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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Il tormentone della certificazione delle competenze[1]

di Giancarlo Cerini

 

Necessità di scelte coerenti

Forse con troppa leggerezza si è affrontato in questi anni un tema affascinante, ma delicato e controverso, come è la “certificazione delle competenze”. Dalle suggestioni provenienti dagli ormai storici documenti europei degli anni ’90 (Delors, Cresson, ecc.) fino alle più recenti pronunce dell’Unione Europea sulle competenze chiave (2006) e sul quadro comune delle qualifiche (2008) il dibattito su certificazione e competenze è sembrato seguire due vie parallele: da un lato, la progressiva messa a punto del concetto di competenza (in termini di cittadinanza, life skills, abilità essenziali e strategiche), dall’altro, lo sforzo di trasparenza nel rilascio dei titoli e delle qualifiche spendibili nel mercato del lavoro comunitario.

In Italia il tema è sorto nel decennio scorso in relazione alla riforma degli esami di maturità (in cui si richiede di certificare le competenze dei maturandi in uscita) ed agli sviluppi dell’autonomia, con l’emergere dei temi del successo formativo, del curricolo e della personalizzazione dei percorsi formativi.

Da ultimo va ricordato anche la previsione normativa contenuta nel decreto legge 137/08, poi convertito con modifiche marginali nella legge 169/08, di utilizzare il voto in decimi oltre che per valutare apprendimenti e comportamenti (nel primo ciclo), anche per “certificare” le competenze. Un mezzo passo falso di cui ci si è resi conto nei mesi successivi, tanto che nel Regolamento che coordina le diverse norme in materia di valutazione (Dpr 22 giugno 2009, n. 122) si richiama sì l’obbligo dell’utilizzo dei voti numerici nella certificazione, ma quasi in termini incidentali (la certificazione sarà “accompagnata” dall’espressione di un voto), mentre il focus della indicazione sembra essere piuttosto la “descrizione analitica” delle competenze, cioè un’operazione un po’ più complessa della semplice assegnazione di un voto. Tra l’altro, la scuola primaria è svincolata dall’utilizzazione dei voti in decimi nell’operazione di certificazione, così come la scuola secondaria di II grado, in cui i modelli di certificazione (DM 9/2010) prevedono una declaratoria per livelli e per assi culturali.

 

Tra autonomia delle scuole e modelli nazionali

Ma vediamo quali sono le principali ragioni di questa incertezza, che non è solo dovuta alle oscillazioni della più recente normativa. Infatti, di competenze si parla ormai da parecchi anni e un primo passaggio normativo fa capolino all’interno del Regolamento (tuttora vigente) dell’autonomia scolastica, il Dpr 275/1999, che richiama la presenza di modelli nazionali per le certificazioni (da adottarsi con decreto ministeriale), che dovrebbero dare conto di “conoscenza, competenze,capacità acquisite e crediti formativi riconoscibili”. Anche la legge 53/2003 si muove nello stesso alveo, riconoscendo comunque la competenza dei docenti e delle scuole nelle operazioni di certificazione.

Qui si rivela già, in nuce, una delle questioni su cui non c’è chiarezza: cioè quanta autonomia spetti alle singole scuole in materia di certificazione (quindi quanta discrezionalità in termini di criteri, oggetti, codici, scale, forme di descrizione delle competenze) e quanto invece debba fare riferimento a parametri nazionali che diano un senso ed una leggibilità ”erga omnes” di quanto attestato da ogni specifica istituzione scolastica.

Se vogliamo, è lo stesso tipo di  dilemma che si presenta di fronte all’utilizzo di prove di valutazione standardizzate (di carattere nazionale o internazionale, ma che si potrebbero riferire anche ad un territorio, ad una scuola, a reti di scuole): somministrare lo stesso tipo di prove ha senso di fronte a percorsi curricolari che possono essere diversi, per condizioni di contesto, tipologia di allievi, scelte curricolari locali, ecc.? Non si rischia, per questa via, di legittimare l’omologazione culturale dei nostri allievi, sospinti dall’uso massiccio di test e prove, a convergere verso un determinato profilo culturale e formativo? Cercheremo di smentire questa preoccupazione.

 

Perché certificare?

In generale, nel nostro sistema la certificazione ha una immagine “debole” (basti pensare a quello che si dice in materia di handicap: si certifica come scelta di ripiego, quando non è possibile dare valore legale agli esiti scolastici). Invece, valutare gli apprendimenti e certificare le competenze acquisite da un allievo rappresenta un compito essenziale per ogni struttura scolastica e formativa. Non solo perché la valutazione è un atto indispensabile per “regolare” il rapporto tra insegnamento e apprendimento (la c.d. valutazione formativa), ma perché essa assolve ad un preciso impegno giuridico, che è quello di attestare erga omnes gli esiti di un percorso di istruzione (scolastica) o di formazione (professionale). Il valore (legale) del percorso è ben rappresentato dal rilascio di un apposito titolo di studio (o qualifica) al termine di ogni ciclo di studi.

Questo approccio, però, viene considerato ormai insufficiente ed emerge il bisogno di una più esplicita ed analitica attestazione di abilità, conoscenze e competenze effettivamente acquisite dai soggetti nei loro percorsi di formazione. D’altra parte, la certificazione nasce per far dialogare i sistemi, in una ottica di maggiore flessibilità e personalizzazione dei percorsi. Esempi in tal senso si trovano negli accordi tra Ministero dell’Istruzione e Regioni stipulati (es. nel 2004) per condividere, tra diversi sistemi formativi, alcuni standard di contenuto/prestazione utili a favorire passaggi, integrazione dei percorsi, modularità dell’organizzazione didattica, valorizzazione di crediti.

Ma il rischio di una certificazione non ben ponderata è quella di trasformarsi in un atto formale, più o meno simile alla valutazione di fine anno Contro questo impoverimento si esprime la recente CM 49 del 20 maggio 2010, che rappresenta un buon documento utile a promuovere una corretta cultura della valutazione. La nota ministeriale precisa che la certificazione dovrebbe consentire ad ogni allievo, già al termine del primo ciclo, di “conoscere la propria posizione rispetto a livelli di apprendimento e quadri di competenze che rispondano a riferimenti di carattere generale”.

 

Il valore formativo della certificazione

Quindi, oltre agli aspetti legali o di comunicazione, la certificazione assume anche un valore formativo, quando svolge la funzione di descrizione di un percorso, di consapevolezza dei progressi (in forma di autovalutazione), di posizionamento in una progressione di apprendimenti.

Nel nostro attuale sistema scolastico è senz’altro opportuno procedere con priorità alla certificazione in uscita dall’obbligo di istruzione (DM 9-2-2010), perché questa tappa rappresenta uno snodo importante nella biografia degli allievi (ove non si rilascia, tra l’altro, alcun titolo di studio). A 16 anni può terminare il percorso scolastico formale per la scelta di inserimento nel mondo del lavoro, nell’apprendistato, nella formazione professionale. E’ quindi importante che un ragazzo si presenti in questi nuovi scenari con una propria “dotazione” di competenze, che possa essere riconosciuta ed utilizzata per favorire l’inserimento. In caso di prosecuzione della scolarità all’interno del triennio superiore o della scelta di un diverso indirizzo, la certificazione potrebbe assumere un carattere formativo-informativo, per confermare e ri-orientare i percorsi.

Nel modello nazionale di certificazione delle competenze a 16 anni, si formalizzano tre livelli che possono richiamare l’idea di una progressione delle competenze.

Livello di base: Lo studente svolge compiti semplici in situazioni note, mostrando di possedere conoscenze ed abilità essenziali e di saper applicare regole e procedure fondamentali.

Livello intermedio: Lo studente svolge compiti e risolve problemi complessi in situazioni note, compie scelte consapevoli, mostrando di saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite.

Livello avanzato: Lo studente svolge compiti e problemi complessi in situazioni anche non note, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità. Es. proporre e sostenere le proprie opinioni e assumere autonomamente decisioni consapevoli.

 

Tra standard e personalizzazione

Ma i nuovi modelli certificativi, da soli, non fanno “primavera”. Il problema valutativo della scuola italiana non è tanto dovuto ad una scarsa dimestichezza con la docimologia, ma piuttosto alla mancata condivisione del significato positivo che un più trasparente e attendibile sistema di valutazione potrebbe assumere nella vita della scuola e nei comportamenti di docenti e allievi (per non parlare delle famiglie e della società). Le idee in materia di valutazione sono ancora diverse, come si può notare a proposito delle ricorrenti polemiche sul ruolo dell’Invalsi e delle sue rilevazioni. C’è chi propende per strumenti rigorosi e impeccabili di misurazione, affinché la valutazione stessa sia la più oggettiva possibile; altri, invece, vorrebbero salvaguardare il preminente valore formativo e processuale della valutazione. Nel primo caso sembrano passare in secondo ordine gli aspetti educativi; nel secondo caso il rischio è quello di assumere un atteggiamento “buonista”, che finisce col nascondere la realtà degli apprendimenti effettivamente conseguiti, danneggiando gli allievi, illudendoli circa il possesso di competenze che poi saranno smentite nei duri confronti con il mondo esterno.

E’ possibile riuscire a conciliare le due esigenze, cioè l’apprezzamento dei progressi personali degli allievi, confrontandoli però con standard ritenuti significativi? La certificazione potrebbe, in parte, rispondere a questa duplice finalità. Il criterio da utilizzare potrebbe essere appunto quello di mettere al centro della certificazione il percorso di “avvicinamento” di ogni singolo allievo al possesso graduale di competenze, comunque definite in termini di standard (cioè di risultati attesi). Il “gradiente” di avvicinamento dovrebbe costituire sempre un apprezzamento di padronanza, seppure embrionale, in fase di sviluppo, di ulteriore consolidamento, di arricchimento. La certificazione dovrebbe sempre esprimere un indicatore positivo (non esiste una certificazione negativa) e lo sforzo è quello di costruire livelli di apprezzamento capaci di cogliere questo dinamismo. I livelli, dunque non sono voti (statici), ma soprattutto aperture di credito che devono stimolare l’allievo a progredire.

Nella scuola di base, al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado, la certificazione dovrebbe sempre assumere questo carattere formativo, di accompagnamento di un possibile processo di miglioramento, rafforzando il senso di fiducia degli allievi nei propri mezzi.

 

Non è solo questione di media aritmetica

Ogni buon manuale di docimologia mette in evidenza una netta distinzione tra le azioni del misurare (rilevare dati, registrare informazioni, trattarle statisticamente, ecc.) e quelle del valutare (dare un valore, interpretare, esprimere un giudizio, elaborare un profilo di sintesi). Nel primo caso si possono usare strumenti di vara natura (test, prove tradizionali, prove semistrutturate, portfolio, dossier, ecc.) e si possono trattare alcuni dati anche in termini statistici (frequenza, medie, distribuzione, confronto), purché si abbia chiara la natura delle scale di misurazione. Se utilizziamo i voti in decimi (dall’1 al 10) facciamo riferimento a dati non trattabili con medie aritmetiche (es: 4 + 8 = 12; 12 : 2 = 6), perché non si tratta di una scala ad intervalli (per cui 4 vale metà di 8, ecc.), ma di una scala ordinale che ci indica solo una posizione (per cui 7 precede 6, e così via). Possiamo legittimamente trattare questo tipo di dati solo calcolando la mediana, cioè il valore più ricorrente, che ci segnala una tendenza, e non la media.

E’ comunque necessario compiere una ricognizione essenziale dei principali indicatori statistici, come la media, la mediana, il valore medio di scarto dalla media, la distribuzione “normale”, i percentili. Questi ultimi consentono di raggruppare i dati in base a certe fasce percentuali: un decimo del campione o dell’universo (decile); un quinto (quintile), ecc. e di operare dunque opportuni confronti e comparazioni. Qual è il punteggio del 10% della parte più debole della popolazione della mia scuola? E delle scuole del territorio? E del mio paese, in una comparazione internazionale? Un’ulteriore elaborazione statistica (che sta alla base della presentazione dei dati Ocse) consente di fissare delle soglie di livello (5 o 6 sono quelle del programma PISA), consolidando fasce che descrivono un diverso gradiente di competenze (da un livello inadeguato ad un livello di eccellenza), a cui corrispondono percentuali di distribuzioni della popolazione (su scala internazionale, nazionale o locale): questo permette di effettuare comparazioni assai significative, nello spazio (tra diverse popolazioni scolastiche) e nel tempo (di tipo diacronico).

In effetti sarebbe opportuno che in ogni scuola si sviluppasse la capacità di trattare i dati valutativi ormai disponibili, per utilizzarli ai fini di una più adeguata progettazione didattica, oltre che per rendere conto all’esterno dei risultati ottenuti, sulla base di alcuni parametri comuni. Interessante è anche risalire ai quadri concettuali sottesi alle diverse tipologie di prove (una buona prova è anche tale se si lascia “leggere”, se svela quali sono processi, abilità, contenuti che vuole andare a “sondare”).

 

I livelli di competenza

Il termine “livello” in genere viene associato alla preventiva definizione di uno standard (di una soglia), rispetto a cui commisurare un determinato apprendimento. In tal senso opera il quadro europeo delle competenze linguistiche, che è forse l’esempio più accreditato e condiviso di definizione di standard. Come è noto il Quadro prevede sei livelli in progressione (da A1 a C2). In questa ottica l’articolazione in diversi livelli di una competenza può essere considerata come la sua descrizione evolutiva.

Anche in ricerche sviluppate in alcuni territori (ci riferiamo ad un ampio progetto realizzato a Reggio Emilia su “Standard di contenuto”, coordinato da Lucio Guasti) si ritrovano queste due esigenze: di descrivere i traguardi di competenza (in forma di enunciato verbale) e di declinare i livelli di competenza. Nell’ipotesi citata si descrive un livello preliminare (in cui lo studente ha bisogno dell’aiuto dell’adulto), poi di un secondo livello (sicurezza, padronanza), infine di un terzo livello (consapevolezza, creatività). Si delinea quindi un processo di sviluppo di competenze: una sorta di quadro di riferimento che può servire per costruire un curricolo verticale, ma anche per certificare le competenze. Essenziale diventa la capacità di effettuare buone descrizioni delle competenze a partire da un lavoro sociale dal basso, tra insegnanti, con i genitori.

Nella ricerca reggiana ogni enunciato descrittivo di uno standard (di contenuto) comprende tre elementi tra di loro complementari:

  1. un’azione cognitiva che fa riferimento al soggetto;

  2. un elemento di conoscenza (quasi una “porzione” di contenuto) richiamato dall’azione;

  3. un contesto in cui si esplica l’azione (uno scopo dichiarato, alcuni vincoli, elementi facilitanti, ecc.).

La progressione delle competenze si riferisce dunque ad una sempre più approfondita conoscenza, alla capacità di fare collegamenti, di richiamare conoscenze precedenti, di utilizzare diversi linguaggi e procedure più appropriate e raffinate.

Anche l’utilizzo di tre livelli nello schema di certificazione per i 16enni contenuti nel citato DM 9/2010 (livello base, intermedio, avanzato) contiene un vettore interpretativo che si muove nel segno della progressiva autonomia di un allievo rispetto ad un compito. Il livello iniziale si riferisce ad una prestazione che si svolge in un ambiente noto, protetto, con l’aiuto del contesto, per poi evolvere verso una sempre più sicura ed autonoma padronanza di abilità, per approdare poi ad un utilizzo consapevole, riflessivo e creativo delle conoscenze, anche in situazioni inedite

 

Dalla valutazione delle competenze alla progettazione del curricolo

E’ dunque possibile riuscire a conciliare l’esigenza dell’apprezzamento dei progressi personali, confrontandoli però con standard ritenuti significativi. La certificazione potrebbe, in parte, rispondere a questa duplice funzione. Sono però necessarie diverse operazioni preliminari. Proviamo ad elencarle:

1)      definire l’idea di competenza cui fare riferimento, collegandola alle dimensioni culturali/disciplinari del curricolo (piuttosto che a quelle genericamente trasversali);

2)      avviare un processo di descrizione analitica di tali quadri (o profili) di competenze, magari strutturandoli in progressione tra i diversi gradi scolastici (curricolo verticale) e, per ogni step, individuando eventuali livelli interni (esempio tre);

3)      scegliere come criterio prevalente di valutazione i progressi personali degli allievi, verso standard o soglie ben precisate (in questa ottica lo standard assume la funzione di garanzia sul valore sociale dell’istruzione pubblica);

4)      apprezzare il dinamismo degli apprendimenti attraverso brevi enunciati verbali o codici asettici – come le lettere a,b,c magari fornite di una legenda - piuttosto che con il voto, che rimanda ad un giudizio statico e definitivo sull’asse insufficienza-sufficienza;

5)      tenere fermo il principio che la certificazione deve avere un valore pro-attivo, dunque andranno certificati sono gli esiti positivi, cioè anche i piccoli progressi, ma sempre ancorati ad un quadro di standard;

6)      apprezzare i percorsi personali per gratificare, motivare, sostenere l’autostima, ma bilanciare l’approccio mettendo gli allievi (le famiglie, gli insegnanti) di fronte alla esplicitazione pubblica degli esiti che ci si attende;

7)      delineare, attraverso la valutazione sommativa, un profilo complessivo dell’itinerario compiuto dall’allievo (ed ancora una volta il voto numerico si presenta inadeguato, come dimostrano le approssimazioni del cosiddetto voto di consiglio);

8)      descrivere con realismo il grado di padronanza di specifiche competenze, commisurate a standard pubblici, mantenendo sempre l’ottica dell’apprezzamento della progressione (serve dunque un tracciato preventivo di tali standard in progressione);

9)      progettare, anche grazie ad un’informazione puntuale sugli apprendimenti, interventi didattici compensativi, per far corrispondere i livelli di promozione legale con quelli di promozione reale (oggi si boccia il 2,5% alle medie, ma c’è un livello di criticità che supera il 20% in certe discipline, come matematica e lingua straniera).

Il sistema che abbiamo sommariamente delineato potrebbe aiutare tutti i soggetti ad avere una più chiara informazione sui reali livelli di apprendimento (evitando le ricorrenti finzioni dell’insufficienza che diventa sufficienza), salvaguardando però il carattere formativo che la valutazione dovrebbe assumere nella scuola obbligatoria. Sono approcci simili a quelli che abbiamo descritto che in altri paesi europei consentono di eliminare la bocciatura, di personalizzare i percorsi (con didattiche più flessibili), mantenendo comunque elevato il profilo degli apprendimenti.



[1] L’articolo apparirà nel n. 4, luglio-agosto 2010, di “Rivista dell’istruzione” (ed. Maggioli) nell’ambito di un più ampio dossier sulla didattica per competenze e la riforma della scuola secondaria superiore.


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