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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Istituti comprensivi: stop and go…

di Giancarlo Cerini

 

L’istituto comprensivo racchiude in sé l’idea di una scuola (di base) che gode della fiducia della propria comunità, perché si impegna in un progetto educativo visibile e coerente. Ma affinché questo avvenga, anche in presenza di pesanti contingenze economiche, è necessario aprire una riflessione a tutto campo, non limitandosi a prendere atto dell’incidente di percorso dell’art. 19 della legge 111/2011 (generalizzazione obbligatoria del comprensivo), ma ritornando alle ragioni profonde di questa scelta.

Le idee che esponiamo di seguito, in forma di stringati “appunti di viaggio”, sono state raccolte e rielaborate durante incontri di lavoro, dibattiti, relazioni, tenuti in queste settimane a Sassuolo (MO), Ravenna, Riccione (RN), Frosinone, Torino, Cremona, Palermo, Roma, Cervia (RA), Scanno (AQ). Ma il viaggio continua…

 

Se parliamo (solo) di numeri:

-          nel dibattito sui “comprensivi” non ci si può appassionare solo ai numeri, trasformando un’operazione che potrebbe modificare – in positivo – la stessa identità e immagine della scuola di base italiana (proiettandola verso una prospettiva più europea), in una semplice operazione di razionalizzazione (verrebbe confermata una ratio economicistica, che se è indubbia, non può annebbiare tutto il resto);

-          se si ridisegna l’intera geografia degli istituti comprensivi, occorre più tempo (almeno il biennio 2012-13 e 2013-14, se non un periodo ancora più lungo: triennale o quadriennale), ma senza che ciò si trasformi in alibi o inerzia;

-          è utile una gradualità che consenta di calibrare le scelte partendo da quelle che paiono già mature e naturali ed invece affrontando le soluzioni più complesso, con un lavoro di approfondimento, ma con una ipotesi complessiva già prefigurata, per evitare di montare e smontare tutta l’offerta formativa di un territorio nel giro di pochi anni;

-          al di là della “pezzatura” (indicatori numerici) ciò che conta è la coerenza (contiguità) territoriale della scelta del comprensivo; ci deve essere una prospettiva credibile di continuità effettiva del percorso formativo dai 3 ai 14 anni;

-          costruire istituti comprensivi nelle grandi città richiede un supplemento di lavoro istruttorio, perché “grandi” scuole non si prestano facilmente ad operazioni di aggregazione, bisogna darvi un “senso”; in alcuni casi potrebbe essere opportuno “innestare” corsi di diverso grado nello stesso edificio ora monovalente;

-          in alcune regioni la scansione proposta nelle “Linee guida” (ogni regione sta diffondendo le sue) è di 20-60-20, in percentuali di operazioni da fare nel triennio 2012-2015;

-          un piano pluriennale può consentire di convergere verso alcuni standard omogenei di dimensionamento, che dovrebbero certamente riguardare tutti gli istituti comprensivi di vecchia e nuova generazione;

-          l’idea che quota 1000 riguardi solo i nuovi comprensivi è assai bizzarra sul piano logico e giuridico, anche se avvallata da parecchie Regioni ed enti locali; è un’idea difensiva, ma non è sostenibile che la dimensione delle scuole vari in base all’anno di costituzione dell’istituto. E’ pur vero che per “armonizzare” le dimensioni di tutte le istituzioni (fatte salve le specificità territoriali) è necessario uno studio di fattibilità più approfondito;

-          in prospettiva dovrebbe esserci una certa comparabilità tra scuole del primo e del secondo ciclo: dopo il disposto dell’art. 19 della legge 111/2011, i criteri sono nettamente sbilanciate a sfavore del primo ciclo (ci si chiede: perché un istituto comprensivo deve raggiungere una soglia di 1000 alunni, mentre una scuola secondaria di II grado può fermarsi a quota 501?);

-          per motivare il “contenimento” dei parametri numerici, va detto che il modello “comprensivo” non è affatto più semplice sul piano organizzativo, in esso convergono più ordini scolastici (materna, elementare, media), spesso più Comuni;

-          occorre consolidare il dato normativo; ad oggi ci sono molte incertezze sulla “solidità” delle soglie prospettate nella legge 111/2011 (in provvedimenti di legge in itinere si parla di uno standard minimo di 600 alunni (anziché di 500), per poter mantenere la dirigenza, riducibile a 400 nelle aree di montagna (oggi 300);  

 

Se parliamo di modello organizzativo:

-          la quota 1000 viene generalmente considerata “faticosa” (ma i pareri sono discordanti: attualmente ci sono molte esperienze positive su istituti collocati verso quota 800, ma anche grandi scuole di 1200-1300 allievi che sembrano funzionare bene);

-          si consolida l’idea che piuttosto che di una soglia minima, sia necessario agire su fasce di “confidenza” (ad es. se si mantiene quota 1000, la fascia dovrebbe andare da 800 a 1200); comunque l’operazione ”dimensionamento” non è un semplice “ritaglio” numerico, ma deve essere rispettosa di un dato territoriale ed antropologico;

-          quale che sia la quota, è necessario ripensare a fondo le condizioni di esercizio della dirigenza, ad esempio in termini di staff di figure intermedie, di responsabili di plesso, di esoneri e semiesoneri, di funzionamento dei servizi di segreteria;

-          un istituto di maggiori dimensioni (verso quota mille, piuttosto che quota settecento, come  era fino ad oggi in virtù del Dpr 233/1998), mette a rischio l’idea di comunità di apprendimento, che si alimenta con relazioni professionali significative e non anonime; l’istituto resta un ambito di riferimento importante, ma si deve riscoprire anche il valore del plesso (scuola) come luogo di condivisione di scelte, di identità, di collaborazione e legame con la comunità di riferimento;

-          non è marginale il ruolo del dirigente scolastico, egli impersona anche fisicamente l’unitarietà dell’istituzione verticale; proiettarlo su scuole di grandi dimensioni può modificarne definitivamente la funzione: da una leadership educativa che richiede contatto, empatia, convivialità, briefing informali ad una managerialità costretta nella scansione degli appuntamenti formali e degli adempimenti amministrativi;

 

Se parliamo di comunità professionale

-          l’identità (la storia) dei docenti che vanno a ricomporre un istituto comprensivo deve essere valorizzata, favorendo un processo di reciproco riconoscimento tra i docenti dei diversi settori scolastici, svelando anche le dinamiche sottese al codice materno (primario?) e al codice paterno (secondario?), interpretato dalle diverse tipologie di scuole;

-          la condizione indispensabile per “fare comunità” professionale resta quella di un organico funzionale di istituto, cioè di un quadro di risorse umane che consenta di far fronte a bisogni differenziati in forme flessibili e, comunque, con organici non semplicemente commisurati agli orari di cattedra;

-          va da sé che anche la struttura dell’orario di lavoro dei docenti dovrebbe superare l’ancoraggio all’orario frontale di insegnamento, e muoversi verso una dimensione onnicomprensiva (tutoraggio, supporto, progettazione, laboratorio, ecc.);

-          non c’è spazio per una generica collegialità, che va piuttosto finalizzata alla condivisione di scelte strategiche;

-          un luogo fondamentale per una crescita dell’istituto comprensivo è quello dei dipartimenti verticali, organizzati per discipline o grandi ambiti del sapere;

-          progetti comuni possono rinsaldare l’identità educativa dell’istituto, la collaborazione tra i diversi segmenti, l’immagine e la credibilità verso l’esterno;

-          l’istituto, che lambisce l’esperienza del nido e della scuola superiore, deve saper esprimere un’ampia gamma di competenze professionali e specialistiche per affrontare una notevole varietà di situazioni e di problemi;

-          un’azione di accompagnamento/formazione potrebbe rivolgersi come scelta strategica ad una rete intermedia di “figure sensibili” in grado di presidiare i diversi gangli nervosi dell’istituto comprensivo (dipartimenti, progetti, rapporti, plessi, ecc.). Gli enti locali di riferimento potrebbero promuovere e finanziare processi  di accompagnamento;

 

Se parliamo di ricerca curricolare e didattica

-          non basta il mito della continuità, se questa è associata ad una idea generica di semplificazione e impoverimento del percorso formativo: meglio introdurre anche il tema della discontinuità “utile” (per gli allievi), che va però costruita con una regia comune (degli insegnanti);

-          c’è bisogno di discontinuità per crescere: i ragazzi possono e devono fare cose sempre più “difficili”, ma gli insegnanti devono svolgere una funzione di accompagnamento che emancipa gli allievi;

-          il curricolo verticale, in progressione, evolutivo, potrebbe utilmente essere scandito in bienni verticali e di snodo; ad esempio, consigli di classe per biennio (pensiamo a quello 5^ elementare – 1^ media) sono utili per accompagnare/favorire lo sviluppo di competenze effettive, offrendo un periodo più lungo di incubazione cognitiva ed emotiva;

-          ogni biennio (1-2, 3-4, 5-I, II-III media) potrebbe essere qualificato da una mission specifica (unitarietà, integrazione, specializzazione, opzionalità, se prendiamo le diciture prescelte a Trento per caratterizzare i Piani provinciali di studio ivi vigenti);

-          è importante contrappuntare il percorso verticale che porta ad un profilo di uscita (a 14 anni), con step in progressione (classe per classe o bienni per bienni), condivisi e sufficientemente descritti in compiti di apprendimento;

-          i livelli, più che “gradini”, dovrebbero essere la descrizione dei traguardi che un allievo “vede” davanti a sé, su cui fondare anche certificazione, autovalutazione, standard di riferimento;

-          un lavoro utile può essere quello di coordinare i sistemi di valutazione e di certificazione tra i diversi gradi scolastici;

-          si può spostare il baricentro del curricolo verticale verso l’alto (anche con la scelta di dislocare fisicamente la 5^ elementare presso la scuola media), con un ritmo 4+4;

 

In sintesi, l’istituto comprensivo si presta ad una vocazione “sperimentale”, di ricerca delle migliori condizioni per rafforzare i livelli di apprendimento dei ragazzi, personalizzarne i percorsi educativi, arricchire di opportunità l’offerta formativa, utilizzare in modo integrato le risorse educative del territorio. Questa “ambizione pedagogica” non può essere tradita da scelte frettolose dettate dalla contingenza del momento, perché è in gioco il futuro - per almeno il prossimo decennio – della scuola italiana.

(3 novembre 2011)


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