IN NOME DELLA LEGGE: E SPUNTO’ L’OBBLIGO A 15 ANNI

di Giancarlo Cerini

 

Speranze di riforma

 L’approvazione dell’elevamento dell’obbligo scolastico a 15 anni è stato salutato con tiepidi cenni di consenso dal mondo della scuola. Anzi, la soluzione di creare un ipotetico monoennio all’interno degli attuali assetti della scuola superiore è stata considerata da molti un vero e proprio "pasticcio", un escamotage tutt’al più utile per sanzionare una mediazione tattica tra forze politiche, ma non certamente quel progetto in grado di far "volare alto" l’immaginario e le aspettative della società nei confronti della "sua" scuola.

Tutto il contrario delle premesse che stavano alla base del progetto di grande respiro richiamato dal disegno di riordino complessivo dei cicli. Ma, si dirà, il mondo della scuola è proprio incontentabile : si criticarono allora i "cicli" perché troppo ambiziosi e giacobini, si critica oggi l’obbligo a 15 anni perché di basso profilo, anzi "doroteo"...

Oggi però, nonostante tutto, il quadro è più comprensibile di due anni fa, quando fu presentato - con un colpo ad effetto - il documento iniziale sul riordino complessivo della scuola.

Intanto c’è un dibattito sui "saperi" che aiuta a chiarire il senso culturale di un riordino complessivo dell’itinerario formativo, dai tre ai diciotto anni, anche se occorre ormai procedere celermente dai saperi ai curricoli, cioè verso l’elaborazione di indicazioni didattiche praticabili e coerenti, con l’apporto diretto - questa volta - degli operatori scolastici.

C’è poi un decisivo stato di avanzamento del processo di autonomia (dopo la Legge 59/97 ed i Regolamenti attuativi) che comincia a definire con più chiarezza il rapporto tra ambiti di decisione nazionale e ambiti di decisione locale, in materia di elaborazione del progetto di scuola e di scelte curricolari.

Di fronte a questi due eventi una sicura "impalcatura" sui cicli potrebbe offrire la necessaria coerenza all’insieme dei cambiamenti e diventare emblematica di un deciso impegno politico per la riforma. Inoltre, un quadro di riferimento è necessario per dare un senso compiuto a molte operazioni di dimensionamento degli istituti scolastici che, altrimenti, rischiano di essere interpretare unicamente come operazioni di "razionalizzazione" al ribasso.

La stessa massiccia preferenza che si è manifestata verso l’opzione per gli istituti verticali ( di scuola materna, elementare e media ) acquisterebbe una luce assai diversa se fosse collegabile in maniera più esplicita all’ipotesi di una scuola di base unitaria e non si configurasse ( come in qualche caso purtroppo è avvenuto) come mera soluzione di ripiego.

In fondo, il riordino globale dell’ordinamento rappresenta un’occasione storica per la modernizzazione della scuola, per catalizzare risorse, strutture, motivazioni del personale.

Sono questi - e non i cicli in sé - i fattori che determinano la qualità della scuola, come ha riconosciuto onestamente l’onorevole Soave nella relazione di apertura del dibattito parlamentare sui cicli (1998).

Dunque la "grande" riforma si presenta come un evento in grado di azzerare i molti vizi, ma anche alcune virtù degli attuali equilibri scolastici. Tutti ne riconoscono l’urgenza ( dai sindacati alla Confindustria, dalla Conferenza episcopale all’opposizione), ma ancora non si fa. Perché?

Questioni di metodo.

Due anni di "stallo" sulla riforma dei cicli dimostrano che non si sono realizzate le condizioni di consenso sufficiente attorno alla proposta iniziale (facendo prevalere le istanze di conservazione). Si potrebbe anche osservare come siano state carenti le condizioni di metodo, più ancora che di merito, per costruire un consenso sulla proposta.

L’impressione è che si sia "chiuso" troppo presto il dibattito su una proposta già strutturata e rifinita; che non siano state sufficientemente argomentate le scelte compiute.

Nel referto negativo sul metodo vanno senz’altro annoverati l’assenza di sedi approfondite di confronto (per mettere alla prova in contraddittorio le ipotesi di nuovo ordinamento); la mancanza di un dialogo reale con gli operatori della scuola. Né ci si è curati di dare conto in maniera esauriente della consultazione effettuata - senza troppe regole - nella primavera del 1997.

Ma non vogliamo attardarci su recriminazioni di metodo, anche se resta il rammarico per una strategia comunicativa carente che ha finito con il lasciare ai margini la scuola, considerata un alleato inaffidabile in questa operazione. Le frequenti consultazioni promosse dal Ministero in questi ultimi tempi (sull’autonomia, sui saperi, ecc...) sembrano voler fare ammenda di quelle pecche ed inaugurano uno stile diverso.

Concentriamoci dunque sul merito dei problemi e chiediamoci se il provvedimento-stralcio sull’obbligo al 15° anno di età - recentemente varato dal Parlamento - sia in grado di far avanzare il processo di riforma e, soprattutto, verso quale direzione.

Le caratteristiche del nuovo obbligo

 Intanto va ricordata la reale portata del provvedimento che riguarda circa il 15% di ragazzi e ragazze che, terminata la scuola media, decidono di iscriversi a corsi di formazione professionale o di inserirsi direttamente nel mondo del lavoro. Dunque utenti "problematici", spesso con un curriculum scolastico contrassegnato da ritardi (che li trattiene già quindicenni alla scuola media), non sempre motivati dalle attuali caratteristiche dell’offerta formativa "curricolare". Frequentare il primo anno della scuola secondaria superiore non sembra la soluzione più adeguata per appassionare questi ragazzi verso l’esperienza formativa.

E’ pur vero che nella stessa legge si ipotizza una struttura di accoglienza più flessibile, sempre comunque nelle attuali classi prime superiori. E non è detto che le possibilità offerte dall’autonomia siano in grado di modificare la qualità dell’ambiente di apprendimento, per renderlo più adatto alle aspettative dei nuovi utenti. Certo, si potrebbero aprire interessanti "piste" di lavoro didattico con altre strutture ed agenzie formative, come suggerisce un ordine del giorno che accompagna il testo della legge e che tende la mano verso i centri di formazione professionale, ma questa ipotesi rischia di vanificare il concetto stesso di elevamento dell’obbligo scolastico, che non può essere confuso con un precoce processo di addestramento al lavoro.

L’orientamento, l’incontro con l’operatività, il contatto col mondo del lavoro, il mettersi alla prova in esperienze di apprendimento "situate", la pratica del laboratorio sono elementi qualificanti del progetto formativo per tutti i ragazzi e sarebbe ben strano che questi aspetti fossero riservati solo alla parte più debole della utenza scolastica, quasi a surrogare i temi veri della cultura alta, disinteressata, alfabetica.

Come si vede, si tratta di questioni assai rilevanti che dovranno essere affrontate con il dovuto approfondimento, assieme ad altre altrettanto decisive : cosa succede al termine del 15° anno? che tipo di certificazione/valutazione sarà rilasciato? Quali rapporti costruire con la scuola media (attuando forse un biennio ponte)? Riteniamo che la soluzione non possa essere trovata tra le pieghe dei 7 commi della legge, anche se sarà doveroso impegnarsi in una sua applicazione corretta: in fondo il contrasto della "dispersione" ( che riguarda - a conti fatti - il 35/40% degli adolescenti italiani di questa fascia di età) potrebbe essere avviato attraverso un ripensamento delle "didattiche fini" (motivazione, comunicazione, relazione, metodi, tutorship, ecc...) provocato dall’irruzione di questi "nuovi barbari" nelle aule scolastiche.

La legge, tuttavia, non sarà ricordata per le fragili soluzioni tecniche, ma per le anticipazioni - all’interno del testo - di alcuni obiettivi strategici quali:

Si tratta di alcuni impegni che sembrano costituire una prima base di consenso, da cui partire per un riassetto condiviso dell’intera architettura del sistema. L’uscita dal sistema scolastico a 18 anni pone immediatamente l’esigenza di una ristrutturazione del percorso precedente che, di fatto, si accorcia di un anno (dai tre ai diciotto e non più dai tre ai diciannove). Ciò che si "perde" in estensione dovrà dunque essere guadagnato in qualità, compattezza, coerenza del nuovo assetto che si intende proporre.

Dopo l’obbligo "tocca" ai cicli

L’approvazione della legge sull’obbligo accelera un processo di chiarimento, per giungere con sollecitudine a decisioni che diano respiro alle (mezze) misure approntate con la legge stralcio. Quali sono allora i nodi che restano da sciogliere? Quali gli ostacoli che, a questo punto, si frappongono ad una rapida definizione del riordino dei cicli? Quali sono, in fondo, le proposte in campo? Come si differenziano e come sono (se lo sono) ricomponibili?

Intanto vanno rese ancora più esplicite e forti, nell’opinione pubblica e soprattutto tra gli addetti ai lavori, le motivazioni e le argomentazioni che stanno alla base del "sommovimento" dei cicli (altrimenti, perché proporre cambiamenti così "epocali"?).

Inoltre, è opportuno interrogarsi sul rapporto tra quello che sta - di fatto – avvenendo mediante i processi di "dimensionamento" in vista dell’autonomia scolastica. In base al DPR 233/98 gli Enti locali stanno ridisegnando la geografia della scuola italiana, senza un eccessivo sforzo di coinvolgimento degli operatori scolastici, e spesso con un occhio del tutto "localistico".

La forte verticalizzazione della scuola di base che si prospetta (piuttosto che l’aggregazione delle scuole medie in orizzontale) è già un pezzo della riforma dei cicli, anche se – al momento – l’istituto comprensivo (scandito dal ritmo 3-6-11-14 anni) non collima completamente con il ciclo primario berlingueriano (scandito dal ritmo 3-6-12 anni).

Viceversa, per la scuola superiore, la tendenza ad aggregare le attuali scuole secondarie in istituti di carattere monovalente (i tecnici coi tecnici, i licei con i licei, ecc…), non sembra compatibile con una genuina ed autentica interpretazione del modello di riforma, che vorrebbe un forte investimento sulle caratteristiche orientative del primo triennio della nuova scuola secondaria sessennale. Se i ragazzi scelgono a 12 anni un indirizzo di scuola superiore, che si trova in un determinato edificio ad esso appositamente dedicato, con un certo ethos, con un determinato Know-how, non si corre forse il rischio di canalizzare precocemente il destino scolastico (e non solo) dei ragazzi, come acutamente fa notare il Rapporto OCSE sulla politica scolastica italiana (1998)?

Un punto fermo: l’uscita a 18 anni

Sembra, dalle proposte in discussione che esista un sufficiente consenso attorno alla richiesta di anticipare l'uscita dal sistema scolastico a 18 anni. Al di là delle compatibilità con i modelli europei (ove le scelte sono assai diverse) ci si dovrà interrogare piuttosto sul "senso" di una formazione curricolare più "corta" : si tratta di un mero anticipo di tutta la tabella di marcia ( come farebbe pensare l’interesse esagerato verso il bambino di 5 anni) oppure va rimesso in discussione il carattere ( la natura, le finalità) di un percorso più breve e compatto?

Ad esempio, si uscirà a 18 anni con lo stesso livello di terminalità dei corsi di studi precedenti (anzi, per qualcuno, rafforzando la peculiarità professionalizzante) o non si dovrà piuttosto puntare sul potenziamento del carattere "generalista" e "disinteressato" della formazione scolastica? Perché non inventare qualcosa di significativo ( che in Italia manca ed in Europa c’è) tra la fine della scolarità secondaria e l’inizio della formazione superiore? Ad esempio, corsi post-diploma di specializzazione effettiva, esperienze di formazione professionale di alto livello, istruzione tecnica superiore, anni propedeutici alle scelte universitarie (oggi così controproducenti in termini di produttività degli esiti).

In fondo, c’è un ampio margine di lavoro per ripensare all’area della formazione terziaria (tra i 18 e i 22-23 anni) : sembra invece che la proposta di riordino sia più "occhiuta" nei confronti della scuola primaria (lì c’è un vero "sconvolgimento") piuttosto che nei confronti di quella secondaria (avvolta in un suadente ciclo sessennale). La riduzione di un anno di scolarità formale dovrà essere riequilibrata con un deciso impegno affinchè tutti (sia pure in forme diverse) usufruiscano di un diritto alla formazione fino a 18 anni, con l’acquisizione di un titolo scolastico o professionale.

Si tratta dell’affermazione più incisiva della leggina sull’obbligo, ma va resa effettivamente praticabile con scelte coerenti.

Il modello "18 anni" comporta un minor fabbisogno di circa 50.000 docenti. Non è pensabile che l’esito di una riforma epocale sia la messa in "mobilità" o in "esubero" di una quota così estesa di insegnanti. Vanno da subito immaginate tutte le opportunità rese possibili da un simile evento (utilizzazione nel settore innovativo del post-secondario, attivazione di funzioni e figure di sistema, arricchimento della didattica, ecc…) con ampie opportunità di riqualificazione professionale per tutti. L’eventuale esubero va comunque "spalmato" su tutti e quattro i livelli scolastici e non solo sulle elementari (come pure si era visto in qualche tabella allegata al disegno di legge sui cicli). Occorre inoltre investire con più decisione nella formazione "straordinaria" dei docenti, con un impegno di "immagine" pari almeno a quello messo in atto per i dirigenti scolastici.

Un punto controverso: l’unificazione della scuola di base

La proposta di riordino dei cicli contiene una novità clamorosa per quanto attiene alla scuola di base, in quanto ne propone la sua unificazione, con il superamento degli attuali due distinti cicli (scuola elementare e scuola media). L’idea ha un suo fascino pedagogico, è diffusa nel nord-europa, ma è scarsamente praticata in Italia. E’ pur vero che l’ampio sviluppo di istituti comprensivi nel quadriennio 1995-99 ( e l’ancora più massiccia diffusione che si prevede a seguito delle operazione di dimensionamento) rendono l’idea della scuola di base un oggetto ordinario del paesaggio scolastico italiano. Non va però sottaciuto che gli istituti comprensivi, al momento, non rappresentano una nuova scuola di base unitaria, ma solamente un "sistema unitario" di scuole di base (al plurale) che restano tra di loro assai diverse, con l’obbligo di alcuni momenti comuni di vita professionale.

Occorre dunque lavorare in profondità sul piano culturale, per costruire un clima di condivisione rispetto all’idea di una scuola unica per la formazione di base. Anche per evitare che abbiano il sopravvento considerazioni di tipo strumentale e contingente (e i contenitori fisici? E gli insegnanti? E le loro competenze e le identità preesistenti? ecc…) Tali questioni non vanno sottaciute o negate, ma piuttosto affrontate elevando il livello del dibattito.

Ad esempio, un "ciclo primario" di soli 6 anni e quindi di una scuola di base "corta" propone un curricolo "sobrio", centrato su poche abilità fondamentali, senza ridondanze. Ma se il nuovo ciclo si limitasse a prendere il posto delle attuali scuole elementari e medie (come si afferma nella relazione di accompagnamento al disegno di legge del 1997) il curricolo si rivelerebbe eccessivamente contratto, con il rischio di un impoverimento qualitativo e di un abbassamento di profilo culturale. Resta poi un interrogativo che attiene alla stessa scelta di denominare tale nuovo segmento come "ciclo primario" (scuola primaria è, al momento, sotto il profilo giuridico la scuola elementare). Va cioè posto il problema di un eventuale inserimento nella scuola di base di elementi di "secondarietà", cioè di promozione di abilità e competenze non solo strumentali o funzionali.

D’altra parte l’attuale istituto comprensivo, che dal 2000/2001 diventerà il modello diffuso in oltre il 30% delle scuole dell’obbligo italiane, comprende al suo interno una sua componente secondaria (fino all’età di 14 anni).

Occorre quindi valutare con attenzione le esigenze di durata di un ciclo di base (questo nome è preferibile a quello di "primario") in grado di garantire quel consolidamento della formazione di base che tutti auspicano, ad esempio "lavorando" concettualmente anche su possibili durate di 7 o 8 anni. Vogliamo ricordare che un’ipotesi di ciclo di base settennale stava alla base del documento di commento sui cicli, elaborato nel 1997 dal CIDI (un’associazione di insegnanti assai rappresentativa), mentre un’ipotesi di ciclo ottennale è stata ventilata da alcuni parlamentari del Partito popolare.

E’ opportuno, se si vuole far "passare" la cultura della scuola di base, mantenere assai aperto il ventaglio delle soluzioni tecniche (siano esse di 6, di 7 o di 8 anni).

Le ipotesi in gioco

La proposta di un ciclo sessennale (dai 6 ai 12 anni) che è contenuta nel disegno di legge del Governo (giugno 1997) si collega a modelli praticati in alcuni paesi europei (Gran Bretagna, Belgio, ecc.) e negli Stati Uniti; nella versione italiana risulta piuttosto la conseguenza indiretta del modello strutturale "lungo" previsto per la scuola secondaria superiore (con la concomitante esigenza di chiudere prima il percorso scolastico). Nell’impianto per bienni contenuto nel progetto di legge sembra affacciarsi l’idea di una compressione della scuola di base e la stessa promozione "obbligatoria" del bambino di 5 anni appare una richiesta di anticipare l’incontro con gli alfabeti del leggere e dello scrivere. Prevale, implicitamente, la convinzione che i giochi veri della formazione si facciano più avanti, nell’incontro –meglio se precoce, meglio se a 12 anni- con un sapere già secondario (e quindi specialistico) o comunque con proposte più articolate e differenziate, capaci di orientare e responsabilizzare i ragazzi. L’idea di una scuola di base "lunga" viene invece associata ad una dissipazione di risorse intellettuali, ad una elementarizzazione strisciante della formazione.

La proposta di una scuola di base di 7 anni (dai 6 ai 13 anni) richiede la messa a punto di un curricolo unitario, con economia di contenuti e chiarezza di obiettivi. L’ipotesi prevede uno stretto raccordo con la scuola materna, soprattutto con l’ultimo anno reso in linea di massima obbligatorio, mediante un biennio di raccordo (sul modello dell’infant school inglese). Anche in questo caso la "fusione" della scuola elementare e media richiede un "sacrificio" ai docenti (con un esubero che può essere meglio distribuito), ma apre una maggiore creatività nelle soluzioni di raccordo: si può ipotizzare un’articolazione per bienni, con punti di contatto tra materna ed elementare (nel biennio 5°-6° anno) ed elementare e media (nel biennio 11°-12° anno). Sul versante "alto" l’ipotesi 7+5 consente di mantenere la quinquennalità della scuola superiore, rendendone obbligatorio il primo biennio, con una prima uscita a 15 anni dalla formazione "curricolare", ed una seconda uscita a 18 anni con il conseguimento del diploma. Il triennio finale 15-18 anni è del tutto simile con la proposta di Berlinguer. Il vantaggio è dato dalla notevole "somiglianza" del modello con la struttura attuale del sistema scolastico (sedi scolastiche, strutture, risorse professionali); ma questo stesso fatto rappresenta anche il punto debole dell’ipotesi. Chi garantirà una migliore produttività di una scuola superiore che sembra non cambiare più di tanto ?

L’ipotesi di una scuola di base di otto anni (dai 6 ai 14 ani) è più collaudata sul piano istituzionale (in fondo è la durata attuale della scuola elementare e media), e presenta interessanti applicazioni in campo sperimentale, come nella Scuola-Città "Pestalozzi" di Firenze che da diversi decenni applica un curricolo integrato ottennale. Anche gli istituti Comprensivi, che aggregano scuole materne, elementari e medie di un medesimo bacino territoriale, presentano un impianto molto coerente con questa proposta. L’esistenza di oltre 600 istituti comprensivi ed il notevole successo di tale modello, in sede di processi di dimensionamento, sembra accreditare ulteriormente questa opzione.

Il curricolo di 8 anni si snoda per bienni didattici, non tocca la scuola materna (che potrebbe non essere obbligatoria), è meno "dolorosa" per i docenti della scuola di base. Sul piano innovativo il punto "focale" è un diverso intreccio tra 5^ elementare e 1^ media. L’uscita a 18 anni dal sistema scolastico implica però una scuola superiore di soli 4 anni (di cui i primi due obbligatori, quindi fino a 16 anni). La contrazione potrebbe essere compensata con un forte investimento sul settore post-secondario (con moduli brevi di formazione professionale di alto livello o moduli di pre-inserimento universitario), prefigurando una scansione 4+1 che potrebbe offrire opportunità di alta qualificazione anche ai docenti della scuola superiore (altrimenti penalizzati dalla quadriennalizzazione). Si avvicina all’ipotesi dell’opposizione (Forza Italia propone il modello 4+4+4), anche se ne rappresenta una versione più democratica, anzi scandinava.

Osservazioni per chiudere

L’estensione di un solo anno dell’obbligo scolastico lascia aperto il problema della collocazione della seconda annualità obbligatoria. La scelta sembra oscillare tra un obbligo a 5 anni (nell’ultimo anno della scuola materna) o a 16 anni (nella scuola superiore). L’obbligo nella scuola materna comporta il rischio di strumentalizzazioni pedagogiche (anticipo di insegnamenti formali) e ideologiche (per la richiesta di parità e di riconoscimento dell’ampio settore non statale presente nel settore: 45 % circa). Gli effetti "positivi" dell’obbligo potrebbero essere ottenuti con un rigoroso piano di sviluppo della scuola dell’infanzia, con l’individuazione di indicatori di qualità del servizio. Nei paesi ove si è optato per l’obbligo a 5 anni (ad esempio in Gran Bretagna) si riscontrano tassi bassissimi di scolarizzazione a 3 e 4 anni, che sono invece il punto di forza italiano.

E’ però la scuola superiore il segmento scolastico che deve interrogarsi più a fondo sulla "pesantezza" della sua quinquennalità, sui suoi comportamenti, sulla sua "cultura", sulla sua professionalità. I modelli di riforma radicale (il sessennio berlingueriano, il quadriennio "popolare") la costringerebbero a ripensarsi a fondo, ma con esiti non prevedibili. Il quinquennio dal volto più conosciuto (2+3) potrebbe innestarsi con più agio nella attuale struttura "mentale" e "curricolare" delle superiori (ma, appunto, tale struttura è da salvaguardare o da modificare ?).

Comunque, al di là dei numeri, occorre interrogarsi con più chiarezza su due questioni fondamentali:

  1. il momento dell’ingresso: quanto di differenziazione è sopportabile, per non trasformarsi in discriminazione di opportunità ? ed in quali contenitori dovrebbe essere collocata ?
  2. il momento dell’uscita: quanto spingere sulla spendibilità professionale/terminale della scuola secondaria o invece come tenere fermo un profilo culturale disinteressato spostando la professionalizzazione a dopo l’uscita.

Come si vede, non sono in gioco solo numeri e formule aritmetiche, ma modelli culturali e sociali per il futuro del nostro paese.

Tocca dunque al Parlamento sciogliere i "nodi" che ancora si frappongono al varo di una riforma della scuola che ci traghetti verso il terzo millennio.