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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Toh! Chi si rivede? L’istituto comprensivo…

di Giancarlo Cerini

 

Comprensivi, (pubbliche) virtù e vizi (privati)

Da quasi vent’anni sostengo che l’istituto comprensivo, cioè l’aggregazione in una unica struttura funzionale delle scuole dell’infanzia, elementari e medie di un medesimo territorio, è frutto di un’originale intuizione organizzativa e presenta un rilevante interesse pedagogico per il sistema educativo italiano. Devo anche confessare che, nello stesso periodo, ho faticato non poco a smentire l’idea che la scelta degli istituti comprensivi fosse dovuta a ragioni di contenimento della spesa, che cioè l’unica motivazione sostenibile fosse quella della riduzione delle presidenze, dovuta ad accorpamenti, fusioni, dimensionamenti proprio per realizzare gli istituti comprensivi. Ora, l’aver inserito la generalizzazione obbligatoria degli istituti comprensivi all’interno di un provvedimento smaccatamente finanziario, la legge 111 del 15-7-2011 (per altro avvallata de facto da tutto lo schieramento parlamentare), sembra confermare irrimediabilmente l’idea che tutto ciò avvenga per mere ragioni contabili. L’avere poi elevato a “quota 1000” la soglia minima di alunni affinché una scuola possa disporre di autonomia funzionale e personalità giuridica e che ad essa sia preposto un dirigente scolastico a tutti gli effetti (art. 19 della legge cit.) cambia radicalmente la geografia della scuola, dopo un decennio di stabilità che faceva seguito all’assestamento dovuto all’introduzione dell’autonomia.

 

Tab. 1 – Evoluzione dell’organizzazione scolastica in Italia.

 

1997-98

2000-01

2004-05

2009-10

Direzioni Didattiche

4.378

2.710

2.598

2.227

Istituti Comprensivi

529

3.283

3.435

3.872

Scuole sec. I grado

7.890

2.359

1.531

1.195

Scuole sec. II grado

3.419

2.364

2.278

2.046

IISS – Ist.Istr.Sec.Sup.

---

856

933

1.112

Totale istituzioni

16.216

11.572

10.775

10.452

 

La geografia delle scuole

Se si osserva l’andamento diacronico dell’evoluzione del “parco scuole” dell’ultimo quindicennio, si possono distinguere tre distinte stagioni:

a)      prima dell’autonomia, negli anni ’90, quando le presidenze erano oltre 16.000, capillarmente diffuse nel territorio, fino quasi a coincidere per le scuole medie con i plessi/edifici scolastici;

b)      a scavalco dell’autonomia, nel biennio 1999 e 2000, emerse la necessità di disegnare una rete più solida di istituzioni, capaci di progettare l’offerta formativa e non solo di eseguire programmi didattici calati dall’alto. A tal fine, il Dpr 233/1998 fissò un parametro compreso tra i 500 e i 900 allievi, che comportò una drastica riduzione delle istituzioni scolastiche esistenti;

c)      il decennio post-autonomia, vide il consolidarsi della rete scolastica, ma con forti differenze tra una regione e l’altra (ad es. 883 allievi per presidenza in Emilia-Romagna, 430 in Calabria, per le scuole del primo ciclo) e con inviti inascoltati a superare le situazioni sottodimensionate (fino al diktat contenuto nell’art. 64 della legge 133/2008).[1] 

Dunque, l’assunto che i comprensivi abbiano determinato la riduzione delle scuole è solo parzialmente vero, perché questo esito è dovuto soprattutto alle implicazioni dell’autonomia “funzionale”. L’iniziale insediamento degli istituti verticalizzati (arrivati a circa 1.000 nel 1999) è infatti schizzato ad oltre 3.000 proprio in virtù del dimensionamento pro-autonomia.

La nuova situazione che si prefigura per i prossimi anni modifica radicalmente il quadro precedente ed anche la fisionomia della dirigenza scolastica (istituita con D.lgs 59/1998). Scuole di grandi dimensioni sembrano smentire quell’idea di comunità professionale che pure trova importanti riscontri nella letteratura scientifica[2] e che richiederebbe anche un’adeguata e coerente scelta nel dimensionamento. Ma quali?

 

Grandi scuole e piccoli plessi

Non si può banalmente affermare che “piccolo è bello”, anzi, per certi versi potrebbe essere controproducente. E’ però necessario aprire un pubblico discorso sulla dimensione “equa” di una istituzione scolastica oppure, riformulando la domanda, capire quali sono le condizioni migliori di esercizio di una autonomia credibile e di un efficace ruolo del dirigente scolastico. E’ evidente che se cambiano i parametri del dimensionamento ne deriva un diverso modello organizzativo e gestionale per la scuola e di conseguenza si fa strada (anzi, si impone) un diverso profilo della dirigenza. Ancora, se si considera ineluttabile questo processo (cioè andare verso scuole di “grandi dimensioni”) occorre immaginare seriamente nuove forme di governance dell’istituzione scolastica (attraverso figure di staff,  articolazioni organizzative, referenti, ecc.).

Ad esempio, si dovrà considerare come unità di riferimento non solo l’istituto scolastico autonomo, ma soprattutto il plesso scolastico[3], cioè l’unità di concreta ed effettiva erogazione del servizio scolastico (è lì che si giocheranno le dinamiche dell’insegnamento-apprendimento e dei servizi di supporto organizzativo e didattico). Questo a maggior ragione nel caso di istituti comprensivi, ove alla complessità delle grandi dimensioni si viene ad associare una complessità gestionale, dovuta alla giustapposizione di diversi segmenti scolastici.

Ma nonostante tutto, vale la pena riprendere in considerazione le ragioni “nobili” che stanno alla base degli istituti comprensivi, per poterle ritrovare anche in questa stagione difficile per la scuola, per fare in modo che le prossime “mosse” in materia di dimensionamento “verticale” siano accompagnate da una riflessione culturale appropriata. Gli istituti comprensivi rientrano oggi nella “normalità” dell’ordinamento scolastico, ma restano pur sempre un’“ambizione pedagogica”, una sfida ancora aperta per il rafforzamento della formazione di base.

 

La lezione dell’esperienza

Non è stato sempre facile fare emergere la “mission” originale dell’istituto comprensivo.

All’inizio prevalse l’emergenza territoriale, il tentativo di salvare la presenza delle scuole nelle aree geografiche più difficili (montagne, piccole isole, zone a bassa densità abitativa, ecc.), come stava scritto nella legge istitutiva dei comprensivi (la legge 97/1994, appunto di tutela della montagna).

Solo con la ricordata svolta dell’autonomia la presenza del comprensivo è diventata maggioritaria (oggi sono circa 4.000 a fronte di 2.000 direzioni didattiche e 1.000 scuole medie), ma non sempre questa scelta è avvenuta con una adeguata maturazione di condizioni pedagogiche, didattiche, organizzative.

Il fronte “interno” (quello degli insegnanti e dei dirigenti) è apparso tiepido, a volte ostile, spesso si è determinato un precario equilibrio tra le diverse componenti (come tra separati in casa). In molti casi ha prevalso la difesa delle preesistenti identità: il contenitore “comprensivo” è stato visto come troppo generico, non in grado di stimolare un riposizionamento di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado, semmai come foriero del loro impoverimento.

E’ mancato in quel periodo un effettivo sostegno all’innovazione curricolare dei comprensivi, al di là di pregevoli ma limitate reti di scuole sperimentali promosse dall’Amministrazione (citiamo le scuole “laboratorio” coordinate da P.Boscolo[4], le scuole –ICS- che hanno sperimentato curricoli disciplinari[5], le scuole dei parchi nazionali, ecc.).

Le stesse norme di riferimento per i comprensivi, elaborate in parallelo alla ricerca-azione promossa in tali scuole, non riuscivano ad andare al di là delle petizioni di principio[6] e, di per sè, non ebbero la forza di porre al centro del dibattito alcune questioni cruciali, quali:

a)      l’individuazione “discrezionale” del dirigente scolastico da preporre all’istituto, perché figura strategica in grado di costruire il senso della “comprensività”;

b)      l’adozione di un organico funzionale di istituto, capace di stimolare soluzioni pedagogico-organizzative innovative (prestiti professionali, laboratori, ecc.);

c)      la semplificazione del quadro contrattuale (diritti e doveri), per riconoscere i nuovi impegni dei docenti, in una ottica di maggiore omogeneità.

Queste occasioni mancate, ancora oggi all’ordine del giorno, non sono riuscite a far decollare l’idea del comprensivo come vera scuola di base, certamente più realistica della riforma berlingueriana del 2000, congelata dal successivo ministero Moratti. Così, affermazioni importanti come quelle contenute nel documento di lavoro “Bertagna” del 2001 (con la proposta di saldare elementare e medie attraverso il biennio di raccordo 5^ elementare-1^media) restarono lettera morta, anzi furono smentite dall’articolazione nei periodi didattici imposti dalla legge 53/2003 (1^ primaria, 2/3^ primaria, 4/5^ primaria, 1 e 2 secondaria, 3^ secondaria), che ancora oggi limitano le potenzialità del curricolo verticale e frenano le ipotesi di maggiore integrazione tra scuola primaria e secondaria. E’ un ostacolo che va rimosso se si vuole offrire un ombrello curricolare sicuro alla prossima generazione di comprensivi.

 

I nuovi comprensivi: mission impossible?

Così, una flebile preferenza della politica (e dell’amministrazione scolastica) nei confronti degli istituti comprensivi, di cui c’è traccia anche nel Piano Programmatico per l’attuazione della legge 133/2008, non si è tradotta in sostanziose provvidenze verso questo modello organizzativo. Solo sotto il profilo delle Indicazioni curricolari si è messa a fuoco l’idea di un progetto educativo dai 3 ai 14 anni, che già faceva capolino tra le righe degli allegati al D.lgs 59/2004 (che però avevano l’evidente difetto di essere costruiti con il copia e incolla). Il principio della continuità ha poi assunto il carattere di elemento fondativo nelle Indicazioni per il curricolo di cui al DM 31-7-2007. In questo documento, l’intelaiatura verticale degli assetti di tutte le discipline configura un vero e proprio canovaccio per un piano di studi in progressione, almeno tra scuole primaria e secondaria di I grado (mantenendo invece più autonomo il curricolo della scuola dell’infanzia). Al di là del loro pregio, sappiamo però che l’impatto delle Indicazioni nella scuola “reale” è stato alquanto variabile e sottoposto agli sbalzi degli orientamenti politici e ministeriali degli ultimi anni. Il testo del 2007, comunque, è quello al momento vigente e da quello occorre ripartire per le azioni di armonizzazione[7], che dovranno tener conto necessariamente del nuovo scenario “tutti comprensivi”.

La decisione del Parlamento del luglio 2011 determina infatti nuove condizioni di sviluppo e di  rilancio della presenza degli istituti verticali. Anche se non sono preventivabili i tempi per il completamento dei piani di ri-dimensionamento (affidati come è noto alle decisioni delle Regioni), certamente si presenta all’orizzonte una nuova generazione di istituti comprensivi, la quarta – dopo quelle dell’emergenza territoriale, dell’ispirazione pedagogica, della svolta dell’autonomia. Ci sarà un aumento di comprensivi pari a quello che si registrò nel biennio 1999-2000 (non fosse altro per il meccanismo penalizzante della non assegnazione di nuovi incarichi dirigenziali nelle scuole ancora “orizzontali”).

Un simile evento non può passare “sotto silenzio”, né può essere vissuto come una scontata messa ad ordinamento degli istituti comprensivi. E’ una innovazione ancora in larga parte da scoprire e da studiare. Anzi, meraviglia l’esiguità della ricerca e della pubblicistica che si è esercitata attorno al tema[8]. Possiamo comunque considerare ancora significativi i tre assi attorno a cui si sono sviluppate le “buone pratiche” degli istituti comprensivi:

a)      il territorio

b)      il curricolo

c)      l’organizzazione.

Ma gli istituti di quarta generazione dovranno saper espandere questi elementi, farli diventare elementi di sviluppo e di ricerca. La domanda dovrà sempre essere: “qual è il valore aggiunto di un istituto comprensivo?”, “quali sono le convenienze ad aggregarsi in verticale?”, “come si possono far fruttare positivamente questi aspetti?”. Vediamoli allora con più dettaglio.

 

Il territorio: una scuola di “comunità”

E’ vero che quasi sempre i Comuni sono stati i primi sponsor dei processi di verticalizzazione, per l’effetto di semplificazione organizzativa e istituzionale che questo tipo di dimensionamento comporta. Tale scelta consente di rendere più agevoli i rapporti tra scuola e territorio (nei suoi versanti istituzionali e non solo), ma c’è (ci deve essere) dell’altro. Se riteniamo che la scuola sia un elemento fondamentale per la qualità della vita di una comunità, che sia motore per il suo sviluppo, che sia un “nodo” che crea fiducia, solidarietà, identità, allora questa dote di “capitale sociale” va incrementata attraverso le azioni dell’istituto comprensivo nel territorio, quali:

-       fare un check-up delle relazioni tra scuola e società locale, per uscire dalla occasionalità, consentire una “rappresentazione” comune dei problemi, costruire conoscenze sul sistema sociale ed ecnomico;

-       stringere alleanze (anche tramite tavoli, accordi e patti formalizzati), rinnovare le strategie di comunicazione e di intervento (un POF di territorio);

-       attivare relazioni personali con gli attori sociali, proporre idee e progetti, recuperare e attirare risorse (ad es. con il fundraising).

Un istituto che si presenta agli stakeholder all’insegna del “fidatevi di noi: noi garantiamo la coerenza della formazione di base dei ragazzi di questo territorio!” si candida a diventare un interlocutore forte delle politiche di sviluppo locale, ad essere uno degli attori in gioco e non il solito “potere debole” che sta ai margini della scena.

 

Il curricolo verticale: lavorare per competenze e per bienni

Spesso, con una insidiosa ingenuità, ci vien chiesto: “Quali sono i miglioramenti negli apprendimenti degli allievi, dovuti all’effetto comprensivo?”, “Qual è la differenza tra i diversi modelli?”. La ricerca docimologica potrebbe già offrire qualche risposta in merito, ma ci direbbe che l’effetto-scuola si lega ad un insieme di fattori che non dipendono dalla sola variante organizzativa. Ci si riferisce infatti a:

- il ruolo trainante del dirigente scolastico (ci credo o no al comprensivo?);

- la condivisione di una idea di comunità professionale (cioè il sentirsi parte attiva, consapevole e responsabile circa l’andamento dei risultati della scuola);

-  la qualità delle didattiche in classe, l’utilizzo delle tecnologie, la cultura valutativa, il clima sociale, ecc.

-  il rapporto con i genitori, la comunità, il territorio.

Un istituto comprensivo si trova nelle condizioni di poter intervenire positivamente in queste aree, ad esempio una regia di programmazione comune favorisce la graduale organizzazione dei saperi, la messa a punto di indicatori in progressione per una valutazione formativa, la continuità discontinuità degli approcci metodologici e degli ambienti didattici. Sono suggestioni già contenute nell’Atto di indirizzo del MIUR dell’8-9-2009, la versione “bonsai” delle indicazioni in attesa di armonizzazione[9].

In alcune realtà di eccellenza (Scuola-città Pestalozzi di Firenze[10], provincia di Trento[11], gruppi sperimentali di Reggio Emilia[12]) ed in molte scuole si è riusciti ad elaborare e praticare curricoli verticali, ispirati all’idea di competenze, standard progressivi, metodologie attive.

Resta ancora molto da fare, soprattutto per far dialogare la scuola primaria e quella secondaria, magari attraverso una diversa articolazione dei bienni che configurano il percorso ottennale. Particolarmente stimolante risulterebbe la rivisitazione del biennio 5^ elementare-1^ media, magari “appoggiato” ad un consiglio di classe verticale, in cui sfide importanti come l’autonomia di fronte ai testi scritti, la motivazione verso l’impegno a scuola, l’incontro con i linguaggi specifici delle discipline, potrebbero avvalersi dell’apporto congiunto di professionalità diverse, capaci di meglio rispondere alle diverse esigenze degli allievi. In questo quadro potrebbe addirittura essere possibile riequilibrare diversamente il rapporto tra elementare e medie, in una sorta di 4+4. Provocatoriamente, la quinta elementare potrebbe essere affidata – anche come dislocazione fisica -  alla scuola media (si avrebbe un effetto di trascinamento vero l’alto, con ragazzi e maestri proiettati verso la secondaria, ma i docenti delle medie dovrebbero recuperare attenzione alla operatività dei metodi didattici). Si porrebbe fine alla “querelle” circa la presunta elementarizzazione della scuola di base ed il comprensivo potrebbe diventare il banco di prova di una diversa e più produttiva idea di scuola di base. Ma ci sarà tempo per ritornare sulla questione.

 

La comunità professionale “verticale”

Abbiamo visto come l’istituto comprensivo non sia un grado scolastico distinto dai tre che lo vanno a comporre (la scuola dell’infanzia, la scuola primaria, la scuola secondaria di I grado), ma piuttosto una “federazione” tra di essi, che chiama in causa soprattutto gli operatori scolastici (il dirigente e i docenti) che sono chiamati a farlo “vivere”. Sono i loro comportamenti che danno il “senso” del comprensivo, l’opportunità di immaginare una diversa comunità scolastica dove i piccoli ed i grandi possono crescere con migliori opportunità. In particolare il comprensivo mette a contatto storie e professionalità diverse, capaci di contaminarsi positivamente. Non immaginiamo certo un utilizzo generico dei docenti su tutta la filiera verticale, ma la valorizzazione delle diverse “specializzazioni” (l’attenzione alle caratteristiche degli allievi, la dimensione operativa della didattica, il rigore degli approcci disciplinari). Questo può avvenire:

-          nei momenti della progettazione, della caratterizzazione degli ambienti di apprendimento, della valutazione formativa (attraverso la costituzione di uno staff pedagogico di raccordo);

-          nella messa a punto dei risultati di apprendimenti e dei profili di uscita, in forma di competenze e standard di istituto, in progressione (attraverso la costituzione di dipartimenti disciplinari verticalizzati);

-          nella gestione di alcune attività didattiche comuni, attraverso laboratori, prestiti professionali, scambi di pratiche, iniziative verso l’esterno (con l’utilizzo del personale nell’ottica dell’organico di istituto).

L’istituto comprensivo può dar vita ad una vera e propria comunità professionale se lo stare insieme si trasforma da convivenza forzata e poco desiderata in una rete di occasioni professionali inedite e stimolanti, in un ambiente ad alto tasso di comunicazione e orientato alla ricerca.

Nuove tecnologie (wiki-school), forme agili di coordinamento (staff misti), figure di sistema ad hoc, capacità di ascolto e di decisione sono elementi decisivi per costruire la comunità professionale e valorizzare al massimo il contesto dell’istituto comprensivo, a partire dal ruolo trainante del dirigente scolastico[13]. Anche dopo i nuovi parametri del dimensionamento.

 

Condizioni per il rilancio degli istituti comprensivi

Il futuro degli istituti comprensivi si inserisce in uno scenario al contempo europeo e locale. E’ l’Unione Europea a richiamare (anche nell’ultimo documento ET 2020)[14] il significato di una formazione di base più solida per lo sviluppo di una cittadinanza europea.

Se si ritiene che l’istituto comprensivo rappresenti il futuro della scuola di base italiana, è necessario riaprire un discorso pubblico sulle sue caratteristiche e sulle condizioni che consentono di farlo funzionare al meglio:

a)      armonizzare il dimensionamento che, al di là dei numeri, deve rappresentare una condizione di continuità territoriale: l’idea guida, comunque, non è solo il numero, ma il bacino ottimale per la scuola di base che dà identità ad un territorio;

b)      superare la diversità di trattamento giuridico del personale docente, attraverso decisioni contrattuali coerenti (ad esempio, in materia di orari di servizio, impegni collaterali, ecc.);

c)      favorire la gestione organizzativa e funzionale unitaria, con adeguate scelte strutturali: se il parametro numerico si “innalza” diventa necessario ripensare seriamente alle figure di sistema, in forma di staff intermedio che dia sostanza alla cultura organizzativa dell’istituto;

d)     adottare finalmente l’organico funzionale di istituto comprensivo, che consenta operazioni indispensabili come il completamento “interno” delle cattedre, i prestiti professionali, la disponibilità di competenze specialistiche a favore dell’intero istituto;

e)      sperimentare una diversa articolazione interna del curricolo, attraverso il modello dei bienni integrati, con biennio a scavalco 5^ elementare-1^ media, anche con un riequilibrio tra i due segmenti, un 4+4 che ridia respiro alla scuola secondaria, ma in un confronto serrato con la primaria;

f)       costruire un ambiente professionale orientato alla ricerca e alla formazione, mettendo a disposizione uno specifico fondo per favorire iniziative di autovalutazione, diagnosi, miglioramento, rendicontazione sociale. 

Se si avrà il coraggio di intraprendere scelte di questo tipo, la quarta generazione di istituti comprensivi potrebbe dare un contributo decisivo al miglioramento del sistema scolastico italiano nei prossimi anni.



[1] Il problema ha una sua complessità giuridica, alla luce del potenziale conflitto tra prerogative esclusive delle regioni in materia di dimensionamento e competenza dello Stato nel determinare i parametri numerici per il dimensionamento. La controversia si è protratta fin di fronte alla Corte Costituzionale che, con la Sentenza 200/2009, ha ripristinato lo status quo, precisando i confini della competenza concorrente.

[2] T.J.Sergiovanni, Costruire comunità nella scuola, LAS, Roma, 2000. Anche: T.J.Sergiovanni, Dirigere la scuola, comunità che apprende, LAS, Roma, 2002.

[3] M.Orsi, Il dirigente scolastico, la visione e la comunità, in “Rivista dell’istruzione”, n. 4, luglio-agosto 2011.

[4] P.Boscolo, Continuità, apprendimenti e competenze in un curricolo verticale, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, Gli Istituti comprensivi, n. 83, Le Monnierr, Firenze, 1998.

[5] Quattro reti di scuola approfondirono gli assi disciplinari di lingua italiana, matematica, scienze e storia, con l’elaborazione di proposte di curricoli verticali. Gli atti furono pubblicati per conto del MIUR dall’IC Turoldo di Torino nel 2004 (cfr. http://www.storiairreer.it/IndiceRapportoFinaleRicerca.htm ).

[6] Ci riferiamo alle circolari ministeriali n. 454 del 28 luglio 1997, n. 352 del 7 agosto 1998, e n. 227 del 30 settembre 1999 che nel triennio 1997-1999 delinearono una vera e propria piattaforma pedagogico-organizzativa per gli istituti comprensivi, ma che non diventarono oggetto di efficaci e generalizzate misure di accompagnamento. Sono comunque documenti di notevole potenzialità, certamente da riprendere in mano, che possono aiutare a scoprire le condizioni per il successo di questa innovazione.

[7] Una sintesi di quanto è avvenuto, nel dibattito culturale degli ultimi anni, dopo la pubblicazione delle Indicazioni del 2007 è contenuto in G.Cerini (a cura di), Dalle indicazioni al curricolo. Il contributo della ricerca nel primo ciclo, USR Emilia-Romagna, Tecnodid, Napoli, 2011 (con saggi, tra gli altri, di: I.Fiorin, P.Cattaneo, C.Petracca, D.Previtali, L.Rondanini).

[8] Tra le ricerche più approfondite si segnalano quella condotta dall’USR Lombardia e commissionata all’Università di Pavia: E.Becchi, A.Bondioli, M.Ferrari, Scuole allo specchio. Ricerca-formazione con un gruppo di istituti comprensivi lombardi, F.Angeli, Milano, 2005.

Esperienze e riflessioni sono contenute in G.Cerini (a cura di), La scuola verticale. Istituti comprensivi e riordino dei cicli, Tecnodid, Napoli, 2000 e in G.Cerini (a cura di), Un manifesto per gli istituti comprensivi. Le dieci tesi di Sestino, Regione Toscana, 2007.

[9] G.Cerini, Armonizzazione, in G.Cerini, M.Spinosi (a cura di), Voci della Scuola, X, Tecnodid, Napoli, 2011.

[10] P.Orefice, S.Dogliani, G.Del Gobbo, Competenze trasversali a scuola. Trasferibilità della sperimentazione di Scuola-Città Pestalozzi, Edizioni ETS, Pisa, 2011.

[11] F.Azzali e B.De Gerloni, I saperi e la persona. Indagine sui modelli di curricolo nella scuola trentina, Provincia di Trento, IPRASE, 2006.

[12] L.Guasti (a cura), Standards di contenuto nella scuola di base, Erickson, Trento, 2009.

[13] G.Cerini (a cura di), Il nuovo dirigente scolastico. Tra leadership e management, Maggioli, Rimini, 2010.

[14] G.Barzanò, G.De Sanctis, ET 2020, in G.Cerini, M.Spinosi, Voci della scuola, X, Tecnodid, Napoli, 2011.


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