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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Direttore responsabile: Dario Cillo


 

PER UNA POLITICA SCOLASTICA TERRITORIALE

di Gian Carlo Sacchi

 

Il dibattito politico sulla scuola sembra suddividersi tra: risorse, ordinamenti, governo e qualità del sistema. Ognuno di questi temi viene evocato dai mezzi di comunicazione ma anche tra gli operatori come risolutivo del non proprio splendido stato di salute in cui versano i risultati scolastici del nostro Paese e dei difficili rapporti tra le componenti sociali e istituzionali impegnate in questo servizio.

C’è chi sostiene che soltanto con più investimenti si può migliorare la qualità, e chi, al contrario, pensa di aumentare i finanziamenti solo dopo aver selezionato i meritevoli, sia sul versante degli studenti che dei docenti; una corrente di pensiero è convinta che sia ancora la norma a mantenere l’unitarietà nazionale, un’altra ritiene che debba essere lasciata ampia autonomia nella gestione dei processi formativi, arrivando perfino a trasformare le scuole in “fondazioni” di diritto privato.

Il fronteggiarsi di queste posizioni che possono essere incrociate per l’altro verso: soldi pubblici con centralismo, governo locale e privatismo, determinano una sostanziale paralisi, ponendo i territori in grosse difficoltà nell’incontro di domanda e offerta.

Oggi infatti è saltata la corrispondenza tra modelli didattici e organizzativi, il tempo scuola diventa sempre più un contenitore di esigenze sociali che in passato avevano cercato di correlarsi con la ricerca pedagogico – didattica e la qualificazione delle metodologie e delle attività. Già con la riforma Moratti c’era chi aveva parlato di “spezzatino” alludendo ad una pluralità di docenti ad esempio nel tempo pieno della scuola elementare, superando la tradizionale coppia; attualmente non solo c’è un’ampia frammentazione di ore nelle classi per la presenza di persone diverse che devono cercare di colmare i vuoti generatisi per effetto di orari tra i quali l’utenza può scegliere, ma nella scuola dell’infanzia ed anche negli istituti professionali ad esempio il team verrà composto con soggetti di diversa provenienza giuridica e professionale: sempre più saranno le cooperative sociali a sostituire i docenti in preda ai tagli di organico o gli enti di formazione professionale interverranno per il conseguimento delle qualifiche che in genere richiedono più competenze di quante l’istituto ne possegga stabilmente.

Questo porta sempre più spesso a dover rinegoziare gli standard che in passato si pensavano insiti nel modello che veniva offerto e dove la qualità della prestazione era da riferirsi perlopiù al rapporto insegnamento – apprendimento. Si pensi ai servizi per l’infanzia, si era arrivati al punto di proporre una legge che li dichiarasse patrimonio educativo della collettività a tutti gli effetti, mentre riemerge una serie articolata di opportunità (dai nidi di condominio alle tages mutter) nei confronti delle quali gli utenti si pronunciano anche in assenza, come sarebbe costituzionalmente previsto, di Livelli Essenziali a tutela dei diritti dei cittadini.

Per ciò oltre a prevedere un’adeguata modalità di valutazione e di trasparenza/comparazione si tratterà di assicurare autonomia alle scuole, istituzioni della Repubblica, in modo che possano essere il punto di riferimento di un sistema formativo territoriale altrettanto autonomo, in dialogo permanente con le altre realtà, pubbliche e private del territorio stesso. L’autonomia porterà con sé la flessibilità della gestione e la diversificazione delle scelte. Se la domanda è unica ma le proposte sono molte, chi e perché può chiedere di trasformare posti di lavoro in denaro (situazioni già vissute con il personale ausiliario), o, viceversa, di privilegiare un servizio educativo non conforme ai requisiti professionali e giuridici previsti anche attraverso un contratto nazionale nonché una legislazione che regolamenta il servizio pubblico.

Insomma sembra che il problema maggiore riguardi i luoghi e le modalità del governo e delle decisioni.

Quest’anno sarà il terzo dei tagli economici e di personale, e dopo cosa succederà ? Non è pensabile che si ritorni allo status quo ante e benché si possa confidare nel federalismo dei virtuosi, che però non si sa ne quando ne come verrà, la prima cosa cui pensare è come riorganizzare la spesa, a partire da quella dello stato, che però non potrà mai essere inferiore alla così detta “quota capitaria”, da definire in base al numero di coloro che usufruiscono del servizio, ponderata con indicatori di carattere sociale ed economico, nonché di qualità del servizio offerto. Si dovrà poi passare alle spese di regioni ed enti locali, sulla base delle “funzioni fondamentali” indicate per questi ultimi dalla recente legge sul federalismo fiscale, anche tenendo conto dei trasferimenti statali per il passaggio delle competenze in seguito all’applicazione del titolo quinto della Costituzione, nonché della gestione decentrata del personale.

Finanziamenti reperiti da aziende, privati, progetti europei, ecc., e la contribuzione delle famiglie faranno il resto, prestando attenzione a queste ultime, affinchè non venga meno la garanzia del diritto allo studio.

Come si vede la regolazione del flusso finanziario deve venire dal basso e questo comporta, come si è detto, autonomia e programmazione territoriale.

Un sistema bottom up però è ancora molto fragile, ma è forse proprio questa l’occasione, dell’indebolimento dell’amministrazione scolastica, per farlo nascere. Il citato quadro costituzionale è chiaro, ma non è ancora applicato: il centralismo resiste. Le scuole autonome sono gracili ? Non si direbbe in base ai numeri necessari per la loro costituzione, quello che conta è la loro distribuzione funzionale, sia ad intra nei plessi che la costituiscono, sia ad extra, come sistema territoriale. La revisione di questi parametri è sempre possibile, a condizione che siano le stesse scuole a parteciparvi, che possano decidere di costituire reti per regolare meglio il servizio, o che siano protagoniste in “ambiti” comprendenti le politiche sociali, giovanili, sanitarie,ecc.

Una tale impostazione porterà, nel quadro di obiettivi e standard nazionali, alla continua rinegoziazione della qualità dei servizi, definiti da un lato sul piano scientifico e dall’altro su quello sociale, a partire dalla dimensione locale.

Se dunque gli ordinamenti si inscrivono nella cornice delle norme generali, anche la gestione dei programmi e dei progetti didattici dovrà essere continuamente adeguata nel piano dell’offerta formativa e la loro efficacia sancita da una valutazione esterna.

La “manutenzione” dei curricoli non sarà più assicurata da un ministero centrale ma da authority (i recenti regolamenti per l’istruzione tecnica e professionale parlano di comitati scientifici misti tra docenti, ricercatori e imprese)  che offrano garanzia di competenza specialistica e da teacher center che sostengano la documentazione e la ricerca. E tutto questo con ampi spazi di autonomia appunto, professionale e organizzativa.

Una maggior coesione sociale e territoriale si ottiene nell’ambito della legislazione regionale e nella programmazione, nel promuovere le associazioni di comuni al pari di quelle delle scuole, assicurando a queste ultime adeguata rappresentanza nelle politiche di settore e di sviluppo locale.

Per quanto riguarda poi la presenza a livello nazionale si potrà andare oltre l’attuale consiglio nazionale della pubblica istruzione valorizzando sul versante amministrativo la conferenza stato regioni e su quello professionale un organismo che rappresenti la garanzia della libertà di insegnamento (codice deontologico dei docenti) e l’unitarietà del sistema.

Che la situazione sia incerta sul presente e sul futuro del governo del sistema lo si vede dalla frattura culturale e politica che si manifesta tra centro e periferia e che la motivazione dei docenti non sia alle stelle lo si rileva anche dalla mancata adesione alle politiche meritocratiche (che pure sono condivise in misura consistente) messe in atto dal Ministro, ma assumere da parte delle scuole e dei docenti atteggiamenti di difesa di routine, che tra l’altro sono sempre meno legittimate, anziché aprirsi ad un dialogo proficuo con la realtà sociale facendo valere le proprie professionalità e capacità di risolvere problemi legati al territorio stesso, oltre ovviamente ad assolvere alle proprie funzioni legate agli apprendimenti, forse è ancora più pericoloso e rischia la marginalizzazione e il sorgere di alternative che si organizzano attorno a certi tipi di utenza.

Non si tratta di mettere al posto del centralismo ministeriale quello regionale o provinciale, ma di capovolgere l’impostazione e ripartire dal basso, dall’autonomia scolastica e dal sistema formativo locale.

Forse questo non sarà il primo pensiero nell’opinione pubblica e nemmeno godrà di tanto consenso tra gli addetti ai lavori, ma sembra l’unica soluzione per poter riorganizzare un sistema formativo che va molto oltre la scuola ed i confini nazionali, mettendo in moto confronti un po’ in tutta Europa e non solo, tra le realtà regionali e territoriali.


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