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Mandeep ha tredici anni

Mandeep ha tredici anni, la sua migliore amica è Katia, una ragazza ucraina. Mandeep è del punjab, la sua famiglia è a Cori da tre anni, il padre lavora nelle serre, la madre è casalinga.

In classe siedono allo stesso banco, parlano tra loro ed io ascolto quel chiacchiericcio in un italiano con accento esotico, misto a qualche termine corese. Incuriosisce e affascina quella nuova lingua, appresa tra i banchi in pochi mesi, è il loro unico mezzo per comunicare. A Cori del resto già si parlano più di venti lingue tra i gruppi etnici presenti, questa è la ricchezza dell’immigrazione!

I bambini imparano in fretta, con la volontà e la necessità di inserirsi rapidamente. Sono tanti i minori, figli di immigrati, nel nostro paese. Per le strade di Cori, tra i vicoli capita spesso di udire le loro voci confondersi con quelle degli altri bambini. Imparano prima il dialetto corese della lingua italiana, anche questo fa parte della normalità che il fenomeno migratorio sta assumendo.

Qualcuno tempo addietro temeva per la "cultura corese in pericolo" per la venuta degli immigrati, oggi quando sentiamo i loro figli parlare il dialetto viene da sorridere.

Sono circa un centinaio gli immigrati provenienti dal Punjab indiano, una regione del nord ovest di questo meraviglioso e complesso paese asiatico. A Cori questa laboriosa colonia si è stabilita poco a poco da quasi venti anni; nei primi anni ’80 erano una curiosità, oggi sono una realtà fatta di uomini e donne che lavorano e figli che frequentano regolarmente e con successo le nostre scuole.

Il paese che hanno lasciato non è il più povero del sub-continente indiano, la spinta che li ha portati in Italia è stata quella di una vita migliore per i loro figli, un sogno possibile.

Per la regista Mira Nair, autrice del film "Monsoon wedding", gli abitanti del Punjab sono i "napoletani dell’India", per gli imprenditori veneti, dove possono contare una presenza consistente, sono i più veneti tra gli immigrati. Segnaliamo una bella ricerca fatta dalla Provincia di Cremona dal titolo "Turbanti che non turbano", a sottolineare gli ottimi rapporti tra la comunità sikh e la civile gente del cremonese: alla faccia della Lega Nord!

Nella nostra provincia i sikh punjabi lavorano nelle campagne e sono anche molto richiesti nell’allevamento dei bufali. A Cori quasi tutti gli uomini lavorano nei forni o in campagna. Le paghe non superano i novecento euro al mese. Con i prezzi e le tariffe in aumento far quadrare i conti e risparmiare pure qualcosa, è impresa da premio Nobel, dovremmo assumerli al posto di Tremonti!

Difficile vederli nei bar ed ancora più raro vederli bere alcolici o fumare. Spesso le donne, che in famiglia hanno un ruolo importante, sono ottime sarte, del resto i prodotti maggiormente esportati da quella regione indiana sono proprio le macchine da cucire ed i tappeti, oltre al frumento, agli articoli sportivi ed allo zucchero.

La loro religione è quella sikh, fondata sul finire del XV secolo dal guru Nanak Dew. La loro dottrina è una sintesi di induismo ed islamismo. I sikh sono monoteisti, rifiutano l’idea delle caste, delle immagini, la loro religione è basata sulla tolleranza verso tutte le altre religioni. Il loro Tempio d’Oro ad Amritsar è detto delle quattro porte, una per ogni religione. I sikh danno grande valore alla famiglia, spesso nel passato i loro matrimoni erano combinati dalle famiglie stesse. A Cisterna ed a Lavinio hanno due luoghi di culto ( Gurdwara ) molto frequentati la domenica. Visitare la loro chiesa e seguire le funzioni religiose è un’esperienza mistica unica.

Gli uomini arrivano in Italia, trovano lavoro, risparmiano molto e quando è il momento chiedono ai genitori di trovar loro una sposa, si fanno mandare la foto della ragazza prescelta e se piace si procede all’organizzazione delle nozze. Dopo il matrimonio, l’uomo torna in Italia e prepara i documenti necessari al ricongiungimento.

Le donne spesso vivono assieme di giorno ricreando piccoli microcosmi indiani in cui rifugiarsi. Non disdegnano però di imparare la nostra lingua. Nella scuola di alfabetizzazione, tenuta da volontari con il patrocinio del Comune, sono molte le donne presenti, più degli uomini che di sera lavorano nei forni. Le case in cui vivono gli immigrati sono quelle del centro storico, poco luminose e talvolta umide, ma gli indiani, che pure pagano fitti salati e molto spesso non dichiarati dai proprietari, riescono a dare loro dignità e intimità e quegli appartamentini acquistano in poco tempo l’odore delle spezie orientali ed il calore delle voci di bimbi che noi italiani stentiamo a mettere al mondo.

Le donne sikh frequentano il nostro consultorio familiare, accompagnate sempre dalle amiche o dai mariti. Il Comune di Cori ha da qualche mese istituito uno sportello integrato anche per gli immigrati, le loro storie sono fatte di precarietà, permessi di soggiorno difficili da ottenere. Gli indiani sono un gruppo compatto e rispettoso delle regole del nostro paese, ma il senso di provvisorietà in cui la legge Bossi-Fini li ha confinati è difficile da comprendere ed accettare.

La loro vita è semplice, fatta di lavoro, di figli e di risparmio, quando si può. Dopo i primi anni si acquista una macchina di seconda mano, con cui andare la domenica alla funzione religiosa ed il sabato a fare la spesa negli ipermercati della zona.

Mandeep, la mia alunna indiana, ha i capelli molto lunghi, è un’abitudine del suo paese, tagliarli è come tagliare via un pezzo della propria personalità. I suoi sogni li confida a Katia, la sua amica ucraina. Come tutte le ragazze della sua età vorrebbe studiare ed avere un lavoro, un ragazzo, una famiglia: il suo piccolo diritto di vivere.

Un giorno racconterà, in italiano, ai suoi figli di quando venne a Cori dal Punjab, di questa nostra lingua che ha imparato in fretta per farsi capire, per vivere un sogno dall’altra parte del mondo.

Ettore Benforte

 


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