SCUOLA DI BASE A "ZONE": IL 3+4, AD ESEMPIO…

di Giancarlo Cerini

 

Continuità versus (vs) discontinuità

Ipotizzare un’articolazione interna della nuova scuola di base settennale non è questione facile. Anzi, molti addetti ai lavori mettono in dubbio la stessa legittimità di una simile operazione. Ma come - si afferma - abbiamo appena decretato l’integrazione tra scuola elementare e scuola media, che già pensiamo di suddividerla in parti distinte? Se così accadesse, quale sarebbe il senso della scuola di base? Inoltre, qualsivoglia ipotesi di articolazione definita a priori dal centro, valida per tutte le scuole del paese, non è forse in palese contrasto con il principio dell’autonomia, che affida - ormai - ad ogni unità scolastica ampi poteri in materia di scelte curricolari, di utilizzazione del personale, di gestione della flessibilità? Tra l’altro - si ribadisce - è la stessa legge sui cicli scolastici (la legge n. 30 del 10-2-2000) a non indicare alcuna scansione del settennio, rimandando ogni decisione al contesto dell’autonomia e, in particolare, ai suoi regolamenti attuativi.

Si tratta di argomentazioni di una certa consistenza, non eludibili da parte di chi intende proporre una qualche ipotesi di strutturazione della scuola di base. D’altra parte è la stessa legge a prefigurare un percorso unitario, ma articolato e quindi non unico, che consenta di tener conto delle diverse fasi dell’età evolutiva. E’ infatti del tutto evidente che le caratteristiche cognitive, affettive, sociali di un bambino di sei anni non possono essere equiparate tout court a quelle di un preadolescente di 12-13 anni. Inoltre, la progressività di cui parla la legge, implica una qualche ipotesi sulla verticalità del curricolo, cioè su un percorso che preveda diverse modalità di incontro con i saperi.

I saperi, però, non sono le materie scolastiche, ma piuttosto i sistemi simbolici elaborati da ogni società nel corso del proprio sviluppo storico e quindi con una loro consistenza epistemologica che prescinde dall’azione di insegnamento. A scuola, però, entra in gioco il problema della insegnabilità dei saperi, il loro valore aggiunto "gnoseologico", che muta con il mutare del livello scolastico in cui si opera; infatti alle diverse età è qualitativamente diversa la distanza tra soggetto e oggetto, cioè tra chi apprende e gli oggetti dell’apprendimento (1).

Ciò che si modifica è dunque l’ambientazione dell’incontro con i saperi (la configurazione della "mediazione" didattica), perché dovrà tener conto delle caratteristiche evolutive dell’allievo, delle sue potenzialità, del suo modo di "afferrare" le conoscenze. Si tratta di un ragionamento che sta molto a cuore anche a coloro che non sono favorevoli al nuovo modello di scuola di base e avrebbero preferito mantenere l’attuale distinzione tra scuola elementare e scuola media, ritenendola più idonea a fornire risposte "adeguate" alle diverse età degli allievi. D’altra parte ogni buona teoria su apprendimento e sviluppo insiste sul carattere dinamico dell’apprendimento, sulla opportunità di proporre nuove sfide, nuovi incontri, nuovi stimoli (2). In questa ottica i sostenitori della discontinuità sembrano avere facilmente la meglio sui "continuisti".

Sappiamo però quanto sia controproducente nella biografia scolastica di molti ragazzi la cesura che si presenta verso gli 11 anni, al momento di affrontare (nella scuola media) una diversa istituzione scolastica, che sembra non tener conto delle esperienze formative pregresse, facendo quasi "evaporare" i possibili guadagni realizzati in precedenza.

Non è necessario scomodare Bloom (3) o altri studiosi per ricordare il ruolo decisivo che le conoscenze via via acquisite dagli allievi o gli atteggiamenti affettivi maturati nel corso della propria storia scolastica assumono nello spiegare buona parte degli apprendimenti successivi. Esistono anche ricerche emblematiche che sottolineano lo scarso guadagno che si riscontra nel nostro paese tra le prestazioni - in matematica e scienze - ottenute a 9 anni e quelle maturate poi a 13 anni. Confrontando i risultati di una decina di paesi l’incremento italiano è quello più insignificante (4).

Occorre dunque fare in modo che le prime competenze acquisite possano svilupparsi e potenziarsi nel corso degli anni, garantendo la massima continuità (in questo contesto, persistenza) delle conoscenze, ma anche un giusto tasso di discontinuità (di nuovi approcci, di nuovi stimoli, di nuovi contesti). Continuità e discontinuità dovranno dunque connotare la nuova identità della scuola di base.

 

Primario vs secondario

La continuità - qui intesa come stabilità, accompagnamento, clima rassicurante - sembra di più un valore dell’attuale scuola elementare (scalfito semmai dagli eccessi della modularizzazione), mentre la discontinuità, intesa come differenziazione, distanziamento, riorganizzazione simbolica, sembra appartenere alla scuola secondaria. Primario e secondario sono due "ritmi" che si ritrovano ugualmente dentro la nuova scuola di base: questo dato va rammentato a chi interpreta il settennio come un prolungamento puro e semplice della scuola elementare, un’ipotesi che non si attagliava neppure al modello di ciclo breve di sei anni (nella prima versione dei "cicli" presentata dal ministro Berlinguer nel 1997), che comunque era stato denominato "ciclo primario".

Possiamo attribuire ad entrambi i termini di primario e secondario un significato positivo, perché ognuno dei due ritmi offre opportunità di crescita indispensabili al pieno sviluppo degli individui. Elementare e media sembrano quindi "condannate" a convivere, a coesistere, anzi a contaminarsi reciprocamente. Questa dovrebbe essere la cifra interpretativa della nuova scuola di base.

Ma come attuare questa integrazione, salvaguardando appunto gli elementi di continuità e discontinuità? Il problema della articolazione interna nasce da questa esigenza, di evitare l’appiattimento su un percorso indistinto (che non stimola crescita ed impoverisce le opportunità), ma anche di non riconfermare la tradizionale suddivisione tra segmenti (che non "contamina" e disperde risorse e potenzialità).

Intanto è necessario evitare di riproporre, sotto mentite spoglie, l’attuale distinzione in due tronconi (l’ex-elementare e l’ex-media), con la cristallizzazione dei modelli pedagogici e culturali e la rigida assegnazione di maestri e professori a ciascuno dei due segmenti, sulla base delle precedenti appartenenze.

Questo potrebbe avvenire se si adottassero modelli strutturali definibili come "4+3" o "5+2", che comporterebbero il mantenimento integrale (a seconda delle preferenze) di uno dei due segmenti (la scuola media, nel primo caso; la scuola elementare, nel secondo), per non snaturarne l’eredità. La salvaguardia della propria identità sarebbe così posta a carico della scuola "dirimpettaia", cui si chiederebbe di acconciarsi diversamente, riducendo la durata (e le ambizioni?) del rispettivo curricolo.

E’ il caso, ad esempio, dello schema "4+3" (che affiorava anche nelle prime versioni parlamentari della legge di riforma), dove era fin troppo evidente l’intenzione di salvaguardare l’attuale insediamento della scuola media nell’ultimo triennio della scuola di base, magari rivisitato attribuendo all’ultimo anno di un ipotizzato modulo 2+1 uno spiccato carattere di orientamento-ponte verso gli indirizzi (già ben marcati) della scuola superiore. Una proposta che tutelerebbe l’attuale scuola media, le sue strutture, i suoi insegnanti, i suoi saperi, ma che sarebbe tutta a danno della scuola elementare, privata di un anno ed invitata - di fatto - a ridimensionare curricoli, insegnanti e progettualità.

E’ pur vero che il ciclo quinquennale "lungo" della scuola elementare appare in qualche caso sovradimensionato e ripetitivo (con ragazzi che in quinta elementare rischiano di annoiarsi o che, viceversa, in prima elementare sono stimolati ad accelerare gli apprendimenti), ma il suo eventuale ripensamento non può non comportare un pieno coinvolgimento della scuola media. Questa è, in fondo, la scelta operata dal legislatore.

 

Curricoli locali vs indirizzi nazionali

Il nuovo ordinamento dispiegherà i suoi effetti nell’era dell’autonomia, dunque è opportuno che molte delle soluzioni didattiche ed organizzative siano liberamente adottate dalle scuole nell’ambito del proprio piano dell’offerta formativa. Le regole di questa "devolution" sono già contenute nel Regolamento dell’autonomia (art. 8 del Dpr 275/1999), che comunque affida ad indirizzi nazionali alcune scelte in materia di curricolo (l’orario obbligatorio, le discipline fondamentali ed i relativi tempi, l’entità della quota locale, gli standard di apprendimento) e di gestione del personale (i criteri per gli organici funzionali, che saranno assegnati alle scuole dall’Amministrazione scolastica ex Dpr 233/1998). Non siamo quindi in presenza di una liberalizzazione totale dell’ordinamento (che porterebbe a ingiustificate sperequazioni) e questo orientamento giuridico legittima l’esigenza di fornire alcune indicazioni nazionali circa la modulazione del curricolo e la possibile organizzazione del settennio (5).

Si dovrebbe trattare di indicazioni molto sobrie (da adottare con un atto di indirizzo amministrativo), ferma restando la possibilità di ulteriori determinazioni locali, da motivare in forme adeguate.

Il profilo del settennio dovrebbe dunque scaturire non da una astratta contrapposizione di modelli ingegneristici (e poi, con quale criterio preferire l’uno rispetto all’altro?), ma dall’approfondimento dei compiti formativi attribuiti alla scuola di base, dalla loro equilibrata distribuzione lungo tutti e sette gli anni e dall’assegnazione di specifiche funzioni alle diverse fasi. La scelta, cioè, non dovrebbe essere "pilotata" da considerazioni strumentali (come salvare ora l’una ora l’altra delle scuole che si fondono; ove collocare l’uno o altro gruppo professionale in cerca di "accasamento", come rendere "indolore" l’operazione di costruzione della nuova scuola, ecc.), ma orientata da motivazioni squisitamente culturali, pedagogiche e didattiche: quali competenze di base promuovere nei ragazzi? con quali condizioni realizzarle effettivamente? come strutturare l’ambiente (o gli ambienti) di apprendimento?

La risposta dovrebbe scaturire anche da una analisi degli attuali ordinamenti della scuola di base (elementare e media), dei risultati da esse ottenuti, dallo scarto tra indicazioni di principio contenute nei rispettivi programmi (considerati ancora ampiamente validi) e caratteristiche reali dell’insegnamento realizzato nelle classi.

Se poi questa analisi potesse essere condivisa dai docenti e le soluzioni prospettate offrissero ad essi un quadro di riferimento certo di fronte a fumosi scenari, i docenti diventerebbero i migliori alleati per la costruzione e l’attuazione della riforma.

 

Saperi procedurali vs saperi dichiarativi

L’analisi dovrebbe essere "disinibita": perché, ad esempio, non riconoscere un eccesso di secondarizzazione nell’organizzazione modulare scaturita dalla riforma del 1990 che, soprattutto nella parte iniziale della scuola elementare, produce modelli didattici frettolosi, frammentari e sovraccarichi di stimoli, per altro troppo fugaci per lasciare un segno duraturo. I tre-quattro docenti per classe, che possono a volte diventare sei-sette, sembrano una misura eccessiva, che dovrebbe essere ridotta profittando proprio del nuovo "design" offerto dalla scuola di base (6). I primi due-tre anni potrebbero caratterizzarsi per una semplicità/continuità di presenze (non più di due docenti di base per ogni classe), per una delimitazione dei compiti formativi, da focalizzare sul sicuro apprendimento dei codici linguistici e matematici, cioè delle forme di rappresentazione necessarie per descrivere, formalizzare, contenere una realtà sempre più ampia e multiforme.

Se tutta la scuola di base è intitolata ai saperi procedurali (imparare ad utilizzare strumenti per cercare e "catturare" le conoscenze), piuttosto che ai saperi dichiarativi (padroneggiare conoscenze sempre più strutturate), i primi anni dovrebbero perseguire questo obiettivo in forme più sistematiche e precise di quanto oggi avvenga. Saper leggere, saper comprendere ciò che si è letto, scrivere correttamente sotto dettatura, fare un riassunto, costruire una scaletta di appunti, sono forse abilità vecchie (7), ma oggi vanno riscoperte attraverso una didattica ricca e operativa, ma anche calligraficamente sicura.

I contenuti dichiarativi saranno certamente presenti ma sotto forma di temi, argomenti, questioni, desunti direttamente dai contesti di vita degli allievi, dalla comunità di appartenenza, che via via si allarga anche con l’apporto di esperienze "mediali" sempre più pervasive. La preoccupazione di sistemare gli oggetti di conoscenza per scaffali disciplinari (o meglio, per grandi aree) dovrebbe essere "spostata" verso la seconda parte del ciclo di base, distendendo i contenuti in almeno un quadriennio.

Un curricolo disciplinare di storia, di scienze, di geografia, ecc., più disteso, potrebbe finalmente veicolare un’idea gnoseologica (formativa) della disciplina, cioè la sua vocazione a promuovere modi di pensare, di rappresentare, di comunicare, di organizzare conoscenze, contenendo l’enfasi sui soli repertori di contenuti. Per realizzare questa impresa, il lavoro comune tra insegnanti di scuola elementare e di scuola media, in team integrati di 3-4 docenti, potrebbe rivelarsi particolarmente fecondo. Il docente di scuola elementare metterà in gioco il suo sapere pratico, la capacità di inventare situazioni didattiche operative, di coinvolgere i ragazzi sotto il profilo affettivo ed emotivo, la cura nella relazione e nell’aiuto ai ragazzi. Il docente di scuola media metterà a disposizione la sua fedeltà ai saperi disciplinari, la incisività degli strumenti cognitivi e linguistici offerti, il necessario distanziamento dai vissuti e dalle percezioni immediate della realtà.

L’ultima parte della scuola di base potrebbe appunto qualificarsi per questo incontro via via più solido con l’organizzazione dei saperi (evitando però la frantumazione in 10-12 discipline di studio), che ritorna in modo sistematico sulle prime esperienze, viste come iniziale risveglio cognitivo e le fa evolvere con l’apporto di ambienti strutturati di apprendimento.

L’esame di stato previsto al termine del percorso di base settennale dovrebbe suggellare, socialmente e visivamente, questi obiettivi attraverso alcune prove emblematiche: in particolare, oltre ai più tradizionali compiti di italiano (da rivedere però in termini di capacità di padroneggiare una varietà di tipologie testuali) e di matematica (come capacità di affrontare e rappresentare situazioni problematiche, impostando la loro soluzione attraverso procedure formali), si dovrebbe dare molto spazio ad una prova di carattere operativo-progettuale (progettare, costruire o rappresentare un "manufatto" culturale), in cui far confluire saperi ed esperienze formative sviluppate lungo l’intero percorso attraverso la pratica del laboratorio (e dove si integrano linguaggi non verbali, multimedialità, abilità prassiche come il disegno, ecc.). L’esame di fine ciclo potrebbe retroagire su tutto il settennio, dando respiro e senso all’intero percorso.

 

Settennio vs sette anni

Vediamo ora più dettagliatamente come potrebbe configurarsi concretamente il curricolo della nuova scuola di base (8).

Un percorso unitario, ma articolato internamente, per farne risaltare la progressività. I corsi andrebbero pensati in verticale, tenuto conto della estrema frammentazione degli attuali insediamenti scolastici e della organizzazione didattica per cattedre verticali (nella scuola media) e orizzontale-verticale (per i moduli della scuola elementare). Lo sviluppo organizzativo verticale, cui rapportare continuità e discontinuità delle proposte curricolari e dell’intervento dei docenti, sembra meglio in grado di interpretare il senso della nuova scelta istituzionale, capace di gettare uno sguardo lungo sulla formazione di base.

Una struttura che non ripristini le vecchie gerarchie, ma che favorisca la loro integrazione, con alcune fasce di sovrapposizione verso la materna (il primo anno), tra l’elementare e la media (il 4° e 5° anno) e verso la secondaria (il 6° e 7° anno). Volendo assegnare una periodizzazione interna al percorso si potrebbe parlare di uno schema 3+4 (ove si coglie subito la novità rispetto agli attuali segmenti: il primo triennio non è una scuola elementare "ridotta", il secondo quadriennio non è una scuola media "potenziata"). In entrambe le zone si dovrebbero trovare tracce abbondanti delle precedenti identità, contaminati dalle esperienze contigue.

Una produzione innovativa di materiali didattici e di studio (manuali ed antologie per il secondo quadriennio; libri da "gustare" e biblioteche di classe per il primo triennio), ma con un deciso spostamento verso le nuove tecnologie multimediali e la disponibilità di accesso alle reti ed alla formazione a distanza. Almeno un computer multimediale in ogni classe, collegato in rete, con docenti di classe in grado di integrarli nella didattica quotidiana è una soluzione preferibile al potenziamento di laboratori ad hoc, gestiti da docenti ad hoc.

Una "nervatura" leggera che segnali il procedere del curricolo verticale, piuttosto che rimarcare le antiche distinzioni. Il curricolo, nell’intera sua durata settennale, dovrebbe promuovere abilità procedurali fondamentali di carattere logico e linguistico (i vecchi alfabeti della lingua e della matematica) ed i primi incontri con i nuovi alfabeti (lingua straniera e linguaggi non verbali, da quelli espressivi a quelli multimediali). I primi potrebbero essere affidati a docenti di classe/modulo, i secondi ad un sistema "aperto" di laboratori, affidati a docenti "specialisti" a disposizione dell’intera scuola (e quindi non titolari di classi o moduli). I curricoli relativi alle discipline dichiarative, di contenuto (storia, scienze, geografia, gli oggetti tecnologici ed artistici) potrebbero avere uno sviluppo quadriennale e insediarsi nella parte finale del ciclo, per essere affidati a docenti di base, che costituiscono team integrati (di modulo biennale verticale), affiancati dai docenti di laboratorio che agiscono invece sull’intero settennio.

Una migliore distinzione tra i compiti formativi della parte iniziale del ciclo e di quella terminale, cui assegnare docenti con sicura competenza (perché legati alla esperienza professionale precedente). Negli anni iniziali del percorso di base conviene rafforzare l’attenzione verso la padronanza dei codici formali elementari (lingua e logica), rispetto ai quali si manifestano oggi vistose lacune. Il leggere, scrivere, far di conto, possono tornare ad essere la "mission" della scuola di base, non per retrocedere ad una improbabile e povera "alfabetizzazione strumentale", ma per consolidare le premesse di quella "alfabetizzazione funzionale" (comprendere e produrre testi non esclusivamente legati alla propria esperienza quotidiana) che rappresenta oggi la soglia indispensabile per partecipare con un minimo di autonomia alla vita sociale. Uno screening all’inizio del terzo anno potrebbe consentire di osservare i reali livelli di sviluppo delle competenze logico-linguistiche di base e di intervenire tempestivamente, prima di inoltrarsi verso più complessi approcci conoscitivi. I primi anni del ciclo di base, sgombrati da una preoccupazione contenutistica, possono rappresentare un periodo fertile per l’incontro ed il consolidamento di questa prima alfabetizzazione. Per tale impresa conviene semplificare il modello organizzativo sull’esempio delle classi a tempo pieno e di scuola dell’infanzia. Due insegnanti (uno per l’area umanistico-letteraria, l’altro per quella logica e matematica) "dedicati" esclusivamente al lavoro con una sola classe (evitando la diaspora dei moduli) potrebbero rappresentare l’asse forte, il baricentro, del primo ciclo. La continuità verticale di tale sistema didattico, aperto nell’anno iniziale ad innesti con la scuola dell’infanzia, e nell’anno terminale (il terzo) all’arricchimento con ulteriori presenze specialistiche potrebbe rappresentare un elemento di miglioramento rispetto alla più incerta e casuale situazione di oggi.

Adozione di un ritmo curricolare per bienni (con il primo anno della scuola di base connesso all’ultimo anno della scuola dell’infanzia), come più idoneo ad interpretare la verticalità salvaguardando una certa distensione dei tempi ed un rallentamento della valutazione (che avrebbe luogo solo al termine dei bienni o, ancor meglio, all’inizio di ogni biennio, per farne risaltare il valore diagnostico e formativo. L’articolazione del percorso in bienni verticali (ci riferiamo soprattutto a quelli relativi al 4°-5° anno e al 6°-7° anno) potrebbe aprire uno spazio effettivo di ricerca didattica: il modulo biennale potrebbe caratterizzarsi come ambiente di apprendimento e non semplicemente come abbinamento di due classi contigue, assegnate allo stesso team (optiamo comunque per team stabilmente dedicati al 2° e al 3° biennio). L’organizzazione modulare dei gruppi di apprendimento, preannunciata dalla riforma della scuola elementare del 1990 con la legge 148, ma mai effettivamente realizzata nel suo senso pieno, potrebbe dispiegare nell’ultima parte della scuola di base le sue potenzialità per consentire percorsi individuali di apprendimento, attività elettive, momenti di rinforzo, piste personalizzate di orientamento (specialmente nell’ultimo biennio).

 

Maestri vs professori

L’utilizzazione del personale docente deve riguardare l’intero ciclo di base (con piena mobilità verticale), ma deve valorizzare le competenze esistenti, incentivando percorsi personali di sviluppo professionale. Uno dei motivi di tiepidezza dei docenti nei confronti del riordino dei cicli è la totale incertezza sulla futura collocazione professionale nel ciclo settennale, con il timore di essere inadeguati rispetto ai compiti che si ritengono troppo diversi da quelli per i quali si è stati formati e reclutati. La preoccupazione è fondata.

Non possiamo immaginare schiere di docenti desiderosi di cambiare traiettoria professionale (modificando contenuti di insegnamento, metodologie, età di riferimento degli alunni): una simile prospettiva può essere incentivata (con proposte di formazione, migliori condizioni di lavoro, vantaggi di carriera, ecc.), ma non può essere data per scontata.

L’articolazione interna proposta (il "3+4") può favorire un primo "accasamento" di sicurezza, dal quale proiettarsi verso nuove collocazioni professionali. Molti maestri elementari opteranno per il triennio iniziale, ritenendolo più confacente alle proprie attitudini, altri si orienteranno (magari con una offerta supplementare di formazione disciplinare) verso il quadriennio, per costituire team integrati con i colleghi delle medie su grandi aree disciplinari. Viceversa, gli insegnanti provenienti dalla scuola media opteranno quasi sicuramente per il quadriennio terminale, ma per alcuni di essi (quelli, ad esempio, specializzati sulle "educazioni") potrebbe essere una sopresa piacevole operare su laboratori lungo tutto il settennio (con flessibilità di orario ed incentivi economici). Nell’ottica di nuovi profili iniziali di formazione per i docenti di base, conviene dunque assecondare le propensioni personali dei docenti, non scostandosi troppo dalle attuali collocazioni. Una mobilità esterna verso la scuola superiore potrebbe rispondere ad ulteriori esigenze di ricollocazione professionale. Si dovrà però avere cura di non impoverire troppo la docenza della scuola di base [ma chi lascerà la scuola di base perché si sente derubricato, che tipo di insegnante sarà per la "nuova" scuola secondaria che, nella sua prima parte, accoglierà tutti i ragazzi dai 13 ai 15 anni?].

 

Aule vs laboratori

E’ preferibile che i nuovi corsi settennali siano collocati nello stesso edificio (ancora meglio, in plessi contigui e coordinati, con servizi comuni, mense, palestre, aree verdi, ecc.). Un corso verticale unitario trova giovamento certamente dalla collocazione nel medesimo edificio (per le possibili azioni didattiche coordinate e integrate), ma occorrerà garantire - comunque - la qualità degli spazi, non accontentandosi della semplice disponibilità di locali da adibire ad aule, ma di una gamma più ampia di spazi funzionali: almeno un atelier, un’aula multimediale, uno spazio per lo studio e la lettura per ogni modulo verticale (palestre e servizi di refezione potrebbero essere modulati su 2 corsi settennali). Una soluzione simile può utilizzare la contrazione di circa il 12 % di utenti prevista dal compattamento dei cicli (un’aula vuota in più ogni 10 delle attuali), ma deve fare i conti con la debolezza strutturale di numerosi plessi di scuola elementare (con una notevole incidenza dei plessi con sole cinque classi/aule). Non sarà agevole utilizzare i medesimi edifici per ospitare interi cicli settennali. In quest’ultimo caso, assai probabile, la "nervatura" curricolare 3+4 potrebbe suggerire una diversa collocazione spaziale: nei plessi più piccoli e più vicini alle comunità di appartenenza si potrebbero accogliere le sezioni di scuola dell’infanzia e dei primi anni del ciclo di base (indicativamente i primi tre); negli edifici più consistenti si potrebbero ospitare i quadrienni integrati della seconda parte del ciclo di base. Nelle aree urbane non dovrebbe essere difficile accogliere cicli settennali negli edifici, salvaguardando comunque la specificità e la qualità funzionale degli spazi.

 

Lentezza vs velocità

Come si potrà notare, la quantità di problemi connessi alla nascita di una nuova istituzione scolastica è di tale portata che va affrontata con estrema cautela. Non si tratta di rallentare il processo riformatore, ma di chiarire fin dall’inizio tutte le condizioni (curricolari, professionali, organizzative) per un avvio del nuovo modello.

Si può optare per la data dell’1 settembre 2001, coinvolgendo le prime classi di base, avendo però già definito un primo quadro curricolare per il settennio, almeno per le discipline fondamentali. La tabella di marcia potrebbe prevedere un avvio molto graduale, investendo una nuova classe ogni anno (magari studiando un qualche meccanismo tecnico per evitare il temuto raddoppio di utenti nell’anno critico in cui tredicenni e quattordicenni si presenteranno contemporaneamente al primo anno delle superiori, uscendone maturi a 18 e 19 anni). Si tratta di una tabella di tutta sicurezza che però potrebbe essere accelerata volontariamente nelle situazioni più mature, ad esempio proprio in quegli istituti comprensivi di scuola materna, elementare e media (legge 97/1994) che già da qualche anno sono alle prese con un generoso tentativo di sperimentare curricoli integrati in continuità (9). L’istituto comprensivo potrebbe rappresentare un vero e proprio laboratorio per la scuola di base, consentendo di adottare in tempi più brevi (2-3 anni) il nuovo curricolo settennale, magari con il grosso incentivo di poter usufruire (nel caso di una sperimentazione anticipata e generalizzata), dell'organico precedente "tarato" sulle otto classi (10). Un surplus "doveroso" da investire nell’innovazione, che sgombrerebbe definitivamente il campo dall’impressione che la riforma (soprattutto con l’anticipo dell’uscita dal sistema scolastico a 18 anni) sia stata immaginata soprattutto per contenere le spese del personale docente.

Il modello di sviluppo della riforma dovrebbe quindi prevedere uno scadenzario di massima (le date certe entro cui…), ma consentire anche ad ogni scuola di trovare i propri tempi per impegnarsi nel cambiamento, avendone in cambio incentivi e riconoscimenti pubblici.

Note:

E.Bertonelli-G.Rodano, Il laboratorio della riforma. Autonomia, competenze e curricoli, in "Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione", Dossier 1, Le Monnier, Firenze, 2000.

P.Boscolo, Continuità, apprendimenti e competenze in un curricolo verticale, in "Gli istituti comprensivi", Quaderni e documenti degli Annali della P.I., Le Monnier, Firenze, n. 83, 1998.

B.S..Bloom, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Armando, Roma, 1979.

ETS-NAEP, Learning science, ETS, Princeton, 1992.

ETS-NAEP, Learning mathematics, ETS, Princeton, 1992.

L.Guasti, Valutazione e innovazione, De Agostini, Bergamo, 1996.

G.Cerini-D.Cristanini, A scuola di autonomia. Dal Pei al Pof, Tecnodid, Napoli, 2000.

G.Cerini, Dalla scuola primaria alla scuola di base, Tecnodid, Napoli, 2000.

R.Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Bari, 2000.

Iter, Il riordino dei cicli scolastici, Quaderni 2, Iter, Treccani, Roma, 1999

G.Cerini-M.Spinosi, La scuola in verticale. Istituti comprensivi e riordino dei cicli, Tecnodid, Napoli, 2000.

Ministero P.I.-Direzione Generale I° grado, L’istituto comprensivo sperimentale: laboratorio per l’innovazione. Rapporto finale, 3 voll., Roma, 2000.