Io mediatrice…

di Francesca Della Puppa

 

Sono entrata nella scuola quattro anni fa come "mediatrice culturale", questo era il titolo che mi era stato suggerito per presentarmi agli insegnanti che avevano i bambini stranieri in classe di cui mi sarei dovuta occupare. La motivazione era data dal fatto che ero laureata nella lingua d’origine dei bambini stessi. Ma da subito ho capito che la parola "mediatrice" aveva altre connotazioni ben diverse. La mediazione più grande che ho dovuto condurre non è stata fra lingua araba e lingua italiana o fra cultura araba e cultura italiana ma fra richieste inconscie dei bambini apprendenti e problematiche poste dalle loro insegnanti: gli uni immersi nel faticoso percorso di ricollocazione culturale in un mondo nuovo e diverso da quello di appartenenza, le altre immerse invece nel fare quotidiano della scuola, in quella scuola ancora poco interessata dal fenomeno immigrazione e tanto caratterizzata dai programmi, dalle richieste dei genitori, dagli adempimenti burocratici, dalla frustrazione del lavoro mal pagato e mal considerato, dal senso di abbandono da parte dell’istituzione, dal "per piacere abbiamo già troppe cose a cui pensare, tanti problemi da gestire". Lì ho trovato il senso della mia mediazione: io risorsa esterna alla scuola, non coinvolta nelle maglie dei problemi quotidiani, interessata dall’urgenza di dare risposte efficaci, costruttive, e motivanti ad un paio di allievi "spaesati" nel vero senso della parola e l’istituzione "scuola".

Il mio agire dentro la scuola è stato un continuo mediare fra ciò che si sarebbe dovuto fare per raggiungere ottimi risultati e quello che era possibile fare nelle condizioni in cui ci si trovava; un mediare fra una pedagogia tutta rivolta all’approccio interculturale e una pedagogia ancorata alle tradizioni, alle canzoni di Natale, al fare scuola per concludere il programma; un mediare fra bambini, potenziale ricchezza e bambini visti come problema; un mediare fra il mio propormi come insegnante con un mio percorso di autoformazione in educazione interculturale già a buon punto e insegnanti che cominciavano solo allora a chiedersi se fosse il caso di iniziare a formarsi sull’argomento.

Dopo quattro anni di lavoro con compiti diversi, in scuole diverse e con allievi diversi (non più solo arabi) e dopo due anni di incontri con insegnanti in corsi di formazione mi si conferma l’idea che il mio essere "mediatrice" non si completi né con "linguistica" né con "culturale" ma con "comunicativa": un ponte fra esigenze diverse, richieste diverse, fra insegnanti carichi di un loro bagaglio di attese e allievi in attesa di essere accompagnati dentro la classe come valore aggiunto e non più come un problema. Solo in quest’ottica giustifico l’uso del termine che mi sono sempre sentita stretto e mal indossato e ancora oggi a chi mi chiede: "Che lavoro fai?" faccio fatica a rispondere: "La mediatrice…".