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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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FINANZIARE L’AUTONOMIA

di Gian Carlo Sacchi

 

La riorganizzazione della spesa per i sevizi formativi sembra la vera condizione per condurre tutto l’impianto riformatore. Questo governo ha introdotto la questione economica in modo dirompente, appena accennata in precedenza, accanto a quelle politico – giuridica dell’applicazione del titolo quinto della Costituzione e pedagogico - organizzativa dell’autonomia.

Mentre il dibattito sembra avere un carattere  generale di fatto sono le risorse che determinano i diversi provvedimenti; se in un passato, peraltro ancora lontano dall’essere compiuto, la disputa verteva sull’attribuzione dei poteri, il presente ha molta fretta di stabilire chi mette i finanziamenti.

La dimensione centralistica sembra essere legata agli investimenti statali, quella autonomistica all’esternalizzazione dei servizi, compresa una consistente apertura verso il privato; per alcuni si continua a parlare di stato sociale, per altri di sussidiarietà. Chi mette i soldi in genere tende a vincolarne l’utilizzo, chi li toglie è più incline a favorire l’autonomia.

Per convincerci vale la pena effettuare un rapido esame di tutta quella che si potrebbe chiamare la volontà politica, espressa in proposte di legge, ma anche in disposizioni di tipo amministrativo, sostenute da elaborazioni sul piano politico e culturale.

L’elemento più significativo è dato dalla nota ministeriale per la compilazione del programma annuale delle istituzioni scolastiche, il bilancio per il 2010. Quello che salta agli occhi è la limitata dotazione e la estrema lentezza di erogazione del denaro fresco, determinando un enorme credito da parte delle scuole, ma quello che si vede meno, ma che di fatto sarà decisivo è lo svincolo dell’avanzo di amministrazione, qualora ci sia, e cioè se proveniente da altre fonti. Non si possono effettuare spese, nemmeno per i supplenti, imputate all’erario, senza autorizzazione, ma si può far fronte appunto con l’avanzo “ad eventuali deficienze di competenza”.

Una tale operazione tende a trasformare l’intervento statale da finanziamento a contributo e per sostenere il POF le scuole dovranno sempre più ricorrere alla provvista sul territorio, a cominciare dai contributi, una volta volontari, oggi necessari, dei genitori.

Nel così detto decreto Bersani sulle liberalizzazioni del 2007 veniva detto che “le erogazioni liberali a favore degli istituti scolastici di ogni ordine e grado, statali e paritari senza fini di lucro” da parte delle imprese, potevano essere dedotte dalle tasse.

Ma qui deve essere riconsiderata tutta la politica del diritto allo studio delle regioni, che non si limitano più a sostenere l’accesso, ma devono fare supplenza allo stato sul fronte dell’integrazione dei disabili, degli stranieri, delle scuole dell’infanzia, ecc., pena la vera e propria diminuzione del servizio, che ormai veniva annoverato,anche sul piano delle dichiarazioni internazionali, tra i diritti universali della persona.

Fa capolino nella recente legge finanziaria la possibilità da parte delle province, seppur con i dovuti controlli e autorizzazioni, di istituire nuovi tributi nelle materie di competenza.

Un altro fronte si apre tra istruzione e formazione professionale. La dispersione scolastica non viene combattuta, ma si usano i canali regionali anche per allargare le maglie dell’assolvimento dell’obbligo (è noto che oltre il 90% degli iscritti a detti corsi proviene da un insuccesso nella scuola), i quali vengono posti nella transizione con il lavoro in modo da poter utilizzare finanziamenti europei, diminuendo così le classi, soprattutto degli istituti tecnici e professionali. E qui si aprirebbe tutta la questione della effettiva parità delle opportunità e dell’equità dei curricoli, in assenza di standard nazionali, da raggiungere effettivamente e non solo presenti per effetto di una burocratica certificazione delle competenze.

Si chiamano le scuole all’autofinanziamento, anche se l’autonomia non è ancora completa, ad esempio nella gestione del personale, e si cerca di equiparare le scuole statali e paritarie con contributi interessanti a queste ultime anche se hanno fini di lucro, per mettere, attraverso provvidenze regionali, ma in futuro ci potremmo trovare misure di agevolazione fiscale, i genitori economicamente in grado di scegliere indifferentemente tra le due offerte.

Per poter dare forza giuridica si propone l’autonomia statutaria, la trasformazione delle scuole che lo vogliono in “fondazioni” (e quelle che non possono rimarranno a carico dello stato o degli enti locali, rovesciando completamente l’attuale quadro istituzionale). Questa nuova figura, nel pdl Aprea, potrà avere partner pubblici e privati, ed anche associazioni di genitori. Esse avranno autonomia, oltre che sul piano educativo e culturale, anche su quello economico. I finanziamenti pubblici verranno distribuiti sulla base di una “quota capitaria”, individuata in base al numero degli alunni iscritti, tenendo conto del costo medio per alunno, calcolata in relazione al contesto territoriale, alla tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative della proposta formativa (sulla scorta della soddisfazione del cliente, delle indagini sugli apprendimenti ?), all’esigenza di garantire nel tempo i servizi di istruzione e di formazione offerti, nonché ai criteri di equità e di eccellenza.

Di “fondazioni di partecipazione” si parla anche in provvedimenti del ministro Fioroni per quanto riguarda gli Istituti Tecnici Superiori; tra i fondatori venivano annoverati persone fisiche e giuridiche, pubbliche e private, enti o agenzie che contribuiscono al fondo di dotazione e di gestione.

La “carta dei servizi” fu introdotta dal ministro Lombardi e sul sistema nazionale di valutazione c’è un’intesa bipartisan, anche se resta da capire come si intendono discriminare le politiche a seguito dei risultati. Quindi non solo contributi statali diminuiti, ma in prospettiva anche selezionati, come si è iniziato a vedere per l’università (diminuzione alle statali ma non alle private).

A questo punto la domanda è senz’altro quella di rifinanziare il sistema, sia a livello nazionale che sui territori, ma come ? Gli ordinamenti scolastici nazionali sono al minimo, ma lasciano ampio spazio per l’autonomia curricolare e organizzativa. La flessibilità è consentita, anzi auspicata, ma non è finanziata.

Dunque la risposta è: torniamo ai soldi dello stato e riapriamo la battaglia sul decentramento o ripartiamo dall’autonomia dei sistemi formativi locali, costruiamo delle reti e implementiamo progressivamente i finanziamenti. Per fare questo manca però il quadro di riferimento, peraltro previsto dal predetto nuovo titolo quinto.

Occorre sperimentare nuove modalità di organizzazione delle risorse, sia attraverso legislazioni regionali di sistema, e non solo di spesa, come già fa ad esempio la provincia di Trento, ma che con una prossima, quasi varata, intesa tra stato e regioni, potranno fare anche le altre, sia attraverso accordi di programmazione sui vari territori.

Nel merito la questione di fondo torna ad essere quella della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero annodare tutti i fili descritti in precedenza. E’ qui la garanzia che tutti i cittadini manterranno il loro diritto allo studio. I così detti LEP sono la proposta di un efficace federalismo, che potrà anche avere effetti sulle entrate fiscali. Essi potranno sostenere politiche virtuose nella qualità dei servizi, ma anche esigere interventi, pur con adeguata integrazione economica, che oggi sono richiesti e non erogati.

Un finanziamento statale uniforme, così come altrettanto per i tagli decisi in modo unilaterale, comunque la si pensi, non sembra più adeguato; i servizi sono da mettere in relazione con lo sviluppo del territorio e quest’ultimo va aiutato se manifesta carenze. I LEP, infatti, non riguardano le esigenze organizzative del sistema, ma i diritti sociali dei cittadini.

Le riforme scolastiche hanno sempre potuto dibattere problemi culturali e pedagogici, in quanto era implicito che alla fine il bilancio dello stato avrebbe sostenuto il maggiore onere. Oggi per un verso è piuttosto allarmante vedere in ogni provvedimento legislativo o governativo che tutto quello che si vuole fare di “nuovo” non deve avere aggravi per la finanza pubblica, anzi lo stato con la riforma  deve risparmiare, ma per l’altro c’è uno spazio introdotto dalla legge finanziaria del 2007 che prevede “la sperimentazione in alcune province, purchè regioni ed enti locali abbiano la reale possibilità di prendersi carico della rete scolastica e quella dell’offerta formativa (ce ne sono realtà in grado di attivarsi, per verificarne poi la praticabilità su tutto il territorio nazionale), per migliorare l’utilizzo del personale e delle risorse e per favorire attraverso appositi accordi territoriali il rapporto con la Regione e gli EELL”.

Partire dunque dai territori potrebbe essere più realistico anche per approfondire la possibilità di intese politiche bipartisan di cui il sistema formativo ha tanto bisogno.


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