gestite da privati. Il problema è stato affrontato, per ora, con interventi sul versante del sostegno al diritto allo studio (recuperando ed ampliando il principio costituzionale del "trattamento equipollente" per gli studenti), da assicurare mediante assegni di studio, vouchers, bonus, che possano abbattere le spese connesse alla frequenza scolastica (in favore di studenti con redditi bassi).

Ovviamente, il principio del sostegno diretto al diritto allo studio può essere diversamente "interpretato", come si è visto nella più recente legislazione statale (cfr. L.62/2000) e regionale (La legge regionali dell’Emilia-Romagna è assai diversa da quella della Lombardia).

 

Dall’autonomia alla devolution

Il potenziamento dell’autonomia delle singole unità scolastiche appare un elemento di continuità fuori discussione. La maggiore autonomia, che tutte le forze sociali e politiche auspicano, implica l’assunzione di nuove responsabilità della scuola nei confronti degli utenti del servizio (genitori ed alunni), impegnandoli in un contratto formativo che consenta di adattare le proposte formative ai bisogni degli allievi e di interagire con i contesti sociali e culturali di appartenenza.

Il nuovo modello di governo dell’istruzione promosso dalla Legge 59/1997 (che ha prodotto anche una vistosa riforma della Amministrazione scolastica, al centro e in periferia) sembra in grado di far fronte alle nuove domande formative della società:

un centro "strategico" che definisce pochi ma solidi punti di riferimento, svolgendo funzioni di garanzia, di perequazione e di controllo;

uno "snodo" regionale che orienta in termini qualitativi il governo e la gestione del sistema formativo, dialogando attivamente con il territorio e gli enti locali;

singole unità scolastiche responsabili dell’offerta formativa per meglio adattarla alle esigenze degli allievi, ma nel rispetto di indirizzi programmatici nazionali e di standard di funzionamento.

Ora, questo equilibrio, che ha preso corpo sul finire degli anni novanta con numerosi provvedimenti normativi, ma che richiede – di fatto - di essere messo ancora alla prova, viene già messo in discussione dalle nuove spinte ad una più ampia "devolution" di funzioni in materia scolastica verso le Regioni.

Sia nella riforma costituzionale approvata nella legislatura precedente (in cui si parla di legislazione concorrente delle Regioni anche in materia di istruzione), sia nella proposta del nuovo Governo (in cui si riconoscono ampie potestà legislative alle Regioni, fatti salvi i principi fondamentali definiti nella Costituzione), si registra un netto spostamento di decisioni verso la scala regionale.

Il dibattito sulle prossime riforme della Costituzione dovrà chiarire se viene assicurata la necessaria tenuta unitaria del sistema di istruzione, se vengono garantiti i diritti ed i livelli comuni di formazione per tutti i cittadini, affrontando anche i molti aspetti oscuri del nascente "federalismo", sottolineati da autorevoli costituzionalisti: l’assenza di una Camera delle Regioni (in cui compensare gli squilibri territoriali e consolidare un federalismo "solidale"), la previsione di diverse velocità e tassi di autonomia federale, lo svincolo da obblighi di concertazione nazionale ed europea, l’interpretazione del principio della sussidiarietà.

 

La "sfida" dei cicli

E’ stato preannunciato un ampio dibattito sulle scelte da compiere in merito all’eventuale riordino dei cicli. Le diverse ipotesi, a partire da quella contenuta nella Legge 30/2000, sono al vaglio di un’apposita commissione di studio. Proviamo a sintetizzare le tendenze che stanno emergendo nella pubblicista del settore e tra le principali organizzazioni politiche, sindacali e professionali. Il fronte delle opinioni appare nettamente diviso in due campi, che rispecchiano – ma non totalmente – i due grandi schieramenti politici.

Il primo gruppo comprende coloro che sostengono l’esigenza di riconfermare il modello contenuto nella legge 30/2000, che unifica la scuola elementare e media nella scuola di base settennale ed estende l’obbligo scolastico di due anni nella nuova istruzione secondaria quinquennale, con termine degli studi e dell’obbligo formativo a 18 anni. I suoi sostenitori riconoscono di essere in minoranza, dopo l’avvicendamento governativo, ma ritengono di disporre di un consenso più vasto, soprattutto negli ambienti pedagogici (con l’idea dei cicli "lunghi" che accompagnano la crescita dei ragazzi) ed in quelli extrascolastici (per l’impegno verso una scuola che promuova il "successo formativo"). Si fanno forza con l’esempio degli istituti comprensivi e puntano sulla carta dei maestri elementari (e del loro "salto" di categoria) come più validi alleati della scuola di base. Riconoscono che il piano di attuazione dei cicli presentava molte pecche e tempi-capestro: sono disponibili a ridiscuterlo, ma senza tradire lo spirito della proposta. Ritengono il documento sui curricoli di base (De Mauro) un punto di riferimento non facilmente sostituibile, in tempi brevi, con altri prodotti culturali di pari livello. Sono contrari al sistema "duale" tedesco e propongono di mantenere l’obbligo a 15 anni (o di elevarlo ulteriormente) in una struttura scolastica largamente unitaria.

Al secondo gruppo appartengono coloro che sono contrari all’impostazione dei cicli data dalla legge 30/2000. Vogliono, con molta energia, salvaguardare la distinzione tra scuola elementare e media, per meglio valorizzare le specificità delle diverse fasce d’età. Ritengono sconsiderato rimettere in discussione un modello collaudato da decenni e che offre ancora buoni risultati (cioè la scuola elementare). Anzi, vorrebbero ripristinare l’aurea "magica" della maestra unica, precedente l’era dei "moduli". Capiscono che la scuola media versa in una crisi di identità (in quanto scuola che consolida le competenze di base, ma anche scuola che apre alle discipline), ma sono molto sensibili alle inquietudini dei docenti di scuola media. Per questo preferirebbero non toccare l’attuale modello scandito sui segmenti 5+3+5, ma, messi alle strette dalla questione dell’uscita a 18 anni dal sistema scolastico, oscillano tra un potenziamento della scuola media dilatata a 4 anni (sull’esempio dell’amatissimo "college" francese), erodendo un anno alla scuola superiore (che potrebbe compattarsi nel quadriennio 14-18 anni) o alla scuola elementare (che potrebbe farcela in un solo quadriennio, perché sostenuta da una scuola dell’infanzia praticamente obbligatoria). I più possibilisti evocano anche il ciclo di base, ma lo esigono comunque di 8 anni, con una articolazione interna che faccia "pesare" di più la parte secondaria del percorso. Dopo i 14 anni i percorsi formativi dovrebbero nettamente separarsi, sulla base dei "talenti" e delle "attitudini" dei ragazzi.

Nell’attesa che le posizioni si stemperino verso una necessaria convergenza, è consigliabile osservare più da vicino le dinamiche reali che si stanno manifestando nella scuola. Parliamo, ad esempio, degli istituti comprensivi, cioè delle nuove forme di aggregazione in verticale delle scuole materne, elementari e medie di un medesimo territorio che, nate appena sei anni fa, hanno raggiunto il ragguardevole numero di 3.200 istituzioni (pari al 43 % dell’intero parco-scuole dell’obbligo del nostro paese). Questo "successo" non può essere spiegato solo con la sollecitazione proveniente dagli enti locali, in sede di processi di dimensionamento, per una migliore organizzazione territoriale della scuola, ma va interpretata anche come propensione verso una organizzazione di scuola della comunità (che accompagni in termini unitari la prima formazione di tutti i bambini), che sta alla radice dell’idea di scuola di base emersa dal dibattito parlamentare che ha portato alla legge 30/2000. Questo dato di realtà (con oltre 200.000 insegnanti che lavorano in verticale, programmano e si confrontano sui curricoli, si aprono ad esperienze didattiche integrate) dovrà essere valutato attentamente da chi si propone di introdurre correttivi all’attuale impianto della riforma.

L’istituto comprensivo potrebbe diventare il possibile punto di mediazione e di incontro sul futuro del ciclo di base, perché in grado di offrire un terreno assai concreto per verificare sul campo i concetti di curricolo verticale, di collaborazione professionale, di organizzazione dell’ambiente di apprendimento, tutti elementi indispensabili per costruire "dal basso" l’identità della scuola di base e sciogliere le possibile divergenze che ancora restano aperte sulla durata del ciclo, di 7 o 8 anni, sulla articolazione organizzativa, unitaria o semplicemente integrata, sull’impiego del personale docente, per valorizzare (e non annullare) le diverse culture professionali dei maestri e dei professori.


(*) L’intervento rappresenta una rielaborazione dell’intervento "Riforme" contenuto nel volume G.Cerini-M.Spinosi, Le voci della scuola, Tecnodid, Napoli, 2001 (un repertorio di 44 voci curate da 29 autori, che sarà prossimamente inviato agli abbonati della rivista "Notizie della scuola" e distribuito in libreria).


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