TRA UNA CONSULTAZIONE E L’ALTRA
LA SCUOLA DI FRONTE AL DOCUMENTO SUI "CONTENUTI ESSENZIALI PER LA FORMAZIONE DI BASE"

di Giancarlo Cerini

 

 

Autoreferenziali per necessità?

Una delle critiche che spesso sono state rivolte all’ "attivismo" del Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer è quella di aver proceduto sulla strada delle riforme e delle proposte di cambiamento, senza troppo curarsi del parere e del coinvolgimento attivo degli insegnanti. Il mondo della scuola si è spesso trovato di fronte a proposte di grande respiro, come quella sul riordino dei cicli o quella sui "saperi" fondamentali, ma con la sensazione di non aver partecipato alla elaborazione iniziale delle medesime, e quindi stretto nella spirale di un "dissenso" sul metodo o di un "consenso" quasi dovuto (pena l’accusa di autoreferenzialità).

Accordo sul lavoro (settembre 1996), ma ancor prima il programma dell’Ulivo (primavera 1996), e successivamente la legge Bassanini (marzo 1997, sull’autonomia scolastica, ma collegata ad un più ampio provvedimento sul federalismo amministrativo) o ancora l’operazione 44 saggi (1997-98): si sono rivelate altrettante tessere portanti di un mosaico riformatore pensato al di fuori dei "soliti" circuiti degli addetti ai lavori. Tutto ciò può rappresentare un punto di forza, perché la scuola diventa questione "nazionale" e prioritaria per la società civile (la cultura, le imprese, le forze sociali, gli enti locali, ecc.); ma anche un punto di debolezza, per la sensazione di estraneità che gli uomini e le donne di scuola hanno spesso provato di fronte alle iniziative del Ministro, e quindi per la progressiva perdita di "emozione" e "voglia" di impegnarsi nelle riforme.

 

Alla ricerca di una strategia comunicativa

E’ in questo scenario che va inserita la strategia delle tre consultazioni sui tre eventi top della "Grande Riforma": i cicli, l’autonomia, i saperi; essa rappresenta il tentativo di riaprire un dialogo con gli operatori scolastici, considerandoli - finalmente - interlocutori affidabili ed interessanti dei processi di cambiamenti (possibili protagonisti attivi e non semplici spettatori). L’impresa è apparsa davvero ardua, con 800.000 insegnanti in servizio, per non parlare degli studenti, dei genitori e degli altri operatori scolastici. A qualcuno ha dato l’idea di un’operazione vagamente populistica. Ma – vien da chiedersi - cos’è il "populismo" oggi, nell’epoca mass-mediologica e dell’accesso illimitato a Internet, con la globalizzazione dell’informazione e la "rete" come metafora di un nuovo pensiero orizzontale, interattivo e quindi naturaliter democratico?

Non è facile soddisfare la maggiore richiesta di informazione, di partecipazione, di consenso "anticipato" che è frutto della società "cognitiva". Pericolosa può essere la strada dei sondaggi d’opinione affidata alle agenzie specializzate. Eppure si è percorsa anche questa nel gennaio 1997: percentuali altisonanti a favore della riforma (ma, per quale riordino dei cicli? sulla base di quali domande? e con quale livello di approfondimento?). Già si vagheggia di una sorta di "auditel" installato in un campione significativo di scuole del nostro paese (grazie all’EDS, l’agenzia di supporto telematico al Ministero), in grado di cogliere in tempo reale gli umori degli operatori sulle prospettive della politica scolastica. Oppure di una comunità scientifica (quella dei docenti) in dialogo permanente, tramite i tentacoli della grande piovra-WEB. Se non che appare ancora troppo esigua la percentuale di docenti "cybernauti", forse minore di quella dei loro allievi (è questo è senz’altro un nuovo problema inter-generazionale).

E poi la democrazia è un mix equilibrato tra responsabilità della decisione politica, e coralità della partecipazione, in uno spazio di interazione (di ascolto della base, ma anche di scelte di indirizzo; di domande specifiche, ma anche di sintesi tra interessi diversi) che è proprio della politica. Non saranno certo alcune consultazioni di massa, nel nostro caso affrettate e poco strutturate, a colmare il divario tra rappresentanti e rappresentati, a costruire spazi di effettiva iniziativa politica. Senza dubbio le formazioni politiche (nelle loro cangianti ma friabili aggregazioni), i sindacati (spesso appesantiti dal fardello di contratti deludenti), le associazioni professionali dei docenti (alcune imbolsite da una certa patina del tempo che fu) potrebbero riscoprire in questi spazi non presidiati dalle istituzioni le ragioni di una nuova legittimazione. E noi del Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) non ci sottraiamo a questo ruolo. Anzi, a guardare il successo delle nostre attività (dai grandi convegni nazionali alle centinaia di incontri e meeting quotidiani) si può affermare che la continuità dell’iniziativa del Cidi rappresenti uno dei punti forti della politica scolastica italiana. Ma qualcuno, nel "palazzo", se ne è accorto?

Detto questo, non vogliamo sottovalutare la strategia consultiva, messa in atto nella primavera del 1998. Noi "riformatori" ci siamo comunque impegnati in una "campagna" di sostegno alle consultazioni, che ha avuto al suo centro numerose iniziative (grandi e piccole, centrali o capillari, interne od esterne, di discussione o di "produzione") attorno ai temi dell’autonomia e dei saperi. Anzi, abbiamo chiesto fin dall’inizio la contestualità tra la prospettiva dell’autonomia ed il disegno culturale, proprio perché preoccupati che una autonomia "senza progetto" veicolasse una interpretazione "aziendalistica" o, peggio, mercantile e privatistica della scuola (che resta invece un bene comune di carattere costituzionale).

La critica che si poteva fare al progetto riformatore del Ministro (e, per lui, dell'intera coalizione dell'Ulivo) era di spostare l’attenzione sulle grandi ingegnerie dei CICLI, sugli ingredienti dell’AUTONOMIA, dimenticando di dare un’anima, un cuore, all’intero progetto. Cosa mettere nei nuovi "box" dei cicli? Quale senso dare all’autonomia, per non ridurla al solo mito della flessibilità? Sono domande che rimandano ad un’idea di scuola, all’idea di rendere esplicita la "mission" che la società attribuisce alla scuola e che gli operatori scolastici intendono assumersi con responsabilità professionale. Questo è, in fondo, al di là degli specifici contenuti (tutti da analizzare, da approfondire e sviluppare) il pregio del Documento dei Saggi, anzi del complesso dei materiali prodotti in questi mesi dalla Commissione di esperti coordinata dal Prof. Roberto Maragliano. Il documento sui "contenuti fondamentali" vuole sollecitare una presa di posizione, dentro la scuola ma anche oltre, sui "saperi" essenziali (qui sta per "competenze" cognitive e sociali) che devono essere padroneggiati da tutti i membri delle nuove generazioni. Ecco perché, nell’ultima versione del testo, l’attenzione viene giustamente spostata sulla scuola obbligatoria o di base...

Non sarebbe un risultato da poco se, al termine di un dibattito che dovrà necessariamente disporre di tempi più distesi per la sedimentazione, avessimo tutti idee un po’ più chiare e condivise sul ruolo della scuola e della formazione, alle soglie del terzo millennio.

 

Prime indicazioni dalla consultazione

La consultazione sui "Contenuti essenziali" ha ottenuto una minore adesione "popolare" rispetto alla analoga iniziativa sull’autonomia scolastica. In genere le risposte pervenute sono all’incirca un terzo di quelle inoltrate per il parere sulla "Bozza" del Regolamento dell’autonomia organizzativa e didattica. Il dato è certamente deludente, se pensiamo che era in discussione una sorta di "tavola" fondamentale degli assi culturali della scuola del nostro paese. Va però posto in relazione all’infelice periodo scelto per l’iniziativa (troppo a ridosso del termine dell’anno scolastico), ad una certa "stanchezza" tra gli operatori determinata dalla precedente consultazione sull’autonomia, dalla oggettiva difficoltà e complessità dei temi richiamati dal Documento dei Saggi.

Si è inoltre registrata l’assenza dal dibattito di buona parte della scuola secondaria superiore che, alle motivazioni precedenti ha sommato una percezione di estraneità verso il tema proposto (la formazione nella scuola di base o dell’obbligo). L’atteggiamento deve far riflettere i decisori politici, in vista delle prospettate iniziative di riforma del settore, sia attraverso l’estensione dell’obbligo scolastico a 16 anni, sia mediante un più radicale riordino del ciclo secondario. Analogamente ci si potrebbe riferire alla scuola dell’infanzia: l’esiguità delle risposte (in genere assorbite all’interno di pareri espressi da gruppi "misti" con la scuola elementare) è da porre in relazione alla scelta (implicita nel documento) di considerare come punto di avvio del discorso sui "saperi" la scuola elementare o tutt’al più solo il 5° anno del bambino.

Anche l’assenza dal dibattito dei soggetti non professionali (genitori e studenti), o degli organi collegiali, fa pensare ad una difficoltà di comunicazione interna tra le diverse componenti della comunità scolastica, resa più evidente dalla specificità del tema, vissuto come dimensione propria, se non esclusiva, degli addetti ai lavori.

Nonostante la lettera di accompagnamento del documento, firmata dal Ministro della P.I., lasciasse intravedere un successivo processo di elaborazione di curricoli essenziali, a partire dalla prima riflessione stimolata dal documento sui "saperi fondamentali", il mondo della scuola ha riservato all’iniziativa una tiepida accoglienza, non considerandola ancora di immediata rilevanza per il proprio lavoro a scuola. E’ comunque diffusa e condivisa la convinzione che il tema non debba essere lasciato cadere ed anzi debba essere oggetto di ulteriori iniziative di approfondimento e di studio, nella prospettiva di un confronto serrato e significativo tra indicazioni contenute nei documenti nazionali e concrete pratiche curricolari delle scuole. Questo potrebbe diventare l’obiettivo centrale per le numerose azioni di monitoraggio che sono preannunciate per accompagnare le scuole lungo le strade dell’autonomia. Anche il ruolo dei Nuclei provinciali per il sostegno all’autonomia ne potrebbe risultare tonificato, e orientato in termini più qualitativi e professionali piuttosto che tecnici ed amministrativi.

 

Il quadro valoriale

Dalle prime risposte emerge una condivisione "sofferta" della premessa del documento dei saggi, che sembra chiedere una scuola più aderente alle attese della società, più attenta alle dinamiche della modernità. Si percepisce la preoccupazione per una pressione eccessiva sulla scuola operata dal mondo esterno, che si potrebbe tradurre in una finalizzazione "pratica" del corso di studi, e nella formazione di "consumatori" inconsapevoli attori di un mercato sempre più globale e pervasivo. Molti giudicano troppo debole la risposta della scuola, che sarebbe anch’essa abbagliata dal luccichio delle nuove vetrine tecnologiche. Diffusi sono i dubbi e le critiche per un presunto cedimento verso le mercanzie multimediali, a scapito di un più solido tirocinio agli alfabeti – faticoso ma emancipatorio.

Probabilmente la polemica – tra alfabetizzati ed analfabeti (per riprendere una provocatoria annotazione di A. Abruzzese) - va oltre la stessa lettera del documento ed è stata eccessivamente "montata" da incidenti "diplomatici" tra vari esponenti del mondo accademico ed ultimamente, tra il coordinatore Roberto Maragliano (considerato resaponsabile della "via multimediale" all’an-alfabetismo) e altri intellettuali (ertisi a paladini della cultura alfabetica). Ricordiamo tra tutti Lucio Russo ed il suo pamphlet "Segmenti e bastoncini" (Feltrinelli, 1998) o i vari movimenti di base per la difesa della cultura classica. Tali polemiche hanno avuto un’eco senz’altro nelle risposte delle scuole, anche se queste ultime hanno preferito ricorrere al più tradizionale lessico pedagogico della cultura "disinteressata", dei valori della persona, del richiamo alle finalità educative.

Sono possibili punti di contatto tra queste diverse sensibilità? Noi pensiamo di sì e non scorgiamo questo insanabile conflitto tra "apocalittici" e "integrati". Interrogarsi, come invitano a fare i Saggi, sui "saperi" e sul progetto culturale, sulle competenze "durature" e irrinunciabili, significa già presidiare l’autonomia culturale ed educativa del nostro sistema formativo, di fronte alla aggressività dei mercati ed alle chiusure nei localismi territoriali e sociali. Pensare e costruire un progetto formativo unitario e solidale per il nostro Paese è un’opzione democratica compiuta dalla Commissione dei Saggi, che troppo spesso viene dimenticata nella vis polemica.

 

La continuità del curricolo

In questo quadro le schede provenienti dalla scuola elementare sottolineano la coerenza tra l’impianto dei programmi del 1985 ed il nuovo documento (entrambi risentono di un approccio "bruneriano" al valore formativo delle discipline, particolarmente evidente nella parte relativa alle scienze). Le maestre ed i maestri, però, si aspettavano una riflessione più mirata ai temi della scuola di base. I saggi ci parlano della scuola di tutti, ma sembrano preoccuparsi piuttosto della scuola "alta". Invece, la novità dell’operazione sta proprio nel superare rigidi schematismi e separazioni tra ciclo e ciclo, in vista di una prospettiva unitaria, dai 3 ai 18 anni. La verticalità sarà dunque uno degli indicatori di qualità dei nuovi curricoli. In questa ottica la scuola dell’infanzia ed elementare rivendicano una maggiore "visibilità" del loro progetto formativo, determinante nel primo sviluppo di abilità strategiche, come quelle di comprensione e produzione di testi, di problematizzazione, di formalizzazione e decontestualizzazione. Tutte qualità indispensabili ai fini del consolidamento e dell’espansione successiva dei saperi.

La scuola media partecipa al dibattito sui "saperi" in evidente affanno. Messa alle strette da un progetto di riordino dei cicli che sembra sanzionarne la "scomparsa", utilizza la consultazione per interrogarsi sui propri compiti formativi, per rivendicarne l’essenzialità, condividendo l’esigenza di una delimitazione del curricolo (ci si è forse resi conto della improduttività delle troppe educazioni che affastellano il curricolo fondamentale). Ritorna il tema dei valori della persona, che spesso impropriamente si associa al tema dell’orientamento, ma tornano anche vecchi e nuovi fantasmi: qualche nostalgia per il voto, qualche difesa d’ufficio del tema, o addirittura una strizzatina d’occhio al latino. Sembra, ad alcuni, che rinnovare gli antichi fasti di una Scuola Media saggiamente selettiva possa contribuire a "salvarne l’anima".

La scuola dell’obbligo, in generale, guarda con perplessità al tema degli standard formativi, temendo che un’interpretazione troppo rigida dei traguardi da raggiungere possa mettere "fuori gioco" le fasce più deboli di una utenza ormai assai differenziata. Ecco perché si "approfitta" della consultazione per chiedere vistosi miglioramenti nelle condizioni di lavoro (numero degli alunni per classe, presenza di handicap, riconoscimenti economici per i docenti, nuove opportunità di formazione, ecc.), per non ridurre il documento nell’ennesima "predica inutile". Si tratta di una lamentazione assai diffusa, che spesso mette in ombra la stessa valutazione approfondita delle questioni culturali poste dal documento.

La scuola superiore sembra invece valutare con sospetto la previsione di un alleggerimento dei contenuti, per la preoccupazione che una simile operazione possa tradursi in un’eccessiva semplificazione del progetto culturale e nell’abbassamento dei livelli di preparazione.

 

I contenuti irrinunciabili

Si nota in molti lettori una certa qual delusione, per non riuscire a trovare nel documento tracce convincenti dei contenuti da considerare irrinunciabili o, almeno, dei criteri di selezione delle tematiche culturali portanti. E’ pur vero che il Documento non è il testo abbreviato dei nuovi programmi o di curricoli già definiti (molti sembrano caduti in questo equivoco), ma rappresenta solo una ricognizione preliminare degli assi culturali della scuola del futuro.

I docenti lamentano però l’uso di un linguaggio non sempre chiaro: non è la stessa cosa parlare di abilità o di saperi, di contenuti o di competenze, di discipline o di trasversalità. Il documento è intitolato ai "contenuti essenziali", ma non si esplicita il profilo del patrimonio culturale da trasmettere ai giovani. Molti docenti avrebbero desiderato trovare indicazioni su "quali contenuti mantengano la validità necessaria per la costruzione di un’identità in grado di far sentire il senso di appartenenza ad una cultura e nello stesso tempo capace di promuovere i valori interculturali propri dei ‘cittadini del mondo’ (da una scheda della Scuola elementare di Cesena, 4° circolo).

Emerge dal documento un’attenzione "bruneriana" al concetto di competenza, intesa come "guadagno" realizzabili dai soggetti in formazione attraverso l’incontro con i sistemi simbolico-culturali propri della società dei "grandi", mediati dalle discipline scolastiche. La competenza si riferisce a quell’insieme di conoscenze dichiarative (il sapere), procedurali (il saper fare) o immaginative (il saper pensare) che definiscono il senso formativo del progetto culturale. Mentre la scuola di base si ritrova in questa immagine pedagogica, la scuola superiore è più diffidente perché teme uno spostamento verso una generica attenzione alle dimensioni antropologiche, ai bisogni degli alunni, fino a trasformare la scuola in un generico ambiente di socializzazione. Si possono citare, in proposito, le vigorose bordate contro la "pedagogizzazione" del curricolo espresse in testi polemici, come "La scuola sospesa" di Giulio Ferroni (Einaudi, 1997).

In effetti, ridurre la dimensione contenutistica del curricolo ad una "serie succinta" di tematiche culturali mette a dura prova anche il campo degli innovatori, che chiedono maggiori garanzie sulla scelta dei nuclei tematici "forti" e temono la frantumazione del curricolo in non meglio precisate scansioni modulari personalizzate. La richiesta di chiarimenti e di approfondimenti sui "moduli" era evidente anche nella parallela consultazione sull’autonomia, ove il tema della modularità, dei crediti e dei debiti formativi, della scomposizione e ricomposizione del curricolo in unità formative capitalizzabili ha tenuto banco.

 

Testi scritti o "scritture multimediali"?

La scuola sembra condividere le indicazioni del Documento a favore di un riposizionamento dell’educazione linguistica, in grado di garantire una padronanza sicura della lingua parlata e scritta, di quelle capacità di "argomentazione" che i Saggi ritengono largamente compromessa nella società odierna. Risulta convincente per gli insegnanti l’ampiezza di prospettive conferita alla formazione linguistica, interpretata come educazione alla complessità della comunicazione. Disco verde dunque nei confronti di un rinnovamento delle metodologie, con largo ricorso ad attività di comprensione, di produzione, di rielaborazione, di scritture "brevi" e funzionali (pratiche, per altro già diffuse nelle migliori tradizioni didattiche). Traspaiono tuttavia alcune preoccupazioni circa la sottovalutazione di forme tipiche della produzione linguistica scritta, considerate invece utili (es. il tema) e qualche contrasto circa l’estensione dell’insegnamento di più lingue straniere.

Tra i punti più controversi è il presunto spostamento dell’asse culturale della "nuova" scuola verso i lidi incerti della multimedialità. Per il vero, il Documento non mette in contrapposizione testi scritti e nuove "scritture multimediali", semmai raccomanda l’integrazione tra una pluralità di codici (verbali, scritti, visivi, sonori) per riscoprire il piacere della lettura –in senso largo- e ritornare alla centralità del libro e dei testi scritti –in senso stretto.

Solo per celia si può affermare che la multimedialità è videogioco e non piuttosto un ambiente di apprendimento "plurimodale", ove i dati visivi ed uditivi riacquistano – grazie a supporti tecnologici raffinati - una forte pregnanza cognitiva. La iper-testualità e la multimedialità offrono infatti la possibilità di rovesciare la logica verticale dei testi scritti, per entrare in una logica orizzontale che rimette nelle mani del fruitore le strategie di comprensione e interpretazione del testo, di costruzione dei significati e delle connessioni, con la possibilità di scegliersi finanche il proprio metodo/canale preferito di apprendimento (visivo, sonoro, scritto, ecc.).

Se la classe diventa un ambiente multimediale (non solo con i computer, ma negli stili di insegnamento/apprendimento, nei materiali di studio, ecc.) forse può ri-sintonizzarsi con l’universo multimediale in cui vivono immersi ormai i nostri ragazzi. Se di fronte alle loro difficoltà di apprendimento i docenti sapessero immaginare appigli, metafore, analogie, mediazioni comunicative efficaci, potrebbero forse "catturare" il pensiero di molti alunni, quanto meno di quelli che poggiano le loro strategie cognitive prevalentemente su dati percettivi, sonori, cinestesici.

Così impostata, ma sono pochi gli interlocutori a farlo, la "querelle" diventerebbe molto più interessante e produttiva per la scuola. Anche l’andamento di questo filone del dibattito dimostra l’esigenza di ritornare con più pacatezza su tali temi, alla ricerca non di facili scontri, ma di inevitabili integrazioni.

 

Le due culture: quella scientifica, ad esempio…

Assai apprezzato dalla scuola è stato lo sforzo di reingegnerizzazione dell’educazione scientifica, come dimensione formativa essenziale del cittadino contemporaneo. Ciò anche per superare un vistoso "gap" ormai denunciato in tutte le ricerche e comparazioni internazionali cui il nostro paese non può più sottrarsi. Se ne trova un’eco anche nel documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF, 1999-2001) ove si denuncia la "marginalità della cultura scientifica e tecnologica" nelle nostre aule, ponendola quindi tra le emergenze della politica, non solo scolastica, per i prossimi anni.

Sembra di rivivere la stagione degli anni ’60, quando molto del rinnovamento dei curricoli passò proprio attraverso la riscoperta del valore formativo delle discipline scientifiche. Come non ricordare Jerome Bruner e l’operazione dei "Saggi" riuniti a Woods Hole, negli States, per vincere la sfida con gli Sputnik sovietici!

Non si possono che condividere le affermazioni, contenute nel documento dei Saggi, sul dinamismo tra "momento applicativo e d’indagine e quello cognitivo-intellettuale" dell’approccio alle scienze. Un intreccio, per altro, già suggerito dai programmi di quasi tutti i gradi scolastici, ma che non trovano pratica attuazione in classe. Lo scarto tra "dichiarato" ed "agito", tra programmi vigenti e curricoli reali, è un leit-motiv diffuso tra gli operatori scolastici, e li porta a chiedere – in quasi tutte le schede di risposta - scelte coerenti e incisive sul piano degli investimenti, delle strutture, della formazione in servizio.

Leggendo il breve paragrafo dedicato alle scienze si corre subito con la mente oltre, verso gli altri campi disciplinari, giacchè le operazioni cognitive richiamate da un buon insegnamento/apprendimento delle scienze (osservare, fare ipotesi, modellizzare, schematizzare, formalizzare) sono trasversali e portanti di una formazione culturale di base (intera e non dimezzata).

Anche la matematica può partecipare a questo rilancio se si propone una esplicita "alleanza" con le altre aree della conoscenza; se – ad esempio - i ragazzi imparano ad utilizzare idee e tecniche matematiche nella soluzione di problemi diversi (di carattere sociale, economico, ecc.). Ma – si annota con preoccupazione dalle scuole secondarie - operatività, concretezza, matematica del quotidiano non possono esaurire tutte le potenzialità (formali, perciò astratte) della matematica. Meno bastoncini e più segmenti, suggeriscono schiere di "professori" attenti lettori di L. Russo (v. sopra), forse dimenticando che già nella scuola materna (degli Orientamenti del 1991) i bambini incontrano la matematica o, meglio, "lo spazio, l’ordine, la misura", (o le scienze, la lingua, l’arte e tutti gli altri sistemi simbolico-culturali) come forme utili a dare ordine ad esperienze, emozioni, conoscenze. In fondo, anche se i Saggi sembrano dimenticarlo, il gioco dell’apprendere (con le discipline) è proprio questo già a 3 anni, come sottolineano, con una punta di orgoglio le maestre delle scuole dell’infanzia.

 

Concludendo: non si vive di soli saperi…

Gli spazi per le osservazioni conclusive di carattere generale sono stati tra i più utilizzati da chi ha risposto alla consultazione (prevalentemente i docenti, spesso in gruppi di discussione, più raramente negli organi collegiali ufficiali). Gli insegnanti si soffermano su una fitta serie di richieste per rendere attuabili le enunciazioni di principio contenute nel documento.

Si auspica intanto un maggior respiro educativo e valoriale del testo, poiché si teme che l’operazione "saperi essenziali" si riduca ad una mera elencazione di contenuti e di obiettivi, che confermerebbe la logica del "consumo" di programmi e didattiche. Si reclama un maggior coordinamento tra i diversi cicli scolastici, in un’ottica di continuità e coerenza, centrata sulla padronanza di abilità cognitive di base.

In particolare la scuola elementare e materna riconoscono una forte coerenza con le indicazioni programmatiche del 1985 (e con gli Orientamenti del 1991), ma auspicano una migliore formazione dei docenti, la disponibilità di risorse e strutture, una maggiore attenzione alla continuità del curricolo. Si suggerisce un più ampio coinvolgimento delle famiglie, considerato insufficiente (anche in questa consultazione).

La scuola media sembra apprezzare il metodo della consultazione, che contribuisce a ridarle visibilità e un filo di voce. Contraccambia con una insperata attenzione ai temi della continuità del curricolo di base, ma teme un eccessivo carico di impegni per i docenti (che andrebbe comunque riconosciuto sul piano giuridico ed economico). Anche in questo caso si chiede più attenzione alle strutture, ai laboratori, alla qualità dei materiali e dei testi.

Infine la scuola superiore, chiamata in causa dalla questione del nuovo obbligo scolastico, si interroga sul significato della formazione di base, un po’ disorientata dalle diverse proposte in campo (riordino complessivo dei cicli, semplice estensione dell’obbligo a sedici anni).

 

Al termine di questo primo giro di boa, emerge un panorama ricco di sollecitazioni, di attese, di domande e di problemi, su cui tutti – ai vari livelli - sono chiamati a riflettere. Questo basta per affermare che le consultazioni, ma soprattutto il contesto che le ha e continuerà ad accompagnarle, non saranno senza influenze sugli esiti dei processi di cambiamento.