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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

 

dialogo interculturale:
il ponte

…" Imparare a conoscere la lingua, la storia, la cultura, le abitudini, i pregiudizi e stereotipi,

le paure delle diverse comunità’ conviventi e’ un passo essenziale nel rapporto interetnico..."

 

alex langer

 

IL PONTE indica la relazione quale struttura esistenziale fondamentale

IL PONTE si attraversa nei due sensi : è simbolo di reciprocità.

IL PONTE è necessario per superare i solchi, le fratture che separano i popoli e i luoghi prossimi

IL PONTE indica il superamento degli ostacoli naturali , il suo attraversamento apre alla novità dell’altro.

IL PONTE mette in comunicazione due realtà , agevola il superamento della diffidenza o delle lacerazioni pregiudiziali ,

assegna alle realtà messe in dialogo pari dignità.  

 nadia scardeoni

 

 


Materiali da  http://helios.unive.it/


 

Introduzione alla comunicazione interculturale

1.1  Comunicare: “scambiare messaggi vincenti”

    Esistono molte definizioni di “comunicazione” a seconda del punto da cui si osserva il fenomeno: quelle del linguista e del semiologo non sono certo le stesse del sociologo, dello studioso di comunicazione aziendale o del massmediologo. Per i nostri fini abbiamo optato per una definizione estremamente semplice e l’abbiamo posta nel titoletto del paragrafo. Le quattro parole scelte per il titolo sono fondamentali, come in ogni definizione, e quindi mette conto discuterle in dettaglio.

Comunicare
   
Questo verbo descrive l’atto volontario, programmato, consapevole di scambiare messaggi per perseguire il proprio fine.
    La comunicazione non va confusa con l’informazione, che di solito è involontaria ed è costituita da “sintomi” e “segnali” (un tuono è un sintomo che ci informa dell’arrivo di un temporale; l’arrossire o il sudore sono segnali che informano il nostro interlocutore del nostro stato d’animo). Sintomi e segnali non sono volontari e intenzionali, mentre lo sono i segni di cui si sostanzia la comunicazione, tant’è vero che per i propri fini (cioè per scambiare messaggi vincenti) una persona può anche mentire, cioè inviare segni falsi, mentre non si può falsificare l’informazione.
 
Scambiare
   
Comunicare non significa “inviare dei segni monodirezionali”, compiere degli atti comunicativi in solitudine: secondo la saggezza popolare, infatti, parlare da soli è un segno di follia.
    La maggior parte della comunicazione è dialogica, ma anche quando è monologica, come in una conferenza, il conferenziere che sa comunicare tiene molto in considerazione il feedback dato dal sorriso degli ascoltatori, dalla loro postura, dal fatto che continuino o smettano di prendere appunti, e così via. Ed il saggista che sa scrivere si pone il problema della chiarezza concettuale ed espositiva che facilita il compito del lettore, della necessità di definire i termini che forse il lettore non conosce, e così via: il lettore, per quanto implicito, è ben presente nella mente di chi sa comunicare per iscritto.
 
Messaggi
   
Non ci si scambia solo parole: ciò che viene scambiato tra i partecipanti ad un evento comunicativo è un messaggio, cioè una struttura complessa composta di lingua verbale e di linguaggi non verbali: gesti, grafici, icone, oggetti, indicatori di ruoli sociali, layout grafico, ecc.
    Il messaggio orale viene creato in maniera cooperativa per cui i vari interlocutori collaborano alla sua creazione, negoziano significati e linguaggi per giungere ad un messaggio conclusivo accettato da tutti (anche nel caso di una lite ci sono elementi accettati da tutti i litiganti: il fatto di essere in disaccordo, la possibilità di andare sopra le righe, l’estremizzazione delle posizioni, il rischio di una conclusione traumatica dell’evento comunicativo, ecc.), mentre nel messaggio scritto ¾ tranne in scritture interattive come, ad esempio, quella consentita dalle chat lines di Internet o dalla posta elettronica ¾ questa negoziazione non è possibile.
 
Vincenti
   
Si comunica per raggiungere effetti pragmatici ben precisi; nella comunicazione aziendale, “vincere” significa far prevalere il proprio punto di vista sull’organizzazione dell’azienda, sulle priorità strategiche, sui metodi di progettazione e produzione, sulle prospettive di commercializzazione, sui prezzi da spuntare, e così via. In quella accademica si comunica per veder accettato ed apprezzato il proprio impianto concettuale e metodologico di ricerca e per ottenere, dove possibile, un sostegno economico oltre che scientifico. Nelle istituzioni internazionali si comunica per far prevalere la visione “politica” in senso lato del proprio paese, della NATO, dell’ONU o di qualunque altro ente di cui si sia espressione.
    Nella comunicazione (apparentemente) monodirezionale il conferenziere o lo scrittore lottano per vincere la noia o le distrazioni degli ascoltatori e dei lettori; vinta questa prima battaglia, la loro vittoria definitiva si realizza quando l’ascoltatore o il lettore accettano, data la forza del messaggio, di modificare le proprie idee, di ridisegnare l’architettura della propria conoscenza [1].

Comunicazione vs Espressione
   
Abbiamo già visto sopra la contrapposizione tra comunicazione intenzionale e informazione non intenzionale; è necessario sgombrare il campo anche da un’altra contrapposizione che può risultare ambigua: quella tra comunicazione ed espressione.
    Si tratta di una dicotomia fortemente difesa dagli idealisti, almeno fino a Croce, e abbandonata dagli anni Cinquanta in poi ritenendo che anche l’uso espressivo della lingua sia in realtà una forma di comunicazione.
    Oggi si tende a riproporre la dicotomia: la differenza tra le due nozioni sta nel fatto che nella “comunicazione” l’atto di discorso, cioè la decisione di creare un messaggio, prevede un destinatario intenzionalmente individuato ed avviene per uno scopo sociale, mentre nella “espressione” non si parla o scrive a qualcuno per produrre un risultato pragmatico, ma il tutto si esaurisce nell’atto stesso di produrre il testo (o il quadro, la canzone, ecc.,): una lettera sulla propria depressione è “comunicazione”, una poesia sulla stessa depressione è “espressione”.
 
1.2  Situazione comunicativa, evento comunicativo

    La comunicazione non si realizza se non in “eventi” che hanno luogo in un “contesto situazionale”.  Si tratta di concetti da chiarire, perché proprio in alcuni dei loro fattori si hanno delle variabili che risultano fonti di incidenti nella comunicazione interculturale.
    Secondo le prime definizioni, da Malinowsky a Fishman, la “situazione comunicativa” veniva definita da quattro variabili:

a.  luogo: Fishman parlava genericamente di “luogo”, ma l’etnometodologia della comunicazione ha scisso il “luogo” in due, il setting fisico e la scena culturale (Hymes 1972); la caratteristica qualificante della comunicazione interculturale è quella di avvenire tra persone che vengono da scene diverse e che, indipendentemente dal setting fisico in cui si trovano, conservano le regole e i valori del luogo culturale da cui provengono;
 
b.  tempo: il tempo pare una costante, ma in realtà è una variabile culturale e crea significativi problemi di comunicazione interculturale, tant’è che dedicheremo a questo tema il paragrafo 2.1;
 
c.  argomento: si tratta di un fattore di rischio perché gli interlocutori, convinti l’argomento di cui stanno parlando sia condiviso, possono dimenticare che i valori che sottostanno a tale argomento di cui parlano non sono sempre condivisi nelle varie culture (cfr. 6.1);
 
d.  ruolo dei partecipanti: è un altro elemento di grave difficoltà: in ogni cultura lo status sociale viene attribuito e mantenuto secondo valori e regole proprie, spesso fortemente distanti, se non contrastanti, tra culture e culture. Nel prossimo capitolo tre paragrafi (2.2, 2.3 e 2.4) sono dedicati a questo aspetto.

    Dagli anni Settanta in poi la ricerca sociolinguistica, quella pragmatica e quella di etnometodologia della comunicazione hanno aggiunto altri fattori da tenere in considerazione nel momento in cui si vuole analizzare un “evento comunicativo”.
    Oltre agli elementi della situazione (elencati ai punti a, b, c, d), un evento include:

e.  un testo linguistico e...
 
f.  ...dei messaggi extralinguistici: nella comunicazione interculturale, che è di solito condotta in inglese (o, meglio, nel bad English internazionale), le norme linguistiche sono abbastanza condivise e proprio sulla lingua si focalizzano l’attenzione e lo sforzo di chi parla: cercare il lessico appropriato, evitare errori grossolani, ecc.; invece le norme dei linguaggi non verbali non vengono prese in considerazione, quasi che i gesti, la mimica facciale, le distanze interpersonali, ecc., fossero dei concetti universali. Proprio a queste norme è legato uno dei principali problemi della comunicazione interculturale e quindi verranno dedicati loro due capitoli;
 
g.  degli scopi dichiarati e non che i partecipanti perseguono: i messaggi sono vincenti nella misura in cui questi scopi pragmatici sono raggiunti; le varie culture regolano in maniera diversa il modo in cui si possono rendere espliciti certi scopi - e si tratta di regole che coinvolgono valori fortemente marcati (cfr. capitolo 2) come la gerarchia, lo status, il rapporto uomo-donna: il modo di velare o enfatizzare gli scopi cambia da cultura a cultura – e anche all’interno della stessa cultura, della stessa famiglia, si è notato ad esempio come spesso uomo e donna si dicano You Just Don’t Understand Me (è il titolo di Tannen 1990) a causa del modo femminile di velare i propri scopi e i desideri, contrapposto al modo proprio dell’uomo che li mette in luce;
 
h.  degli atteggiamenti psicologici (o “chiavi”, come le chiama Hymes 1972) che i partecipanti hanno nei confronti degli interlocutori, della sua cultura, della sua azienda, istituzione o università: sarcasmo, ironia, rispetto, ammirazione, diffidenza, ecc., emergono nel testo linguistico e soprattutto nei linguaggi non verbali, per cui informano l’interlocutore su atteggiamenti che certo non si vorrebbero comunicare (cfr. 1.1).
Spesso su questo piano possono sorgere fraintendimenti: la sensazione di imbarazzo e di difficoltà di un asiatico si esprime, come indicatore di “chiave”, con un sorriso, che l’occidentale prende come indicatore di una chiave diversa, positiva, disponibile e rilassata;

i. la grammatica contestuale (basilare per l’analisi del discorso interculturale secondo Scollon-Scollon, 1995) include, oltre a molti dei parametri di Fishman e Hymes, anche il concetto di sequenza prevista per un dato evento, che in alcune culture può essere ritualizzata o abbastanza rigida e prevedibile, mentre in altre porta ad avere una maggiore flessibilità: ne consegue che chi viene da una cultura del primo tipo ha la sensazione di trovarsi nelle sabbie mobili, nell’incapacità di gestire l’evento comunicativo.

    Alcuni eventi possono essere brevissimi (il grido "aiuto" di chi sta annegando, seguito dal tuffo del bagnino), altri possono richiedere anche mesi, come alcune operazioni commerciali (dalla visita alla fiera alla ricevuta di pagamento, passando attraverso preventivi, ordinativi, fatture pro-forma e reali, lettere di addebito e accredito, eventuali reclami, giustificazioni, ecc.): maggiore è la durata dell’evento, più probabile è lo scontro deliberato o l’errore involontario sul piano culturale.
    Ci sono poi degli eventi particolarmente ritualizzati (una cena formale, una conferenza, una riunione di un consiglio d’amministrazione, una presentazione, ecc.) che ogni cultura gestisce secondo regole proprie, la cui mancata conoscenza porta a situazioni spiacevoli in cui la comunicazione viene fortemente appesantita e, in alcuni casi, diviene impossibile. Dedicheremo il capitolo 6 ad alcuni di tali eventi.
 

1.3  Posizioni “up” e “down” e rischio di “escalation”

    Con una metafora, la comunicazione può essere definita come una partita a scacchi. E’ una situazione in cui ogni giocatore si propone di vincere. Per tal fine egli dispone di una serie di strumenti (la lingua e i linguaggi non verbali) e può eseguire delle mosse.
    Come in una partita, ogni giocatore cerca di trovarsi in una posizione che le teorie sistemiche della comunicazione (Bateson 1972) definiscono Posizione up e cerca di tenere l’avversario-interlocutore-collaboratore in Posizione down: tenta cioè di non lasciargli l’iniziativa sul modo in cui gestire l’evento comunicativo, la partita, cerca di impedire che sia l’altro ad avere la scelta delle strategie, degli argomenti, e così via (un’applicazione della teoria sistemica della comunicazione alla vita aziendale è in Schmidt 1990). Se gli interlocutori sanno comunicare, cioè condividono e rispettano le regole del gioco, la partita giunge a conclusione normalmente; se invece le regole sono mal conosciute o applicate si può arrivare ad un’escalation in cui entrambi vogliono essere up: la comunicazione abortisce o si giunge alla lite incontrollata
    Questa normale dialettica tra posizioni up e down può essere fortemente turbata dalle differenze culturali. Una mossa permessa in una cultura (interrompere, ad esempio) può essere vietata in altre; l’uso di strumenti quali il tono di voce o il modo di gesticolare che sono normali in una data cultura può essere vissuto come aggressivo o invadente in altre culture, producendo così messaggi non condivisi: l’italiano che interrompe, alza la voce e gesticola può irritare un interlocutore scandinavo che interpreta queste forme come attacchi e reagisce di conseguenza. Ma l’italiano non voleva attaccare e quindi si sorprende della reazione dello svedese, si sente aggredito e a sua volta, reagisce alzando il tono di voce, e così si innesca una reazione a catena che rallenta o blocca lo scambio comunicativo per un po’ - o addirittura lo porta ad esito infelice, per cui nessuno dei due può raggiungere gli scopi per cui si erano riuniti.
Questo studio vuole essere un contributo ad evitare che si verifichino fenomeni di escalation non voluta.

1.4 I pezzi sulla scacchiera della comunicazione

    Proseguendo la metafora della comunicazione come una partita a scacchi in cui tutti i partecipanti vogliono vincere, dovremo prendere in considerazione i “pezzi”, gli strumenti con cui viene giocata la partita.
    Gli esseri umani hanno come strumenti comunicativi il corpo, oggetti sul corpo ed intorno ad esso, la lingua.
    Spesso si è portati a credere che la comunicazione linguistica sia tutta la comunicazione. Soprattutto chi usa una lingua straniera, e quindi ha problemi superiori a chi usa la lingua materna, focalizza buona parte della sua attenzione sulla lingua e perde di vista i linguaggi non verbali: tuttavia

· tra il 75 e l’80% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi (Birkenbihl 1991)
 
· solo il 10-15% giunge dall’orecchio.

    Siamo dunque molto più “visti” che “ascoltati”, e molto spesso è proprio sulla base di quel che si vede (aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o non.
    Inoltre il funzionamento del nostro cervello nel momento in cui comprende un messaggio prevede che i due emisferi cerebrali procedano con un ordine ben preciso, indipendentemente dalla qualità dello stimolo verbale o visivo o audiovisivo che ricevono:

·  prima si attiva l’emisfero destro del cervello (quello analogico, globale, visivo, emotivo)
 
·  poi i dati così pre-elaborati vengono passati all’emisfero sinistro (logico, razionale, linguistico, analitico).

    Dunque siamo prima “visti” e poi “ascoltati”.
    La priorità temporale e la prevalenza quantitativa dei linguaggi visivi non intaccano certo il primato del linguaggio verbale come strumento di comunicazione - ma si deve prestare attenzione a non sottovalutare gli aspetti non verbali, che risultano particolarmente connotati nelle diverse culture, per cui un gesto o un oggetto o un vestito eleganti a Firenze sono insignificanti o ineleganti a Mosca: i primi missionari in Congo pretendevano che le donne si coprissero il seno, cosa che in quella cultura solo le prostitute facevano...
    Dedicheremo l’intero capitolo 3 alla comunicazione effettuata con il corpo, con i suoi movimenti, con i suoi odori e rumori, con la distanza tra i corpi, con gli oggetti sopra e intorno ai corpi; il capitolo 4 invece verterà sui principali problemi interculturali legati alla lingua.
 
1.5 Le mosse nella scacchiera comunicativa

    Quando si comunica si persegue un macro-scopo (raggiungere un accordo all’interno di un gruppo di progetto, condurre a buon fine una trattativa, convincere un’università straniera a cooperare in un progetto Socrates, ecc.) per mezzo di una serie di atti comunicativi che perseguono dei micro-scopi: nella metafora della comunicazione come partita a scacchi questi atti corrispondono a delle “mosse” comunicative: attaccare, rinunciare, rimandare, interrompere, ironizzare, e così via (Schmidt 1990).
    Siccome gli eventi comunicativi tipici del mondo aziendale, produttivo, commerciale, legale sono competitivi e quindi fortemente caratterizzati da mosse che ciascuno compie per passare in posizione up o per far scendere down l’interlocutore, l’analisi di tali mosse comunicative è fondamentale in un discorso sulla comunicazione interculturale – e lo è ancor di più se si considera che chi parla ricorre spesso a tutte le mosse disponibili nella sua cultura senza tener conto del fatto che alcune di queste possono essere vietate o non significative in altre culture.
    Dedicheremo quindi il capitolo 5 ad un’elencazione delle principali mosse comunicative, che sono una ventina, viste in prospettiva interculturale.
 
1.6 Un modello di competenza comunicativa

    Sulla base di quanto detto sopra, possiamo procedere a delineare un modello di “competenza comunicativa”, cioè di ciò che una persona deve possedere e padroneggiare per poter comunicare. Abbiamo trattato altrove con ampiezza questo tema (Balboni 1998, Balboni-Luise 1994), quindi ci basterà qui accennarne nelle linee essenziali.
La competenza comunicativa può essere visualizzata come una piramide a tre lati [2], ciascuno dei quali indica un “sapere” o “saper fare”:

a.  saper fare lingua
 Si tratta di saper comprendere, leggere, scrivere, fare un monologo (ad esempio tenere una conferenza, fare la presentazione di un progetto, ecc.), partecipare a un dialogo, oltre ad altre “abilità linguistiche” che non rientrano nel fuoco di questo studio interculturale: queste componenti della competenza comunicativa sono dei processi universali, anche se i prodotti,  cioè i testi che vengono compresi o scritti, i dialoghi in quella data situazione, ecc., variano da cultura a cultura per effetto delle regole comprese nelle altre due facce della piramide.
 Offriremo un approfondimento specifico su due abilità (monologare e dialogare; cfr. cap. 6), mentre il discorso sulle altre abilità è diffuso in tutto il volume;
 
b.  saper fare con la lingua
 Questa faccia della piramide include la dimensione
-  sociale: chi sa comunicare deve sapere come individuare e rispettare i rapporti di ruolo (o come attaccarli, se è il caso), sa attribuire correttamente lo status sociale e gerarchico ai vari partecipanti all’evento comunicativo, è appropriato nell’uso di appellativi (titoli, Mr/Ms, ecc.), e così via: questa grammatica sociolinguistica cambia fortemente non solo tra culture, ma anche all’interno di culture che gli estranei considerano omogenee (si pensi all’espressione della formalità e del rispetto in Lombardia, Veneto o Sicilia...)
-  pragmatica: comunicare efficacemente significa raggiungere i propri scopi, vincere la partita; tale obiettivo è perseguito attraverso una serie di atti, cioè di “mosse” intenzionali, mirate ad un effetto preciso; anche la grammatica pragmalinguistica è fortemente connotata culturalmente: come si è detto, atti accettabili in una cultura non lo sono in altre
-  culturale: la grammatica antropolinguistica e quella, più in generale, antropologica di una comunità costituisce il tessuto comune su cui si intrecciano tutti gli eventi in una data cultura; variando le culture, variano queste grammatiche e nascono i problemi di cui ci occupiamo i questo studio.
 A questa seconda faccia della piramide è stata dedicata molta parte di questo volume (oltre che, specificamente, il capitolo 5), perché ovviamente è qui che si trovano i maggiori problemi di comunicazione interculturale;
 
c. sapere i linguaggi verbali e non-verbali
 Questa “faccia” include le grammatiche tradizionalmente indicate con tale nome (per due secoli si è ritenuto che sapere una lingua significasse conoscerne pronuncia, lessico e morfosintassi) e quelle, generalmente trascurate, dei linguaggi non-verbali. Avremo quindi una:
c.1. competenza linguistica di cui fanno parte le componenti

· lessicale, ad esempio la scelta delle parole, il modo di modificarle e di crearne di nuove, ecc.
· morfosintattica, cioè meccanismi quali il singolare e il plurale, il modo di chiedere, di negare, di vietare, di esprimere comparazioni, di parlare del passato e del futuro, ecc.
· testuale, cioè la serie di meccanismi che garantiscono coerenza logica e coesione formale a un testo, nonché le regole dei vari generi (dialogo, conferenza, barzelletta, lettera, ecc.); si tratta di una grammatica molto complessa e delicata: un testo costruito in linea retta, straight to the point, è corretto per un americano ma rude per un cinese, che preferisce un procedimento a spirale, come vedremo
· fonologica, che riguarda la pronuncia: non si hanno problemi di comunicazione interculturale in questo settore
· paralinguistica, cioè quella componente “esterna” della competenza fonologica che riguarda il tono di voce, la sottolineatura delle parole, la velocità con cui si parla, e così via: qui i problemi sono invece rilevanti.

A questa componente della competenza comunicativa è dedicato il capitolo 4;

c.2. competenza extralinguistica: essa comprende le competenze

· cinesica, cioè l’uso comunicativo del corpo, delle sue posture e dei suoi movimenti
· prossemica, che riguarda l’uso comunicativo delle distanze interpersonali
· vestemica e oggettemica, che consentono di utilizzare per la comunicazione l’abbigliamento e altri oggetti di vario tipo e natura.

Dedichiamo il capitolo 3 a questa componente della competenza comunicativa - che rappresenta il settore dove avvengono i maggiori errori interculturali, perché in genere si è poco consapevoli del ruolo dei linguaggi non verbali e quindi li si monitorizza poco durante la comunicazione.

    Questo modello di competenza comunicativa (cfr. Balboni-Luise 1994 e Balboni 1998 per un approfondimento) descrive la  competenza nella lingua/cultura materna, ma per definizione (trattandosi di un modello universale) deve essere applicabile anche alla descrizione della competenza nella lingua/cultura straniera e nella comunicazione interculturale.

1.7 I parametri per valutare i problemi comunicativi interculturali

    Esistono molti parametri elaborati dalle scienze della comunicazione e da quelle del linguaggio per valutare di volta in volta la qualità di una mossa o di uno strumento di comunicazione.
 Tra questi i più produttivi nella nostra prospettiva sono i seguenti, cui faremo costantemente riferimento nella trattazione dei vari aspetti della comunicazione interculturale:
 
a) formale vs. informale
 Si tratta di un’opposizione essenziale, se non altro perché nella comunicazione “l’abito fa il monaco”: come abbiamo detto siamo prima visti e poi ascoltati e un errore sul piano della formalità richiesta in una data situazione può compromettere lo scambio.
 Ogni cultura ha il suo modo particolare di identificare formalità ed informalità, non solo nel linguaggio, ma anche nel modo di comportarsi, di scegliere un regalo, di abbigliarsi;
 
b) polite vs. unpolite
 Usiamo i termini inglesi perché essi includono non solo il “ben educato” italiano, ma anche un concetto di adeguatezza alla situazione, nonché un fattore di gentilezza e di rispetto sociale che va oltre quella che in italiano noi definiamo “buona educazione”: ad esempio, la sequenza “io e te”, comune in Italia, viene vissuta come unpolite in Germania, Inghilterra, America, dove du und ich oppure you and I sono invece richiesti; negli studi di pragmatica comunicativa esiste una versione più forte del concetto di politeness: essa esprime l’accettazione di un rapporto gerarchico (Scollon-Scollon 1995: cap. 3), ma in questo studio useremo il termine nella sua accezione più diffusa, visto che il nostro oggetto è la comunicazione e non l’antropologia delle organizzazioni gerarchiche. (Sulla politeness cfr. Goody 1987; Clyne  1994:13ss);
 
c) forza mascherata vs. esplicita
 In una “lotta” quale è la comunicazione la forza non va sempre evidenziata, perché l’interlocutore potrebbe offendersi e interrompere lo scambio: si pensi ad un gruppo di progetto che si scioglie perché una personalità troppo dominante prevarica gli altri, si pensi ad una trattativa che si arena di fronte ad una mossa comunicativa ritenuta offensiva; spesso in una situazione formale la forza delle frasi e degli atti comunicativi non può essere esplicita, per cui gli imperativi, il verbo “dovere”, i gesti imperiosi della mano sono esclusi (cfr. l’analisi dei directives in Clyne 1994: 63ss).
    In questo campo la complessità interculturale è notevole: in inglese un divieto viene raramente espresso con un esplicito “no, you may not go” e la sua forza viene piuttosto mascherata con un delicato “I’m afraid you can’t possibly go there, I’m sorry”; di converso, ci sono culture, come ad esempio quella ebraica, che privilegiano l’espressione diretta del proprio pensiero, in maniere che appaiono brusche a tutti gli occidentali e che quindi sono destinate a creare problemi nel momento in cui vengono tradotte linguisticamente, ma non culturalmente, in inglese: quale problema un israeliano possa avere con un greco, che maschera la forza ancor più che un americano, è facile da immaginare; il problema si presenta quotidianamente anche all’interno della cultura americana: i bianchi mascherano la forza dei loro atti linguistici, mentre i neri, come gli ebrei, ritengono giusto esprimere con forza le proprie opinioni, richieste, intenzioni  (Wierzbicka 1991: 88ss; 121ss).
    Direttività/implicitezza è una dicotomia fondamentale sia nelle negazioni, come abbiamo visto sopra, sia nell’uso degli imperativi: un inglese li usa per le istruzioni semplici, ma il più delle volte, se deve davvero regolare il comportamento altrui, usa i cosiddetti whimperatives, creati di solito ricorrendo a could, should oppure would: tutto sono, tranne che richieste, suggerimenti, consigli.
    A complicare il problema, si ricordi poi che l’opposizione esplicito/implicito per la forza pragmatica di un atto comunicativo è regolata anche da un altro fattore, quello del genere del parlante: non solo il maschio è in genere più esplicito della donna (Tannen 1990), ma molte culture non consentono alla donna di essere esplicita nelle sue richieste o nei suoi ordini.
    Questa osservazione riprende l’idea di Grice che esista nella comunicazione un “principio cooperativo” che permette ai parlanti di lasciare molto di implicito nei propri atti comunicativi, nella certezza che l’interlocutore li disambiguerà per conto suo – ma allo stesso tempo le osservazioni fatte sopra permettono di notare che il principio funziona all’interno di una data lingua-cultura, ma non è un universale della comunicazione, tant’è vero che molte incomprensioni interculturali nascono proprio dalla mancanza di un principio condiviso di cooperazione;
 
d) politicamente corretto vs. scorretto
 Ancorché tradotta in italiano, l’espressione politically correct è culturalmente di matrice nordamericana; si tratta di un parametro di giudizio che sta lentamente penetrando in Europa: non tanto in Gran Bretagna, dove la consonanza con gli Stati Uniti è spesso più linguistica che culturale, quanto nel BeNeLux e nell’area scandinava.
 In base a questo parametro puramente culturale, quindi estremamente rilevante nella nostra prospettiva, la scelta lessicale ha valore “politico”: rientrano in questa sfera il rispetto etnico (ad esempio “persona di colore”, che abbiamo preso in prestito dall’americano per indicare un non-bianco; in italiano è invece politicamente marcata la scelta tra “negro” e “nero”), il concetto di parità tra uomo e donna, che è facilmente realizzabile nella lingua inglese, dove il femminile è poco marcato per cui si riduce alle coppie he/she, his/her, man/woman, ma che diviene spesso ridicolo in italiano, dove il genere maschile o femminile distingue tutti i nomi, gli articoli, gli aggettivi e spesso i pronomi...
 In America la political correctness porta a situazioni impensabili per gli europei: ad esempio il concetto di parità tra i sessi può far sì che un uomo, aprendo la porta e cedendo il passo ad una signora, si senta apostrofare come sessista;
 
e) uso libero vs. taboo
 Solo la consuetudine e l’attenzione precisa consentono a persone che frequentano ambiti internazionali di cogliere il continuo variare degli argomenti di uso libero e di quelli tabooizzati. Spesso, ad esempio, gli stessi italiani non si rendono conto di quanto sia taboo nella nostra cultura l’accenno alle cure psicologiche: il consiglio di andare da uno psicologo o da uno psicoanalista viene sentito come offesa, significa “sei matto!”; l’italiano del nord cui uno straniero chiede qualcosa sulla mafia esorcizza anzitutto il problema (“Primo, la mafia è in Sicilia; secondo: Riina è in galera, ce la faremo”) e poi cambia discorso. Allo stesso modo, un inglese rimesta in ogni turbidume della Royal family ma reagisce se lo fa un non-inglese (soprattutto se lo fa un Americano, cui si ribatte elencando le segretarie e le stagiste del Presidente Clinton).
 Ogni cultura ha dei taboo noti e ne ha altri che mutano rapidamente: ad esempio il cenno al passato comunista dell’Europa orientale oppure al fascismo pinochettiano in Cile è delicatissimo perché molte delle persone che oggi hanno contatti con stranieri da posizioni manageriali ed accademiche elevate hanno una storia personale in quei regimi e quindi la semplice battuta di un italiano, a tavola, per riempire un silenzio, può essere vissuta molto male dall’interlocutore e innescare meccanismi di escalation.
 Altre volte ci sono taboo incomprensibili per alcuni: da quello delle carezze in testa a un bambino nelle Filippine, che fanno passare l’italiano affettuoso per un pedofilo incallito, a quello che riguarda la riservatezza degli europei sulla propria famiglia, atteggiamento che non è compreso dai giapponesi: informarsi sulla famiglia dell’interlocutore, sui figli, sull’eventuale divorzio sia suo sia dei genitori, ecc., è normale in una cultura come quella nipponica in cui la famiglia di provenienza  rappresenta la credenziale base di una personalità.
 Tre taboo da ritenere universali (anche se vi sono eccezioni) sono eros e thanatos, cioè i discorsi riguardanti il sesso e la morte, e quelli sulle secrezioni del corpo (sudore, muco, cerume, sperma, urina, feci, vomito). Anche i discorsi sulla digestione e sui sentimenti personali vanno considerati taboo nelle culture di origine inglese;
 
f) cooperativo vs. arroccato
 L’atteggiamento delle persone che sono impegnate in uno scambio comunicativo può essere di due tipi: arroccato (“In questo momento ho la parola io, quindi questo è il mio ‘territorio’ e nessuno intervenga mentre esprimo il mio pensiero”) oppure cooperativo (“Sebbene io abbia la parola, vi permetto di intervenire per integrare, correggere, sostenere quanto dico”). Tendenzialmente gli italiani appartengono a questo secondo gruppo, ma la loro disponibilità a collaborare si scontra con l’irritazione fortissima dei nordici se vengono interrotti: essi possono sentirsi talmente offesi da rinunciare a proseguire nel loro discorso.
 Anche un’intera cultura, non solo una persona, può essere valutata secondo questa dicotomia. Ad esempio, le culture asiatiche, soprattutto quella giapponese, sono globalmente arroccate di fronte a uno straniero: “uno dei maggiori problemi [...] è che una volta commesso un grave ‘errore culturale’ risulta spesso impossibile porvi rimedio e possono passare parecchi mesi prima che ci si renda conto che rifiuti gentili significano in realtà isolamento e messa al bando” (Gannon 1994; trad. it. 1997: 30).
 

 

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1 L’idea di evento comunicativo come “battaglia” è insita nella nostra cultura: se, sulla base delle teorie della conceptual metaphor theory (Lakoff-Johnson 1980), osserviamo le metafore militaristiche relative alla comunicazione entrate nell’uso collettivo troviamo, ad esempio, che le affermazioni sono “indifendibili”, che si devono “attaccare” i punti deboli dell’argomentazione altrui, che le critiche “colpiscono il segno”, (in inglese e francese si usano target e cible, ancor più marcati), che si “demoliscono” e “distruggono” argomentazioni, che si “vincono” discussioni solo se si ha una “strategia” precisa, che si procede per “botta” e risposta, che si “sparano” dati e cifre, che su un dato argomento non si “cede di un millimetro”, e così via (per alcuni degli esempi chi scrive è debitore a Danesi-Mollica 1998: 5).

2 Byram-Zarate 1994 utilizzano, per definire la competenza comunicativa interculturale, un modello diverso da quello della competenza comunicativa intraculturale:
a.     saper essere, abbandonando l’etnocentrismo
b.    saper apprendere, osservando la pluralità culturale del mondo
c.     sapere i tratti caratterizzanti della cultura con cui si ha a che fare
d.    saper fare una sintesi di quanto osservato nei punti precedenti.
Ci pare che il punto “a”  rientri in un atteggiamento psicologico di relativismo culturale che non ha nulla a che fare con una “competenza”; “b” e “c” fanno parte della competenza “matetica”, cioè il saper apprendere (vi abbiamo dedicato il capitolo 7), non di quella comunicativa; il punto “d” è un corollario e non si configura come un “sapere” autonomo.
Abbiamo riportato questo modello di competenza comunicativa interculturale solo perché è tra i più diffusi, ma riteniamo che sia difficilmente sostenibile sia nel modo in cui viene articolato, mescolando componenti da diversi ambiti concettuali, sia sul piano teorico: un modello di  “competenza”, nel senso in cui la definisce Chomsky, non può variare da situazione a situazione: il modello di competenza comunicativa è per definizione lo stesso in ambito sia intraculturale sia interculturale. E’ scopo di questo studio dimostrare che il modello di competenza comunicativa usato nella letteratura sociolinguistica e glottodidattica per il primo ambito può essere usato anche per descrivere il secondo.

 

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Apprendere e insegnare la comunicazione interculturale

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“L’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi:

consapevolezza, conoscenza e abilità.

Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale. [...]
Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti [...].
L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale”

(Hofstede 1991: 230-231).

    Crediamo che questa citazione, tratta da uno dei padri della ricerca sulla comunicazione interculturale, sia illuminante sul piano didattico. Riprendiamo le tre nozioni evidenziate da Hofstede: consapevolezza, esperienza ed abilità.
    Il presente volume ha come scopo quello di portare alla consapevolezza della varietà del mondo e di come questa influisca sull’interazione tra persone che appartengono a culture differenti. Nel complesso del volume, questo ultimo capitolo, specificamente didattico, illustrerà come ogni persona, in maniera autonoma o in contesti di formazione, possa trarre vantaggio dalla propria esperienza di comunicazione interculturale, come possa continuare ad imparare dalla propria interazione con membri di altre culture, costruendo giorno dopo giorno la propria abilità, che nel nostro linguaggio specifico abbiamo sempre definito “competenza comunicativa interculturale”.
    Riprendiamo ora la “filosofia” interculturale che abbiamo esposto nel paragrafo 0.3 per costruire su quelle basi una proposta didattica coerente con tutta l’impostazione del volume. Se è vero che entrare in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i propri valori ma (a) conoscere gli altri, (b) tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera dell’immoralità che, secondo i nostri standard, non intendiamo accettare, (c) rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle diverse culture, (d) accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, (e) mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti; e se è vero che l’interculturalità come l’abbiamo definita noi è un atteggiamento di fondo, che prende atto della ricchezza insita nella varietà, che non si propone l’omogenizzazione ma mira soltanto di permettere un’interazione il più piena e fluida possibile tra le diverse culture, ne consegue che formare alla comunicazione (e, più in generale, ad un atteggiamento) interculturale significa formare:

a) persone che consapevolmente scelgono quali modelli comunicativi e culturali accettare, tollerare, rifiutare nelle varie situazioni in cui si trovano ad operare
 
b) operatori che sanno evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze culturali
 
c) protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituiscono la curiosità, il rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie.

    Con queste finalità un corso di formazione alla comunicazione interculturale non è più un semplice “addestramento”, un training finalizzato ad un bisogno immediato, ma si colloca nella sfera dell’educazione, che cambia la natura delle persone e, indirettamente, quella della società in cui viviamo.
    Proporremo anzitutto, nei paragrafi 7.1 e 7.2, due strumenti che chiunque (un formatore di personale oppure una persona che vuole migliorare la propria competenza comunicativa interculturale) può portare con sé vita natural durante e continuare a compilare, raccogliendovi il frutto delle sue osservazioni.
    In 7.3 daremo infine alcune indicazioni sulla metodologia della formazione in questo settore.

7.1 Uno strumento per l’osservazione culturale

    Una “cultura” è l’insieme dei “modelli culturali” messi in atto da un popolo per rispondere a bisogni di “natura”: nutrirsi, procreare, proteggersi dal freddo, vivere in gruppo, ecc.
    Poiché siamo cresciuti all’interno dei modelli della nostra cultura, ne siamo generalmente inconsapevoli: ci sembra ad esempio “naturale”, mentre è “culturale”, che ci sia un capofamiglia e non una capofamiglia, che non si debba picchiare chi ha idee diverse dalle nostre (ma sono passati pochi decenni dal fascismo, dagli anni di piombo... e negli stadi di calcio ci si picchia oggi per tifo, neppure per idee), che la gerarchia sia fatta in un certo modo, che nelle scuole e nelle università un docente faccia domande di cui sa già la risposta, e così via.
    E’ quindi necessario saper osservare la propria cultura mentre si osserva quella altrui. Gli antropologi hanno individuato parametri e metodiche di osservazione sofisticatissimi; ma per i nostri fini è meglio ricorrere ad una nozione sociolinguistica più semplice ma più maneggevole, cioè quella di “ambito” situazionale. Per ogni ambito vengono indicati alcuni modelli culturali che si possono osservare per comprendere come davvero funziona la nostra cultura, per osservarci dall’esterno, così come ci vedono membri di altre culture con i quali vogliamo comunicare.
    Il modello che proponiamo qui di seguito è basato su Balboni 1996a, a cui si rimanda per approfondimenti. Si può usare questa tassonomia creando un file di banca dati in computer oppure in un normale quaderno a fogli mobili con una voce per ogni pagina: in questa griglia si può possono poi registrare

a.  le riflessioni sui modelli culturali del nostro paese
b.  le osservazioni che si fanno mano a mano le vicende professionali o i momenti di vacanza ci portano in contatto con altre culture.

    Il fatto di avere delle voci da osservare porta a “vedere” degli atteggiamenti, dei gesti, dei valori della nostra cultura che prima passavano inosservati, quasi fossero naturali e non culturali, e che nella stessa scheda queste osservazioni si mescolino con quelle relative ad altre culture, mettendo le basi per un comparazione interculturale.
    Che sia realizzata su computer o su carta, questa tassonomia rappresenta uno strumento semplice ma efficace per uscire dagli stereotipi e creare, se possibile, dei sociotipi.
    I domini che abbiamo selezionato, e che abbiamo articolato in una serie di voci che ciascuno può modificare o integrare a seconda dei propri interessi,  sono i seguenti:
 

DOMINIO 1: LE RELAZIONI SOCIALI

a) Rapporto con uno straniero
b) Rapporto giovani / adulti
c) Rapporto con i superiori
d) Corteggiamento, relazione amorosa
e) Relazioni omosessuali
f) Uso di offrire sigarette, bevande, ecc.
g) Modo di riparare ad errori, scusarsi
eccetera

DOMINIO 2: L'ORGANIZZAZIONE SOCIALE

a) Sistema istituzionale ed elettorale
b) Sistema giudiziario
c) Sistema bancario e finanziario
d) L'industria
e) L'agricoltura
f) Il terziario
g) Le tele-comunicazioni
h) I trasporti
i) I mass media
j) La criminalità
k) La/e religione/i
eccetera

DOMINIO 3: LA CASA E LA FAMIGLIA

a) Dimensione della famiglia
b) Ruoli nella famiglia
c) Rapporto genitori-figli
d) Autonomia dei figli da ragazzini, età dell’uscita da casa
e) Tipologia della casa
f) Tradizione e innovazione nelle case
g) Proprietà e affitto di abitazioni
h) Pulizia della casa
i) La casa di città
j) La casa di paese
k) La casa in campagna
l) Interesse della famiglia per la casa: pulizia, restauro, ecc.
eccetera

DOMINIO 4: LA CITTA'

a) Rapporto città-cittadina-paese-campagna
b) Rapporto centro-periferia
c) Traffico privato e traffico pubblico
d) Strutture produttive e città
e) Divertimento, sport e città
f) Città e cultura
g) Il governo della città
h) La città e gli abitanti: come questi si sentono “cittadini”, padroni della città
i) Città e sostegno alle famiglie: asili, ricoveri, ecc.
j) Città e scuole
k) I problemi della droga
eccetera

DOMINIO 5: LA SCUOLA

a) Scuola privata e pubblica
b) Livelli scolastici
c) Prestigio sociale della scuola, degli insegnanti
d) Rapporto scuola-mondo del lavoro
e) Tradizione e innovazione nella scuola
f) Ruolo delle famiglie nella scuola
g) Le lingue straniere
h) Scuola come formazione personale e/o professionale
eccetera

DOMINIO 6: I MASS MEDIA

a) MM pubblici e privati
b) Autonomia dei MM,  MM e politica
c) I giornali quotidiani
d) I settimanali politici e culturali
e) I settimanali per pubblici speciali (donne, sport, ecc.)
f) La pornografia
g) Televisione: informazione e intrattenimento
h) La radio
i) Il cinema d'autore e quello popolare
j) Presenza di mass media stranieri
k) Letteratura d'autore e d'evasione
eccetera.

 

7.2 Uno strumento per l’osservazione della comunicazione interculturale

    Molti esempi contenuti contenuti in questo libro, così come le raccolte aneddotiche della letteratura sulla comunicazione interculturale in azienda e come i siti Internet sulla comunicazione interculturale (cfr. 8.1) sono obsoleti nel momento in cui vengono pubblicati: la rapidità degli scambi internazionali che portano le persone e le immagini televisive e multimediali in giro per il mondo fanno sì che l’interscambio di modelli culturali e di modelli di comunicazione interculturale sia fluidissimo, costante, inarrestabile e non descrivibile in tempo reale.
    Al contrario, la struttura concettuale che abbiamo posto alla base di questo volume non si modifica con il tempo: il concetto di competenza comunicativa interculturale collocata sullo sfondo di alcuni valori culturali e di alcuni fattori di particolare rischio comunicativo (essenzialmente, quanto discusso nei paragrafi 1.6, 1.7 e nel capitolo 2) ci pare un modello universale, almeno allo stato attuale della ricerca, ci pare cioè in grado di descrivere il fenomeno indipendentemente dal luogo e ieri come oggi o domani – fatto salvo il cambiamento indotto dalla comparsa di strumenti comunicativi di massa, del computer, ecc.
    Se è vero che il modello di descrizione della competenza comunicativa interculturale è affidabile, allora chi opera in ambiente internazionale può creare, come abbiamo detto già per la griglia presentata in 7.1, un file oppure impostare un quaderno a fogli mobili indicando gli elementi della competenza comunicativa interculturale da tenere sotto osservazione quando si interagisce con stranieri, quando si va all’estero, quando si raccontano aneddoti a tavola, quando si guardano film stranieri.
    L’elenco è implicito nell’indice di questo volume e può essere arricchito, specialmente per quanto riguarda i valori culturali, da alcune voci riprese dalla griglia del paragrafo precedente. I modelli culturali e comunicativi da osservare sono:

Valori culturali di fondo

a) Il tempo
b)  La gerarchia e il potere
c)  Il rispetto sociale e la “correttezza politica”
d)  Attribuzione e mantenimento dello status: la necessità di salvare la faccia

Uso del corpo per fini comunicativi

a) Sorriso
b) Occhi
c) Espressioni del viso
d) Braccia e mani
e) Gambe e piedi
f) Sudore (e profumo)
g) Rumori corporei
h) Toccarsi i genitali
i) Distanza frontale tra corpi
j) Contatto laterale
k) Il bacio
l) Lo spazio personale nel luogo di lavoro

Uso di oggetti per fini comunicativi

a) Vestiario
b) Status symbol
c) Oggetti che si offrono:  sigarette, liquori, ecc.
d) Regali
e) Danaro
f) Biglietti da visita

La lingua

a) Tono di voce
b) Velocità
c) Sovrapposizione di voci
d) Superlativi e comparativi
e) Forme interrogativa e negativa
f) Altri aspetti grammaticali
g) Titoli e appellativi
h) Registro formale/informale
i) Struttura del testo

Mosse comunicative

a) Abbandonare
b) Attaccare
c) Cambiare argomento
d) Concordare
e) Costruire
f) Difendersi
g) Dissentire
h) Domandare
i) Esporsi
j) Incoraggiare
k) Interrompere
l) Ironizzare
m) Lamentarsi
n) Ordinare
o) Proporre
p) Riassumere
q) Rimandare
r) Rimproverare
s) Scusarsi
t) Sdrammatizzare
u) Tacere
v) Verificare la comprensione

Situazioni comunicative

a) Dialogo
b) Telefonata
c) Conferenza
d) Presentazione della propria azienda, dei propri prodotti
e) Partecipazione a cocktail party, pranzo o cena
f) Riunione, lavoro di gruppo

7.3 Insegnare comunicazione interculturale

    I due paragrafi precedenti si basano su un’idea di apprendimento auto-diretto e continuo che, a nostro avviso, rappresenta la modalità formativa naturale per una persona impegnata nel fare quotidiano.
    Tuttavia, riprendendo la metafora informatica, per imparare ad imparare è necessario essere “formattati” in maniera giusta. La formattazione è costituita dall’esperienza di apprendimento. La maggior parte delle persone che operano in aziende, università e istituzioni diplomatiche hanno nella propria storia di formazione due tipi di esperienze:

a) insegnamento frontale in aula
    Dalla scuola all’università, alla maggior parte dei corsi di formazione aziendali la modalità di formazione ritenuta naturale è quella per cui chi “sa” veicola la propria conoscenza a chi “non sa” verbalmente o con il supporto di qualche lucido o video
    In realtà non è possibile parlare frontalmente della comunicazione interculturale, non è possibile “insegnarla”, se non nei termini che abbiamo cercato di proporre in questo studio: intendendo cioè l’insegnamento frontale come sensibilizzazione al problema e fornendo strumenti di analisi e catalogazione.
    Ma se non sono condotte con una metodologia precisa (vedi sotto), le lezioni frontali servono esattamene come le dimostrazioni di tecnici informatici che montano un programma e, cliccando a velocità inumana su icone e bottoni e cartelle e quant’altro, “spiegano” al povero utente come funziona il programma: sul momento gli pare anche di aver capito ma, uscito il tecnico, non è più neppure capace di avviare il programma;

b) simulazioni più o meno strutturate e controllate
    Le simulazioni rappresentano la modalità “alla moda” nei corsi di formazione aziendale, dove sono stati importati dalla tradizione americana che, a differenza di quella italiana, utilizza moltissimo la simulazione dalla scuola primaria al college. Di fronte a questa importazione dal fascinoso nome inglese di roleplay gli adulti italiani si rassegnano, ma lo fanno malvolentieri.
    D’altro canto non si possono impostare giochi di ruolo interculturali perché sono irrimediabilmente falsi: i problemi interculturali sono di software di sistema, cioè di cultura profonda e inconscia, di meccanismi di cui non siamo consapevoli, e nelle simulazioni si lavora solo su ciò di cui si è consci e consapevole [1] .

    Nessuna delle due modalità, né quella tradizionale né quella innovativa, è quindi funzionale all’insegnamento della competenza comunicativa interculturale. Non lo è perché, parafrasando il discorso di Wilhem Von Humboldt sull’insegnamento delle lingue straniere: “non si può insegnare [la comunicazione interculturale], si può al massimo creare le condizioni perché qualcuno l’apprenda”.
    Per individuare una metodologia, un “come”, dobbiamo dunque partire da una riflessione sui fini, sul “perché”. In questa prospettiva dunque possiamo dire che la formazione del personale aziendale, accademico e diplomatico impegnato in ambiente multiculturale può aver senso, a nostro avviso, solo se essa

a)  mira a rendere consapevoli le persone dei problemi della comunicazione interculturale
 
b)  le rende consapevoli del fatto che non si tratta di differenze esotiche, di superficie, del tipo “il mondo è bello perché è vario”, ma che si tratta di diversi software mentali, che operano cioè alla radice stessa dell’interazione in un evento comunicativo
 
c)  offre alle persone degli strumenti concettuali, semplici e chiari (ma non per questo banalizzati, anche se dai cenni si può cogliere che i problemi della competenza comunicativa interculturale sono più sofisticati di quelli che abbiamo scelto di trattare esplicitamente) quali quelli che abbiamo esposto nel capitolo 1, relativamente alle nozioni di comunicazione, di competenza comunicativa e di parametri di valutazione, nonché quelli esposti nel capitolo 2 relativo ai valori culturali che fanno da sfondo agli eventi comunicativi
 
d)  offre alle persone degli strumenti operativi, quali le liste di punti da osservare che abbiamo presentato nei due paragrafi precedenti, in questo capitolo; qualunque azienda o università può facilmente trasformare quegli elenchi in un software, basato su un programma di data base, da dare in dotazione al proprio personale per l’osservazione continua - e la condivisione delle osservazioni con il resto dell’azienda attraverso una banca dati aziendale che raccolga le esperienze individuali
 
e)  soprattutto, convince le persone che la realtà muta ogni giorno, per cui le varie culture - sempre più interrelate - si modificano, si integrano, per altri versi si ri-differenziano, per cui è necessario continuare ad osservare giorno dopo giorno, anno dopo anno, con l’occhio dello scienziato che osserva, cataloga e interpreta ciò che avviene (sulla base delle chiavi che ha avuto nei corsi di formazione o in volumi come questo)
 
f)  fa scoprire che la comunicazione interculturale è certo complessa, crea problemi, rallenta le operazioni, ma che l’alternativa è una società omologata che costringe tutti a rinunciare alle proprie radici e ai propri valori in nome di valori più universali - scelti da chi? Fa scoprire, in altre parole, concludendo la metafora informatica, che il mondo perfetto non è quello in cui tutti hanno Windows o Macintosh o Unix, ma in cui ciascuno ha il sistema operativo che preferisce o che si è trovato nel suo computer e che questo non gli crea difficoltà nel collegarsi con altri.

Su queste premesse, nell’organizzazione di corsi di formazione la metodologia non potrà che essere quella che

a)  parte dalla condivisione delle esperienze di comunicazione interculturali effettivamente vissute dai partecipanti al corso, esperienze, aneddoti, incidenti, impressioni che vengono elicitate dal formatore fin dall’inizio della sessione;
 
b)  prosegue fornendo la griglia di analisi, quale ad esempio quella indicata in 7.2
 
c)  insegna ai corsisti ad osservare spezzoni di video:
- film, in cui attori e registi si sforzano di essere “naturali” e quindi di imitare consapevolmente gesti, distanze, mosse della vita quotidiana, rendendole però facilmente osservabili proprio perché arte-fatte
- talk show e spettacoli di varietà in cui ci sono interazioni spontanee
- telegiornali, tribune politiche, ecc., in cui abbiamo monologhi che si alternano a dialoghi
- registrazioni autentiche di lavori di gruppo, di presentazioni aziendali, di conferenze, di negoziazioni e trattative.
Non importa, in molti di questi casi, se non si capisce la lingua: la massa di informazioni non-verbali e relazionali che si può ricavare è immensa e il fatto di non poter contare sull’input verbale costringe, finalmente, ad osservare tutto il restante meccanismo di comunicazione.

    Lo scopo di questa attività non è quello di istruire sui contenuti ma piuttosto di far apprendere un metodo di osservazione, e quindi la sintesi conclusiva dell’incontro non sarà basata sulle informazioni che si sono date e che sono servite da esemplificazione, ma sul modo in cui i partecipanti al corso sono riusciti ad osservare i personaggi dei video, ad osservare se stessi “in differita”, richiamando alla mente episodi del proprio vissuto che a questo punto assumono una luce nuova e vengono interpretati in maniera diversa.
    Come si nota, dunque, l’esperienza personale dei soggetti i formazione rappresenta il punto di partenza e quello conclusivo di un percorso che, dovendo solo rendere consapevoli e dare strumenti, non richiede più di due giornate di lavoro e che può essere svolto anche con gruppi relativamente numerosi: condividere le esperienze di 20 persone arricchisce molto di più di quello che è possibile in un gruppo elitario di 5 partecipanti.

    Quanto detto finora si riferisce a corsi specificamente organizzati per la formazione interculturale di quadri, funzionari, tecnici, dirigenti, ecc. Un caso diverso è rappresentato dall’introduzione di tematiche interculturali all’interno dei normali corsi di formazione linguistica, sia nelle scuole superiori che nelle università e nelle aziende.
    Esiste una letteratura ormai consolidata sul tema, che abbiamo cercato di riorganizzare in maniera innovativa in Balboni 1996 [2] , ma è una letteratura spesso basata sugli stereotipi anziché sui sociotipi. Inoltre, nell’insegnamento linguistico l’attenzione è e rimane ancor oggi eccessivamente concentrata sull’aspetto verbale e ignora di fatto le componenti non verbali: la correttezza morfosintattica e la fluidità rappresentano i valori positivi, dimenticando che si può essere corretti e fluent fin che si vuole ma se non si raggiungono i propri scopi socio-pragmatici, che possono essere raggiunti solo se si comunica anche sul piano socio-culturale, non si sa usare la lingua straniera.
    In sintesi, diremo che non si può relegare l’aspetto culturale solo ad un momento dell’Unità Didattica, ma che la riflessione (inter)culturale deve pervadere tutto l’insegnamento, deve sgorgare ogni volta che i testi e i materiali didattici usati ne offrono lo spunto.
 
 

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1 L’opinione opposta è sostenuta in maniera non sufficientemente convincente, a nostro avviso in alcuni saggi e relazioni di esperienze da Dietmar Larcher e Helga Moser Rabenstein in un volume molto interessante, Baur-Montali 1994. Il “vizio” di fondo di questi approcci basati sulla simulazione di scambi comunicativi in ambiente interculturale è che essi tendono ad applicare il principio “ti butto in acqua: adesso nuota”, che sul piano didattico può funzionare con bambini ma non è adatto ad adulti che hanno poco tempo, sono fortemente razionali nel loro approccio ai problemi, non amano sbagliare di fronte a colleghi.

2 Tra i volumi più interessanti: Attard 1996, Baur-Montali 1994, Byram-Zarate 1994, Cain 1994, Garcia 1994, Nalesso 1997, Prodomou 1992, Valdes 1986

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Problemi di comunicazione interculturale con allievi stranieri adulti

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Prof. Paolo E. Balboni


     Il fatto che gli studenti adulti con cui si lavora abbiano una padronanza base dell’italiano, per cui la comunicazione elementare è garantita, può far dimenticare che ogni persona

· sul piano concettuale, continua a pensare secondo le proprie regole e categorie culturali
· sul piano comunicativo, assume la grammatica e il lessico della lingua italiana ma conserva i propri codici extra-linguistici: gestualità, distanza interpersonale,  simboli di status e di gerarchia, ecc., che vengono percepito come universali, mentre cambiano in ogni cultura

    In altre parole, si controlla l’aspetto formale della lingua, ma perde di vista il fatto che la lingua non è solo pronuncia, lessico e grammatica, ma è una realtà ben più complessa e legata a fattori culturali, per cui un gesto o un vestito possono contraddire quanto detto dalla lingua, possono deviare l’attenzione dell’interlocutore da quello che viene detto al modo in cui lo si dice, possono creare momenti di tensione e anche errori irreparabili.
    Vedremo dunque qui di seguito alcuni aspetti della comunicazione interculturale che vanno tenuti in considerazione nell’interazione con studenti stranieri adulti. Verranno elencati molti aspetti curiosi, talvolta sorprendenti: lo scopo non è quello di dare una sventagliata di informazioni sminuzzate, bensì di
· “aprire gli occhi”, facendo notare alle persone che operano in ambiente multiculturale alcuni aspetti da osservare
· fornire una griglia logica degli strumenti comunicativi e delle principali mosse comunicative, dei valori e dei parametri da tenere in conto, in modo che l’osservazione non sia casuale ed episodica, ma possa trasformarsi in appunti all’interno di una griglia che incrocia le nazionalità e gli aspetti gli aspetti della comunicazione.

    Prima di muovere all’analisi è anche utile ricordare che gli esseri umani comunicano con il loro corpo, con oggetti, oltre che con la lingua. Spesso si crede che la comunicazione linguistica sia tutta la comunicazione, tuttavia,
· 83% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi
· solo 11% giunge dall’orecchio...
    Siamo dunque più, molto più “visti” che “ascoltati”, e molto spesso è solo dopo aver deciso, sulla base di quel che si vede (aspetto, vestiario, ecc.) di una persona che si decide se ascoltarla o non.
    Inoltre il funzionamento del nostro cervello nel momento in cui procede alla comprensione prevede che i due emisferi cerebrali procedano con un ordine ben preciso, indipendente dalla qualità dello stimolo verbale o visivo che ricevono: prima si attiva l’emisfero destro del cervello (quello analogico, globale, visivo, emotivo) e poi i dati così pre-elaborati vengono passati all’emisfero sinistro (logico, razionale, linguistico, analitico): siamo dunque prima “visti” e poi “ascoltati”.
    La priorità temporale e la prevalenza quantitativa non intaccano certo il primato della lingua come strumento di comunicazione - ma si deve prestare attenzione a non sottovalutare gli aspetti non verbali, che risultano particolarmente connotati nelle diverse culture.


1. I parametri per valutare i problemi interculturali

    Esistono molti parametri elaborati dalle scienze della comunicazione e da quelle del linguaggio per valutare di volta in volta la qualità di una mossa o di uno strumento di comunicazione. Tra questi i più produttivi nella nostra prospettiva sono:
 
a) formale vs. informale: si tratta di un’opposizione essenziale, se non altro perché nella comunicazione “l’abito fa il monaco”, siamo prima visti e poi ascoltati, e un errore sul piano della formalità che è richiesta in molte situazioni può compromettere lo scambio. Ogni cultura ha il suo modo particolare di identificare formalità ed informalità, non solo nel linguaggio, ma anche nel modo di comportarsi, di scegliere un regalo, di abbigliarsi;
 
b) polite vs. unpolite: usiamo i termini inglesi perché essi includono non solo il “ben educato” italiano, ma anche un concetto di adeguatezza alla situazione, nonché un concetto di gentilezza e di rispetto sociale che va oltre la cosiddetta “buona educazione”: ad esempio, la sequenza “io e te” viene vissuta come unpolite in Germania, Inghilterra, America, dove “du und ich” o “you and I” sono invece richiesti;
 
c) forza mascherata vs. esplicita: in una “lotta” quale è la comunicazione la forza non va sempre evidenziata, perché l’interlocutore potrebbe offendersi e interrompere lo scambio;
 
d) politicamente corretto vs. scorretto: ancorché tradotta in italiana l’espressione politically correct è culturalmente di matrice nordamericana; si tratta di un parametro che sta lentamente penetrando in Europa: non tanto in Gran Bretagna, dove la consonanza con gli Stati Uniti è spesso più linguistica che culturale, quanto nel BeNeLux e nell’area scandinava. In base a questo parametro puramente culturale, quindi estremamente rilevante nella nostra prospettiva, la scelta lessicale ha valore “politico”: rientrano in questa sfera il rispetto etnico (ad esempio “persona di colore”, che abbiamo preso in prestito dall’americano per indicare un non-bianco; in italiano è politicamente marcata la scelta tra “negro” e “nero”), le pari opportunità al mondo femminile, facilmente realizzabile in inglese, dove il femminile è poco marcato (he/she, his/her, man/woman) diviene spesso ridicola in italiano, dove il genere maschile o femminile distingue tutti i nomi, gli articoli, gli aggettivi e spesso i pronomi...
 
e) uso libero vs. taboo: solo la consuetudine e l’attenzione precisa consente a persone che frequentano ambiti internazionali di cogliere il continuo variare degli argomenti di uso libero e di quelli tabooizzati. Spesso, ad esempio, gli stessi italiani non si rendono conto di quanto sia taboo nella nostra cultura l’accenno alle cure psicologiche: il consiglio di andare da uno psicologo o da uno psicoanalista viene sentito come offesa, significa “sei matto!”; l’italiano del nord cui uno straniero chiede qualcosa sulla mafia esorcizza il problema (“Primo, la mafia è in Sicilia, in parte del Sud; secondo: Riina è in galera, ce la faremo”) e poi cambia discorso. Allo stesso modo, un inglese mesta in ogni turbidume della royal family ma reagisce se lo fa un non-inglese (soprattutto se lo fa un Americano, cui si ribatte elencando le segretarie e stagiste del Presidente Clinton).
 Ogni cultura ha dei taboo noti e ne ha altri che mutano rapidamente, e solo due taboo sono da ritenersi universali (anche se vi sono eccezioni) sono eros e thanatos, cioè i discorsi riguardanti il sesso e la morte. Anche i discorsi sulla digestione e sui sentimenti personali vanno considera taboo nelle culture di origine inglese;
 
f) atteggiamento cooperativo vs. arroccato:  l’atteggiamento delle persone che stanno comunicando può essere arroccato, del tipo “in questo momento ho la parola io, quindi questo è il mio momento e nessuno intervenga mentre emetto il mio messaggio”, oppure può essere cooperativo: “sebbene tu abbia la parola, mi permetto di intervenire per integrare, correggere, sostenere quanto tu dici”. Tendenzialmente gli italiani appartengono a questo secondo gruppo, ma la loro disponibilità a collaborare si scontra con l’irritazione fortissima dei nordici se vengono interrotti: essi possono sentirsi talmente offesi da rinunciare a proseguire nel loro discorso.

2. Alcuni valori problematici sul piano comunicativo

    Vedremo in questo paragrafo alcuni valori, alcuni software of the mind, come dice Hofstede, di cui è di solito inconsapevoli e che possono creare problemi.

2.1 Il tempo

    Nulla pare più naturale ad una persona che la nozione di tempo (la cui esistenza in fisica è messa in dubbio da molte filosofie di questo secolo...). E’ ovvio a un italiano che la giornata inizia con l’alba, mentre è ovvio a molti asiatici e africani pensare che la giornata finisca con il tramonto e che quindi l’inizio della giornata successiva coincida con l’inizio della notte. E’ ovvio che Natale sia d’inverno, Pasqua a primavera e così via, perché usiamo il calendario solare - ma l’altra sponda del mediterraneo usa il calendario lunare, quindi le festività progrediscono di undici giorni all’anno...
    Se l’esempio fatto sopra ha grande valore per far intuire la complessità del problema, esso non pone problemi sul piano comunicativo. Ma il concetto di tempo crea, per altri versi, molti problemi su quello relazionale:

· il concetto di puntualità, ad esempio, è molto cangiante: per le culture industrializzate la puntualità è essenziale, per un orientale o un arabo spesso è un’indicazione di massima;
· tempo come corda o come elastico: secondo gli orientali e, per certi versi, anche per molti centroamericani e brasiliani, noi europei e i nordamericani viviamo il tempo come una corda tesa: può anche rilassarsi, ma rimane pur sempre della stessa dimensione, della stessa natura;  per gli orientali, invece il tempo è un elastico, che di norma è in posizione di riposo, si tende nel momento in cui c’è una ragione per farlo, poi torna a rilassarsi
·  “il tempo è danaro”: questa frase è naturale in una cultura industriale, ma certe sue applicazioni creano forti problemi comunicativi: una telefonata americana va straight to the point, mentre una telefonata italiana inizia comunque con convenevoli, e in molte culture tagliare i convenevoli (al telefono, in incontri privati, in una trattativa, anche tra sconosciuti: si pensi all’acquisto di un tappeto in un negozio arabo...) è disdicevole: un interlocutore sente di star perdendo tempo (e danaro) e l’altro sente di essere di fronte ad una persona rude, incivile - e il problema comunicativo si innesca
· orrore del tempo “vuoto”: il rifiuto del silenzio è tipico di molte culture, per cui in molte lingue ci sono riempitivi da usare in macchina, a tavola, durante le pause di riflessione: è quel small talk in cui eccellono gli anglosassoni e che invece non interessa agli scandinavi (quanti minuti di silenzio, di “tempo vuoto” ci sono in un film di Bergman? Per contrapposto, pensiamo al sovrapporti si scene e di dialoghi in un montaggio americano), gli arabi, gli orientali in genere. Un cinese ben educato, anche se sa bene la risposta, lascia passare qualche secondo dopo una domanda intelligente, per dimostrare quanto sia degna di pensarci bene prima di rispondere
· il tempo futuro: sono  ben note interiezioni quali l’arabo inshallah o il suo omologo spagnolo si Dios quiere,  se Dio vuole. Non si tratta di mero fatalismo, come può pensare un europeo, ma di una radicata necessità religiosa, esplicita nel Corano, di riconoscere sempre che il futuro è nelle mani di Dio e che quindi anche l’uso del tempo futuro dei verbi può risultare blasfemo: una sfida a Dio

1.2  il tempo strutturato: la scaletta, l’ordine del giorno, l’agenda dei lavori sono, per i latini, “utili suggerimenti” , ma per uno svedese si tratta di una riedizione delle tavole della legge: frasi come “possiamo saltare questo punto e tornarci dopo” oppure “questo punto lo completiamo in seguito: tanto una soluzione si trova” sono degli affronti personali per il nordico, per la sua strutturazione del tempo che si deve trasformare in progetto e in azione.

2.2 La gerarchia e lo status

    La gerarchia è la concretizzazione di un’idea del potere; a seconda delle culture le comunicazioni interne alla gerarchie vengono regolate sulla base di quell’idea di potere: una gerarchia italiana non ammette che una persona che svolge una funzione di quarto livello faccia avere proposte o obiezioni al livello 2 senza passare per il suo superiore di terzo livello; se crede che quest’ultimo gli sia ostile, può con qualche rischio rivolgersi ad un pari grado del suo superiore; in un’azienda americana invece il lift boy può fare avere un progetto a un funzionario di altissimo livello: se la proposta è buona, può saltare vari livelli - e se è cattiva si licenzia senza dare il tempo ai suoi superiori di licenziarlo. In altre parole, in alcuni casi si comunica tra funzioni, in altri tra persone; siccome ogni persona ricopre una funzione in una gerarchia, i problemi comunicativi vengono risolti da diversi mix delle due componenti a seconda di ogni cultura.
    In molte culture asiatiche e africane il concetto di gerarchia è fortissimo e viene esibita, non solo con status symbol ma anche con domande che si pongono al primo incontro e che a noi possono sembrare quasi impertinenti: la prima domanda è “come ti chiami?” e la secondo può facilmente essere “che professione fai?”. In Turchia, in un’università di carattere internazionale, un professore universitario è stato redarguito per aver tagliato il panettone e servito da bere durante una festina natalizia; sempre per restare in Turchia, alcuni commensali socialdemocratici (quindi ideologicamente restii all’accentuazione delle gerarchie), si sono stupiti in un ristorante gestito da un italiano quando, a fine serata, il gestore italiano ha invitato il capocuoco italiano a sedersi alla sua tavola: aveva infranto la gerarchia.

    Alla base della gerarchia c’è il concetto di “status” che può essere attribuito dalla società o guadagnato sul campo. In molte culture, ad esempio quella cinese, l’età è un fattore di status: l’anziano, in quanto anziano, merita rispetto. Si tratta di un caso di status “attribuito”: oltre al caso dell’età, sono esempi di status attribuito sia l’appartenenza a un’aristocrazia (si pensi al ruolo dei “principi” arabi, che guidano le delegazioni e conducono trattative indipendentemente dalla loro abilità) sia il sesso, per cui in molte culture orientali e in quella araba la donna non ha status alto quindi è esclusa dalla comunicazione con stranieri. In questi casi di status “attribuito” l’insegnante italiano commette infrazioni gravissime se cerca di rompere le convenzioni, spingendo membri di età inferiore a sostituirsi all’anziano per avere una comunicazione più precisa e snella: spesso ciò può compromettere il contatto. Il problema non si pone quando il prestigio di status non è “attribuito” ma acquisito sul campo, con la propria preparazione, il proprio curriculum.
    Connesso al problema dello status e del suo riconoscimento da parte di tutti i partecipanti a un evento comunicativo c’è quello del rifiuto di “perdere la faccia”: un arabo giungerà a negare platealmente l’evidenza, in alcune situazioni, e potrà attribuire al demonio un incidente da lui provocato di fronte agli interlocutori pur di non perdere la faccia. In questo caso, pretendere scuse è un’offesa definitiva, tale da far chiudere il rapporto: significa voler far pubblicamente perdere la faccia.
    Il problema del “salvare la faccia” è fortemente sentito in molte culture asiatiche, africane e latino-americane, dove viene definita con la parola honra.

3. La comunicazione non verbale

3.1  Uso del corpo per fini comunicativi

    Tutto il corpo, che è fonte di molte “informazioni” involontarie quali il sudore, il tremito, l’arrossire, ecc., viene utilizzato anche per  “comunicare”, cioè per veicolare significati volontari, o per sottolineare significati espressi con la lingua.
    Vedremo quindi cosa “dicono” le varie parti del corpo, tralasciando interpretazioni psicologiche (ad esempio: braccia conserte = chiusura nei confronti dell’interlocutore) che pur essendo intuitivamente valide rientrano tuttavia nell’ambito delle interpretazioni.
 
a. Sorriso
    Spesso chi ascolta sorride. In Europa questo esprime un generico accordo, o almeno attesta la comprensione di quanto si sta dicendo; in altre culture questa interpretazione non è altrettanto certa: ad esempio, per non offendere un ospite straniero con un diniego, un giapponese imbarazzato può limitarsi a sorridere e mantenere il silenzio, in quanto non vige la nostra equazione “silenzio = assenso” (“chi tace acconsente”). In una trattativa interpretare il dissenso come assenso è grave.

b. Occhi
    In Occidente guardare l’interlocutore negli occhi è inteso come un segno di franchezza, ma in molte culture, ad esempio in Asia, il fissare una persona dritto negli occhi può essere una sfida (o un richiamo erotico). Mentre in Cina guardare negli occhi di chi parla è un segno di attenzione, in Giappone ci si guarda di quando in quando, ma mai durante un commiato: gli occhi vanno focalizzati a terra, in un punto a lato della persona che si sta salutando.
    Gli occhi abbassati, quasi chiusi in una fessura, significano disattenzione e noi in Europa, ma in Giappone possono rappresentare una forma di rispetto, ad esempio verso un conferenziere: gli si comunica che l’attenzione è massima, che non si vuol correre il rischio di distrarsi - ma il conferenziere europeo che non conosca questa convenzione ha la certezza che i suoi ascoltatori si sono addormentati.

c.  Espressioni del viso
    Esprimere  le proprie emozioni, sensazioni, giudizi, pensieri con la mimica facciale è una cosa “ovvia” nell’Europa mediterranea, in Russia e, in parte, in America, ma in Europa settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, preferendo educare i bambini fin da piccoli ad una certa imperscrutabilità, cioè ad una riservatezza riguardo i propri sentimenti.

d.  Braccia e mani
    Spesso non si sa dove tenere braccia e mani: incrociarle davanti al petto dà un senso di chiusura, tenerle allacciate dietro il corpo può dare la sensazione di un’eccessiva informalità. Quindi di solito si tengono accanto al corpo o si pone una mano in tasca. Molte culture, ad esempio quella turca e quella cinese, non accettano entrambe le mani in tasca.
    Al di là di queste considerazioni, ci sono vari problemi di significati che le nostre mani portano portano agli interlocutori:

· si ritiene, soprattutto in culture euro-americane, che una stretta di mano stritolante dimostri sincerità e “virilità”, ma questo non Ë vero per altre culture, dove l’eccesso di forza è solo fonte di fastidio; in Oriente la stretta di mano è inusuale, per cui non sempre sanno dosarne la forza
· i gesti della mano spesso sottolineano o sostituiscono le parole, ma essi hanno diversi significati: il segno di vittoria tipico di W. Churchill (la "v" con indice e medio) significa “vittoria” se il palmo è rivolto verso l’interlocutore, ma è un insulto (ha più forza di un chiaro “va a fartelo mettere...”) se il dorso della mano è rivolto all’interlocutore: corrisponde, ma con forza maggiore, al medio teso che esce dal pugno chiuso in America; ci sono due gesti che hanno causato due famose gaffe di Bush e Clinton: il primo ha effettuato il gesto americano con il pugno chiuso e il pollice eretto verso l'alto che significa "OK", ma il contesto era Manila, ed in estremo Oriente quel gesto corrisponde al medio che esce eretto dal pugno chiuso... Clinton ha usato un altro segno americano per dire “OK”, quello fatto con pollice e indice uniti a formare una "O", ma lo ha fatto alla Duma di Mosca, e nei paesi slavi quel gesto significa “Ti faccio un ... grande così”
· Gli italiani muovono molto le mani mentre parlano: ciò spesso li fa ritenere aggressivi, invadenti, e la cosa è grave se questa sensazione viene confermata dal tono di voce, dalle frequenti interruzioni, e così via, come vedremo in seguito. In tutto il mondo i comici che vogliono imitare gli italiani muovono istericamente braccia e mani e parlano a voce alta. Si tenga anche presente che il cinema italiano più noto nel mondo, da Salvatores a Amelio, da Sordi a Troisi passando per La Piovra (lo spettacolo più visto al  mondo nella storia del cinema) è di ambiente meridionale, dove l’uso delle mani è particolarmente accentuato.

e. Gambe e piedi
    In molte culture accavallare le gambe non ha alcun valore comunicativo, mentre in incrociarle, cioè appoggiare la caviglia al ginocchio lasciando quindi che si veda la suola delle scarpe, viene ritenuto unpolite e comunica scarso rispetto; gli arabi tuttavia vivono questi atteggiamenti in maniera molto risentita, perché ritengono che si comunichi disprezzo sia quando si mostra la suola della scarpa sia quando, avendo semplicemente accavallato le gambe, si fa oscillare, quasi nel gesto di dare calcetti che hanno un significato molto forte: “vattene da qui”.
    Nelle culture scandinave e in quelle orientali spesso togliersi le scarpe è un gesto naturale, che indica relax.

f. Sudore (e profumo)
    Il sudore è naturale e può informare sulla tensione emotiva di una persona (ponendo il problema di come detergerlo in pubblico); l’odore di sudore ha invece valore comunicativo: assolutamente bandito in culture come quella italiana (chi si accorge di odorare si sente a disagio, quindi le sue performance, anche linguistiche, sono intaccate), in altre culture è considerato normale; nel mondo arabo un maschio deodorato è meno “maschio”, e se è sensibilmente profumato è un pervertito. Il sudore ha un valore positivo, di sincera partecipazione, in Giappone (come nelle discoteche occidentali).
    Quanto ai profumi, la definizione di "buono" e di "modica quantità" varia da cultura a cultura: in Giappone sono particolarmente intensi anche tra maschi, in Italia i profumi devono essere artificiali, non riscontrabili in natura.

g. Rumori corporei
    In quasi tutte le culture ciò che esce dal corpo è considerato negativamente e quindi si pone il problema culturale di come liberarsene con discrezione.
    Soffiarsi il naso (per quanto discretamente) è permesso nelle culture occidentali, mentre in Giappone è considerato irrispettoso e volgare. Lo stesso vale per il ruttare e dar sfogo a rumori intestinali, vietati nelle culture occidentali e meglio tollerati in Asia; in Giappone una specie di risucchio indica soddisfazione dopo un pasto.
    Il ruttare dopo un pasto, sebbene stia lentamente declinando come uso, è ancora talvolta permesso (ma era richiesto, come indice di sazietà e piacere) dopo un pasto in Scandinavia, Russia, Sud-est asiatico.
    Vomitare è escluso in molte culture, ma non in tutte; in quella Giapponese, in particolare, il vomitare per postumi di un’ubriacatura è una sorta di omaggio ai compagni con cui si è passato una bella serata, bevendo ritualmente senza curarsi egoisticamente del proprio malessere successivo.
    Sputare e scatarrare è comunissimo in Oriente e, in parte, nelle culture arabe e nere africane, mentre è vietato in quelle occidentali.

f. Toccarsi piedi e genitali
    Alcune culture orientali accettano, anche se si tratta di un costume in regresso, il fatto di accarezzarsi i piedi in una specie di massaggio rilassante, senza che questo abbia alcun significato irrispettoso
    E’ invece “poco educato” in Italia ma decisamente offensivo in altre culture, ad esempio quella greca, il gesto abituale degli adolescenti di sistemarsi i genitali, schiacciati dai jeans: significa, soprattutto in momenti di tensione, di lite, “ti mostro che cosa sei: un c...”.

3.2 Distanza tra corpi

    Tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è data dalla distanza del braccio teso (circa 60 cm.).
    La “bolla” è un dato di natura, mentre da sua dimensione e il suo valore di intimità sono dati di cultura e quindi variano: l’infrazione alle regole “prossemiche”, cioè alla grammatica che regola la distanza interpersonale, può generare una crisi comunciativa, cioè far interpretare come aggressivi e invasivi, quindi necessari di una reazione, dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo significato nella cultura di chi li ha compiuti.
    Le culture nord-mediterranee ritengono che la sfera dell’intimità, la “bolla”, sia data dalla distanza di un braccio teso: che si avvicina di più invade il campo dell’altro, mettendolo a disagio e dandogli la sensazione di essere aggredito (se poi questa invasione si accoppia con un accentuato movimento delle mani ed un tono di voce alto, tipici del Mediterraneo, la sensazione di un nordico di essere aggredito si trasforma in certezza e genera una reazione). Ma nel Mediterraneo arabo  spesso che parla tocca l’interlocutore sul petto o sul braccio.
    Al capo opposto troviamo gli europei non mediterranei e gli americani che richiedono che ciascuna “bolla” sia rispettata, per cui i due interlocutori restano a distanza di un doppio braccio.
    C’è una tendenza generalizzata nel mondo dei contatti internazionali all’aumento della distanza interpersonale, forse dovuta al fatto che la cinematografia è quasi interamente di origine anglosassone e funge da “persuasore occulto” nell’imporre nuove grammatiche di comunicazione interpersonale.
    Quanto al contatto laterale vigono svariate regole: molti mediterranei si prendono a braccetto (addirittura per mano nei paesi arabi) anche tra maschi, cosa esclusa nel nord Italia e nel resto d’Europa. Anche nelle zone rurali dell’Oriente sopravvive l’abitudine di prendersi per mano tra persone dello stesso sesso - ma in Giappone il prendersi a braccetto ha una connotazione sessuale, così come il camminare molto vicini, a contatto di spalla, anche se la ragazza sta qualche centimetro avanti.

3.3 Uso di oggetti

    Si è spesso osservato che, a differenza di quanto recita la saggezza popolare, nella comunicazione "l'abito fa il monaco”: gli oggetti che poniamo sul nostro corpo ed intorno ad esso nei luoghi di abitazione o di lavoro, la macchina che si usa, ecc., sono tutti status symbol, e in alcuni casi sono indicatori di rispetto per l’interlocutore. Poiché il rispetto mostrato per l’interlocutore è un dato essenziale ma variante in ogni cultura, può spesso succedere che la nostra indicazione di rispetto non venga compresa o venga mal interpretata.

a. Vestiario
    La formalità dell’abbigliamento è essenziale per comunicare il rispetto che si porta ad una persona.
    In Italia un vestito "formale" include camicia, cravatta, giacca; negli USA è sufficiente la cravatta, anche con una camicia a maniche corte e la giacca poggiata sullo schienale — atteggiamento che da noi sarebbe di amichevole informalità. In Oriente il concetto di formale in abito europeo è ancora impreciso.
    Una giacca cammello o di tweed inglese è adeguata ad un incontro formale in uffici, università, ecc. in Europa e in Oriente ma non in America dove un impiegato o un funzionario non vengono accettati in ufficio se non hanno un abito grigio, blu o nero: cammello, tweed, toppe di pelle sui gomiti sono per il weekend. La sola strategia per non commettere errori è costituita dal parlarne chiaramente.

b. Status symbol
    Gli status symbol variano da cultura a cultura, da classe a classe, e spesso non vengono compresi dagli interlocutori di altre culture, per cui non vengono posti in atto comportamenti attesi: ad esempio stemmini sul bavero (in Italia si usano al massimo quelli di Rotary e Lions), cravatte con il colore di Oxford o Harvard, e così via, sono strumenti di comunicazione sociale molto rilevanti in America e irrilevanti in Italia.
    Tra gli status symbol hanno un ruolo particolare quelli che indicano la ricchezza: un Rolex d’oro al polso, pesanti catene su petti villosi o sui polsi, grevi anelli con pietra preziosa sulle dita robuste di un arabo o di uno slavo possono portare l’europeo “raffinato” a pensare di trovarsi di fronte ad un buzzurro, ad una esibizione di ricchezza rapidamente e spesso malamente acquisita, di un parvenu mentre in quelle culture l’esibizione di ricchezza è culturalmente approvata; anche la possibilità di accedere a servizi rari è uno status symbol: il telefono cellulare, che gli italiani spengono prima di una riunione e che non va esibito perché ormai di uso generalizzato, è segno di forte vicinanza al potere in Africa o nell’Europa slava, dove i ripetitori cellulari sono pochi e quindi i numeri disponibili sono limitati.

c. Oggetti che si offrono:  sigarette, liquori, ecc.
    Offrire è sempre un gesto di rispetto e accettare significa ricambio di rispetto; in culture in cui il rispetto interpersonale ha molto valore (Africa, Asia ma, in parte, anche America Latina) il rifiuto può essere uno sgarbo: rifiutare un tè alla menta in un bicchiere opacizzato dall’uso può essere un desiderio giustificato, ma è offensivo per l’arabo che lo ha offerto. In questi casi l’eventuale rifiuto va giustificato con ragioni di salute (un finto diabete è la soluzione in molti casi) o di ordine religioso.
    Anche l'insistere nell’offrire o lo schernirsi nell’accettare sono regolati dalla cultura: ad esempio, nel sud d'Italia si insiste molto, secondo la tradizione greca, in un modo che un Inglese ritiene francamente eccessivo, invadente, imbarazzante.
    Ci sono poi problemi legati a ciò che si può offrire: oggi, offrire una sigaretta in America può essere un insulto (e in Giappone non si offrono affatto), come offrire alcool a un arabo, o come insistere per far bere vino a un commensale inglese o americano che dopo la cena deve tornare a casa in macchina.

d. Regali
    In Cina regalare un orologio, che richiama il passare del tempo, è un memento mori, quindi assolutamente inaccettabile, come i fiori (soprattutto bianchi) in Oriente, i crisantemi in Italia, i fiori gialli in Messico... : il comunicare rispetto e amicizia con i regali è spesso rischioso. In Giappone esiste una vera e propria cultura della confezione dei regali., che indica lo status della persona cui viene fatto, mentre in Germania regalare fiori con il cellophane intorno è offensivo...
    I regali costituiscono un importante mezzo di comunicazione sia intimo (regalare fiori è dunque “rischioso”), sia sociale, in occasione di inviti a cene, ecc. La tendenza è sempre più quella ad aprire il regalo, soprattutto se si tratta di un pacchetto, per comunicare il fatto che è stato gradito;

e. Danaro
    Il danaro ha un fortissimo valore di status symbol, come indicatore non solo di ricchezza, ma anche di successo sociale. Le culture differiscono molto sul modo di esibire il danaro: a fronte di culture europee, più o meno legate al concetto di understatement, per cui si dimostra la ricchezza con il possesso di oggetti lussuosi (abbigliamento, automobili, ecc.) ma non parlando apertamente di danaro, troviamo la cultura americana, quelle Orientali e quelle di molti paesi emergenti in cui l’esibizione del danaro è accettata e ricercata.
    Se in Italia parliamo ancora di “vil danaro” e la parola “lucrare” è ignobile, mentre “senza fine di lucro” è puro, le culture puritane ricordano che l’amor di Dio per la persona giusta si vede anche sotto forma di gratificazione materiale: per cui anche i cattolici americani, intrisi di puritanesimo, possono esibirsi nello spillare alle vesti della Madonna mazzette di dollari durante le processioni, ed è possibile che una persona venga presentata anche con riferimento al suo reddito annuo: he makes half a million a year! Parlare del proprio stipendio è assolutamente fuori luogo in Italia, tranne tra colleghi e per solidarietà sindacale, mentre è naturale in culture in cui il danaro va mostrato. Quindi non deve stupire se, di fronte a un italiano che si scusa se la commessa della libreria non ha tagliato il prezzo dalla sovraccoperta di un libro da regalare, troviamo l’americano che dice il costo del regalo, per comunicare l’estremo valore in cui tiene la persona cui è stato fatto.

4.  Aspetti verbali

    La lingua è prima di tutto espressione sonora, ma è anche costituita dalla scelta delle parole, dal modo in cui usiamo alcuni aspetti della grammatica e, soprattutto, da quello in cui strutturiamo i nostri “testi”.

4.1  Uso della voce

    La nostra voce può dare l’impressione che siamo rinunciatari o aggressivi, indipendentemente da quello che effettivamente vorremmo essere; il nostro silenzio è del tutto neutro in Scandinavia, assolutamente imbarazzante in Italia...
    L’aspetto sonoro della voce è un po’ come quello visivo: è il primo ad essere percepito e, proprio perché viene analizzato in maniera inconsapevole, anche in questo caso si può dire che “l’abito fonologico fa il monaco”: l’inglese che sente due italiani che discutono serenamente ritiene che stiano litigando, mentre magari stanno semplicemente constatando di essere d’accordo, ma lo fanno con un tono di voce e un reciproco interrompersi che in Inghilterra verrebbe usato solo in un litigio.
    Se consideriamo che gli italiani agitano le mani, hanno una grande mimica facciale, invadono la “bolla” dell’interlocutore, vediamo come l’alto tono di voce e l’interrompersi aggiungono una conferma di “aggressività”.
    C’è poi il problema della sovrapposizione di voci. Le culture mediterranee l’accettano, quasi tutte le altre la vietano, sia sotto forma di interruzione, sia come parlare contemporaneo. Pare che questa sia invece una caratteristica propria degli italiani, tant’è vero che nella metafora scelta da Gannon per descrivere l’Italia, (un paese che è paragonato a un’opera lirica) il parlare insieme viene equalizzato al duetto o al quartetto tipico del melodramma.

4.2. Alcune scelte lessicali

    Abbiamo già trattato il tema dei taboo nel paragrafo sui parametri di giudizio della comunicazione interculturale, mentre abbiamo solo accennato al problema della “correttezza politica”, che qui riprendiamo, isieme agli insidcatori di status, cioè gli appellativi quali  “signore/a/ina” o i titoli  quali “dott.”, “ing.”, ecc. Il loro uso cambia significativamente da cultura a cultura.
    Iniziamo dall’abitudine comune in Italia, a scuola come tra colleghi, di chiamare una persona per cognome: si tratta di una scelta abbastanza inusuale in Europa, e del tutto fuori luogo nel mondo anglofono: “Brown, come here” è usato solo dal sergente cattivo nel campo di addestramento dei marines...
    Il cognome, in inglese, va sempre preceduto da un appellativo, che può essere Dr in ambito accademico (solo per coloro che hanno ottenuto un PhD), ma di norma è Mr  per un uomo e, oggi, Ms (pronunciato come se fosse scritto Miz) per una donna. La classica distinzione tra Mrs e Miss è contestata nel nome della parità tra uomo e donna, in quanto solo di una donna si viene a sapere se è sposata o non.
    I titoli che corrispondono ad un professione (“Ingegnere”, “Architetto”) non sono accettati: le uniche professioni che hanno un titolo sono quella medica (Dr) e la docenza universitaria (Prof). Le culture spagnola, italiana e tedesca accentuano i titoli e gli appellativi, mentre quelle scandinave e anglosassoni li sfumano; la Francia sta evolvendo in direzione anglosassone.

    Quanto al formale/informale, notiamo che ad esempio in Svezia durante gli anni Settanta c’è stato un abbandono generalizzato del “lei” a favore di “tu”, mentre in Francia vous resta molto usato; Italia il passaggio dal “lei” al “tu” tra colleghi è rapido, così come in inglese, dove darsi del tu significa usare il nome di battesimo anziché Mr/Ms + cognome, che indica un registro formale.
    Anche nell’appiattimento della seconda persona, cioè nella generalizzazione dell’informalità, la necessità di indicare il registro formale rimane viva. In inglese come  in italiano l’uso dei condizionale nelle offerte (“would you like...”, “vorresti / le piacerebbe”) oppure la richiesta di autorizzazione e di pareri (“Secondo te, posso...”; “Che ne diresti se...”) comunicano un senso di rispetto e di formalità. Questo viene sottolineato anche dall’eliminazione di interiezioni e parole di natura volgare (quali “fucking”, “incazzato”, ecc.) e dall’uso intensivo di espressioni che attutiscono la forza delle nostre richieste, quali “per piacere”, “grazie”. E così via.
    Culture che si esprimono in inglese, che devono quindi marcare con forme linguistiche la mancanza dell’alternanza tra “tu/lei”, “du/Sie”, “tu/vous”, “tu/Ud.”, “tu/vocé”, ecc., tendono a usare moltissimo please e thank you, anche laddove un italiano non li userebbe; il loro mancato uso fa ritenere a un anglofono che noi siamo poco polite, il che risulta grave se si aggiunge al tono di voce, alla mobilità delle mani e alla vicinanza eccessiva che ci fanno ritenere aggressivi.

4.3  Struttura del testo

    Chiamiamo “testo” la componente verbale, linguistica, di un evento comunicativo, che ha anche molte componenti non verbali, cui si è fatto cenno sopra.
    Essenzialmente esistono tre modi di costruire un testo:

· il testo italiano, spagnolo, tedesco procede dal punto A al punto B non come una retta ma come una linea continuamente interrotta da digressioni, da ulteriori digressioni nella digressione, e così via: una linea spezzata che rende conto della complessità dell’argomentare che si vuole fare: l’informazione principale e tutte quelle accessorie (le digressioni) vengono incastonate l’una nell’altra, per cui ne risulta un testo, scritto o orale, complesso, articolato, con un forte uso di pronomi relativi e altri meccanismi di coesione tra le varie parti del testo; la struttura del verbo in queste lingue, con le sue sei persone, i molti modi e tempi, consente di raccordare le varie parti della macro-frase che si produce;
 
· il testo inglese va invece straight to the point, e tutte le informazioni accessorie, che nel testo italiano erano collocate in frasi secondarie, in digressioni, qui vengono poste di seguito. Il testo si traduce quindi in una serie di frasi brevi e semplici, con forte uso delle ripetizioni (osteggiate in italiano). Il sistema verbale inglese, che è assolutamente scarno, funziona bene in questo tipo di strutture, ma non regge nel momento in cui si pensa in italiano e si vuole parlare in inglese: le digressioni, le frasi secondarie e terziarie, richiedono una logica verbale che l’inglese non possiede. Questo vale anche per la traduzione di un testo scritto italiano, che va spezzato nelle sue componenti e riscritto con frasi semplici e lineari;
 
· il testo asiatico e arabo procede invece a spirale, per progressivi avvicinamenti al punto d’arrivo, senza forzature (che vengono viste come unpolite), senza andare subito al punto (altra forma di unpoliteness).

    La percezione del testo prodotto secondo le regole di un’altra cultura è assai pericolosa: un americano ritiene inconsapevolmente che il testo di un italiano o di un tedesco sia fumoso, che si voglia coprire a suon di digressioni qualche cosa di non chiaro; viceversa, l’europeo ritiene che il testo americano sia povero concettualmente, banale, semplicistico. Entrambi, europei e americani, ritengono che il testo orientale sia una perdita di tempo, un’ectoplasmatica nebbia che non si sa cosa celi e dove porti. E si tratta di percezioni che mettono a rischio la buona riuscita della comunicazione.

5.  Le mosse comunicative

    Nei paragrafi precedenti abbiamo visto gli strumenti a disposizione di chi gioca la “partita” comunicativa per scambiare messaggi che lo vedano vincente.
    Avere la scacchiera e i pezzi non basta per vincere, cioè per dare un esito felice alla propria comunicazione: bisogna conoscere le mosse e le regole che le governano. Schmidt ne elenca una ventina, che qui di seguito si vedranno in prospettiva interculturale, cioè cercando di vedere se essere sono egualmente accette o non-accette e se producono gli stessi effetti nelle varie culture. Useremo la terminologia introdotta nella definizione di comunicazione per cui avremo “mosse up” e “mosse down”, a seconda che esse tendano a favorire chi le compie nel tentativo di prendere controllo dell’evento comunicativo oppure che mirino piuttosto a permettere di evitare una escalation, cioè un diverbio, lasciando raffreddare gli animi, prendendo tempo, ammettendo l’errore, e così via.

a) Attaccare è la mossa up per eccellenza; in Italia (ma anche in Russia, dove l’espressione diretta delle opinioni è gradita) un attacco condotto con garbo è di solito accettato, e tra amici è ammesso anche un attacco diretto, mentre in molte culture questa mossa è inaccettabile; in alcuni casi (ad esempio in molte culture asiatiche) basta lo sguardo puntato dritto negli occhi per trasformare una mossa neutra in un “attacco”.
 
b) Costruire, cioè l’accettazione della proposta dell’interlocutore ma integrandola nella propria: è una mossa che porta in posizione up (è la proposta originaria che funge da cornice, da quadro di riferimento) in maniera indiretta. Essa è accettata in tutte le culture ed è indispensabile soprattutto in quei casi in cui l’attacco (mossa “a”) è culturalmente vietata.
 
c) Dissentire è per certi versi una variante dell’attacco (mossa “a”), per cui diventa accettabile ovunque solo se usata come introduzione a un tentativo di costruire insieme (mossa “b”). I modi di dissentire variano da cultura a cultura: gli italiani tendono ad accentuare immediatamente il 10 per cento di disaccordo e tacere sul restante, su cui c’è accordo (“chi tace acconsente”), mentre a livello internazionale è indispensabile la procedura opposta, “sì... ma...”: prima si esprimono esplicitamente le ragioni di concordanza e poi quelle di disaccordo.
     Ricordiamo anche che molte culture non accettano la possibilità di dire “no” ad un ospite straniero ritenuto importante, per cui il dissenso viene manifestato in maniera indiretta (il sorriso accompagnato dal silenzio in Giappone, ad esempio), o non può essere espresso (l’obbligo di rispondere “sì” ad una domanda “sì-no” nelle culture swahili). Totalmente differente la situazione russa, in cui un dissenso aperto è gradito ed è segno di serietà, di volontà di costruire insieme.
    Chi dissente presuppone per sé una posizione di pari dignità rispetto a quella dell’interlocutore (e quindi, se parte da posizione down, si configura una sorta di inizio delle ostilità) e gioca tutto sul contenuto della sua critica: se questa è valida ed il dissenso è esposto con tatto, è una mossa efficace.
 
d) Esporsi, parlare di sé, delle proprie opinioni, ritenendole importanti per gli altri: se essi le accettano confermano la posizione up di chi si espone. In molti casi il rischio è che questa mossa venga percepita come esibizione, vanteria, sicumera, soprattutto se non è realizzata con forme linguistiche polite (condizionale, “forse”, “si potrebbe” “mi pare che” ecc.). Un informant inglese di questa nostra ricerca ci ha detto esplicitamente che ci si può esporre “superficialmente e mai nell’ambiente di lavoro. La sincerità non è necessariamente d’obbligo”.
 
e) Ordinare è una mossa rischiosa perché è collegata ad un valore essenziale, quello di gerarchia e mette in campo due variabili molto forti, quella della formalità/informalità e quella della esplicitezza/implicitezza della “forza”  pragmatica della mossa.
    Ogni cultura ha dei metodi propri per mascherare tale forza, ed un errore in questo senso può essere grave. Nella cultura italiana (ma anche in molte culture orientali), l’ordine è accettato senza discussione se viene da un superiore. In altre culture esprimere un ordine come suggerimento o proposta è invece d’obbligo. Spesso sono quindi gli italiani a non capire che I think you should... è in realtà un ordine e non un consiglio...
 
f) Proporre sostituisce l’ordinare in molte culture (vedi sopra); se la proposta segue quella dell’interlocutore ed è differente, o addirittura contraria, è una variante dell’attaccare e può condurre all’escalation. Nelle culture in cui l’attacco esplicito è vietato, esso assume spesso la forma di una controproposta.

j) Cambiare argomento: può essere un escamotage per togliersi da una situazione imbarazzante (ed è quindi una mossa down) o per togliere l’interlocutore dai problemi (ed è una mossa up), ma può essere anche aggressiva: la frase italiana “il problema in realtà è un altro” viene poco gradita nelle culture straniere. I russi, amanti della discussione diretta, vedono abbastanza male questa mossa.
 
k)  Ironizzare è una mossa rischiosissima perché ogni cultura ha una sua nozione di ironia; le culture orientali e quelle arabe rifiutano questa mossa, che in Italia può essere up, se conferma la posizione di superiorità di un interlocutore che può permettersi di essere ironico, o può essere down se serve per togliersi da una situazione difficile con una battuta. Gli americani ritengono l’ironia troppo “inglese” e non l’apprezzano, soprattutto in situazioni di lavoro; anche i tedeschi sono restii ad accettare la “presa in giro” all’italiana e sono poco ironici, soprattutto riguardo alla politica e la vita pubblica, ritenendo che il concetto di Stato non sia oggetto di ironia.
 
l)  Interrompere: mossa  frequente in Italia, dove è spesso una forma di collaborazione con chi sta parlando, ma assolutamente inaccettabile in quasi tutte le altre culture, che la vivono come un attacco personale sgarbato.
 
m)  Tacere di fronte a una domanda può essere up oppure down a seconda che venga compiuta da chi domina o da chi subisce l’andamento dello scambio comunicativo; in molte culture è ritenuta una mancanza di civiltà e significa una resa senza condizioni.
 
n)  Scusarsi è una mossa inutile per chi è up mentre è tipica di chi è in posizione di inferiorità, anche se spesso serve a parificare la relazione perché costringe l’interlocutore a smettere di esercitare ironia, di recriminare, di mostrarsi superiore: le scuse indicano un “punto a capo” dopo un errore, che viene in qualche modo dimenticato.

    Come si vede, quindi, sono le mosse di attacco che rischiano di provocare incomprensione culturale e che risultano delicate; ci sono poi mosse neutre in italiano che possono essere viste come aggressive da stranieri, soprattutto se compiute con il nostro tono di voce (considerato sempre “litigioso” dagli stranieri), con il nostro accentuato gesticolare e la notevole vicinanza tra gli interlocutori, che possono farci ritenere invadenti. Non sono tanto le mosse in sé, quindi, a risultare fonte di errore, quanto il loro accoppiarsi a peculiarità linguistiche e gestuali degli italiani.
 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

I dati presentati in questo provengono dal nostro volume

BALBONI, P. E. 1999
Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio.
I principali testi sul tema sono:

BRICK J. 1991, China: A Hanbook of Inter.Cultural Communication, Sydney, NCELT&R.
BRISLIN R. et al. 1986, Intercultural Interactions: A Practical Guide, Los Angeles, Sage.
HOFSTEDE G. 1991, Cultures and Organizations: Software of hte Mind, Londra, McGraw-Hill England.
KNAPP K., W. ENNINGER, A. POTHOFF 1987, Analysing Inter-Cultural Communication, Tubinga, Narr.
NALESSO DIANA M. (cur.) 1997, Cultural Awareness. Linguistic and Cultural Training Towards Mobility in Europe, Trieste, IRRSAE Friuli - EU Soctrates Programme.
OLESKY W. (cur.) 1989, Contrastive Pragmatics, Amsterdam, Benjamins.
SCOLLON R., S. WONG SCOLLON 1995, Intercultural Communication: A Discourse Approach, Cambridge, Blackwell.
TOMALIN B., S. STEMELSKY 1993, Cultural Awareness, Oxford, O.U.P.
VALDES J. M. (cur.) 1986, Culture Bound, Cambridge. C.U.P.

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Il fattore culturale nell'insegnamento della lingua

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Paola Celentin e Graziano Serragiotto[1]

Questo intervento è diviso in due parti: nella prima si definiscono le caratteristiche principali che, a livello culturale, possono influenzare l'insegnamento di una lingua; nella seconda parte ci sono degli esempi specifici per la lingua italiana.

1. L’interculturalità nell’insegnamento della lingua

    1.1. Il binomio lingua-cultura

Se parliamo di insegnamento di una lingua non ha senso parlare di qualcosa di astratto: non significa imparare solo regole, costruzioni e quindi non è solo lo strumento linguistico che deve interessare colui che apprende. Una persona che possiede uno strumento linguistico deve anche poterlo contestualizzare e quindi considerare la cultura dove tale strumento è usato. Questo perché la lingua e la cultura si sono sempre influenzate vicendevolmente. Quando pensiamo ad una lingua, pensiamo ad uno strumento usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi dietro c'è una cultura che fa da supporto a tale strumento.
Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza considerare lo strumento linguistico. Una cultura viene ad essere descritta attraverso di esso. Possiamo affermare che esiste un binomio lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto stesso.

    1.2. L'influenza della cultura sulla lingua e viceversa

Alcuni antropologi e sociologi, quando si parla dell'apprendimento di una seconda lingua, parlano dell'effetto di una seconda cultura su tale apprendimento. La lingua non è qualcosa di artificiale e quindi non ha senso parlare di isolamento della lingua dalla cultura. Un'ovvia influenza la si può vedere nel vocabolario: come afferma Boas, le parole di una lingua sono adattate all'ambiente dove vengono usate. Basti pensare alle numerose e varie parole per esprimere un certo fenomeno in un Paese: per esempio un evento atmosferico come la pioggia in Inghilterra o il colore bianco della neve presso gli Eschimesi. In questo modo si capisce come la cultura abbia influenzato la lingua: un determinato fenomeno culturale ha come risposta una varietà linguistica per descriverlo. D'altra parte lo strumento linguistico influenza la cultura: una certa varietà di parole serve a descrivere un determinato fenomeno.
Questo è per far capire come chi si accinge ad imparare una lingua diversa dalla propria debba imparare anche una cultura diversa, cioè ci si deve rendere conto di una certa dipendenza dei due fattori e quindi arrivare ad includere la cultura nello studio di una lingua.

    1.3. Caratteristiche dell'acquisizione di una cultura

Il processo di acquisizione di una seconda cultura è stato studiato da vari punti di vista. Da parte dell'apprendente avviene una sorta di acculturazione, cioè un graduale adattamento ad un target culturale senza però abbandonare o rinunciare all'identità della lingua nativa. Il fattore più importante che influenza l'acculturazione è la "diversità" o distanza sociale tra due culture (W.R. Acton and Judith Walker de Felix, Acculturation and mind, in Valdes J.M., Culture Bound, C.U.P., Cambridge, 1986).
L'acculturazione può comprendere diversi stadi a seconda delle esigenze dell'apprendente: si può passare da un livello minimo di conoscenza di base per scopi necessari (livello soglia), fino ad un livello di parlante nativo dove la pronuncia e i gesti sono molto simili se non uguali a quelli dei nativi.
E' importante sottolineare che a seconda dell'impatto della lingua/cultura sugli studenti si hanno esiti diversi nell'apprendimento, in base allo shock culturale subito a causa della diversità della cultura proposta dalla propria.
Se gli studenti che imparano una seconda lingua hanno un orientamento positivo verso la stessa o se il desiderio di essere parte del gruppo che parla la lingua è molto alto, tale affettività può servire come motivazione, addirittura, a seconda della professione (interesse strumentale) possiamo avere diversi atteggiamenti (si pensi ai giorni nostri come il francese venga discriminato perché ha perso quella valenza o importanza che aveva nel mondo del lavoro).
L'acquisizione di una seconda lingua implica l'acquisizione di una seconda cultura e questo per l'alto contenuto sociale della lingua. Per interpretare meglio il fenomeno è bene soffermarsi sull'uso e il significato di questi tre termini: acculturazione, shock culturale e distanza sociale.

        1.3.1. Acculturazione

L'acculturazione è il processo con cui una persona si adatta a una nuova cultura. Possiamo affermare che il modo di pensare di una persona, di agire e di comunicare differiscono e cambiano da una cultura all'altra. Per tenere conto di questi fattori è necessario sottolineare il contesto dove una lingua viene imparata, cioè se è una lingua seconda o una lingua straniera. Si vengono a creare due presupposti:
a) imparare una lingua seconda in una cultura nativa dove la lingua è sempre imparata in un contesto per capire le persone di un'altra cultura;
b) imparare una lingua straniera in un contesto non naturale per vari usi specifici (lavoro, turismo o altri interessi).

        1.3.2. Shock Culturale

Lo shock culturale si riferisce a dei fenomeni che vanno da una semplice irritabilità ad uno stato psicologico di panico o crisi. Tale shock è più evidente nel contesto di una cultura nativa (lingua seconda), mentre è minimo in un contesto non naturale (lingua straniera).
Lo shock culturale è associato a sentimenti di estraniamento, rabbia ostilità, indecisione, frustrazione, tristezza per la lontananza da casa da parte dello studente. Questo è dovuto alle differenze rispetto alla propria cultura che spesso non vengono capite. Tali differenze possono portare a repressione, regressione isolamento e rifiuto. si può vedere come Douglas Brown (Brown D. H., Learning a second culture, in Valdes J.M., Culture Bound, C.U.P., Cambridge, 1986 ) presenti questo shock culturale come quattro successivi stadi di acculturazione.
Il primo stadio vede l'eccitazione e l'euforia da parte della persona per le novità che ha trovato. Nel secondo stadio appare questo shock culturale perché l'individuo sente l'intrusione di differenze più culturali. Nel terzo stadio vediamo che alcuni problemi di acculturazione sono risolti mentre altri persistono: la persona comincia ad accettare le differenze nel pensare e nel sentire. Il quarto stadio comporta o un'assimilazione o un adattamento, un'accettazione della nuova cultura e una confidenza in sé, nella "nuova" persona che si è sviluppata in questa cultura.
Gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale nel passaggio da uno stadio all'altro: non devono forzare il passaggio, ma seguire cercando di capire le sensazioni di frustrazione e di rabbia in modo da arrivare ad una profonda e personale forma di apprendimento.

        1.3.3. Distanza sociale

La distanza sociale si riferisce alla prossimità cognitiva e affettiva di due culture che vengono a contatto in un individuo. Per distanza si intende le differenze che esistono tra le due culture.
John Schuman (1976a) dice nella sua ricerca che più grande è la distanza sociale tra due culture più forte è la difficoltà che l'apprendente incontrerà nell'imparare una seconda lingua e viceversa, minore è la distanza sociale, migliore sarà la situazione di apprendimento. Tale distanza è difficile da misurare obiettivamente, si può arrivare ad una percezione, comunque, l'importante è vedere la relazione tra distanza sociale e l'acquisizione di una seconda lingua.

        1.4. La cultura nell'insegnamento linguistico

Alla base dell'analisi dell'interculturalità vi è la ricognizione di come le due culture (quella del parlante e quella dell'apprendente) siano simili e di come differiscano. Una simile analisi apre delle possibilità per l'insegnante nell'approccio dell'insegnamento di una seconda lingua. Bisogna stare attenti a non cadere nell'eccesso con gli stereotipi, ma un'informazione generale può essere molto utile per l'approccio, venendo a contatto con fattori culturali: in questo modo l'esperienza dell'insegnare e l'insegnamento diventano entrambi più piacevoli ed efficaci.
Per cultura si intende i modi che un popolo usa per esprimere se stesso, i quali assumono forme diverse a seconda dei contesti e con significati diversi a seconda del messaggio che si vuole trasmettere.
E' necessario che ci sia una corretta informazione sui costumi e sugli usi di un popolo, analizzando la distribuzione del fenomeno, cercando di non dare degli stereotipi che potrebbero falsare l'interpretazione, ma fornendo piuttosto dei "sociotipi" ( cfr. Balboni P. E., Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, ed. Marsilio, 1999), e cioè delle caratterizzazioni che derivano da una generalizzazione razionale di stereotipi empiricamente verificabili.
Per fare questo si devono tenere in debito conto anche gli aspetti non verbali di una lingua, perché anch'essi fanno parte della cultura e possono essere diversi a seconda delle popolazioni: il linguaggio del corpo, la lingua oggetto, la lingua dell'ambiente.
Per linguaggio del corpo si intendono il movimento, la postura, la gestualità, l'espressione del viso, lo sguardo, il toccare e la distanza.
Per lingua oggetto si intendono i segni, i disegni, gli artefatti, il vestiario e l'adornamento personale.
La lingua dell'ambiente è quella fatta di colori, luci, architettura, spazio, direzioni ed elementi naturali che parlano all'uomo della sua natura.
Ogni parlante nativo assimila delle esperienze sociali individuali caratteristiche della propria cultura. Ogni società accumula delle regole seconde le quali alcune considerazioni concrete sono interpretate astrattamente e sono valide tra coloro che comunicano attraverso l'uso comune della stessa lingua.
Tra le società con strutture socioeconomiche molto diverse, le differenze interculturali giocano un ruolo significativo quando i membri di una cultura imparano la lingua dell'altra.
L'approccio in classe, quindi, è importante: una volta stabiliti quali valori e quali comportamenti devono essere insegnati, si deve vedere come ciò debba essere fatto. Una volta che si è capito il legame tra pensiero, cultura e lingua, assieme alla conoscenza delle differenze culturali, distanze, somiglianze e come queste influenzino l'apprendimento di una lingua, l'insegnante ha inserito la cultura nel curriculum.
Per analizzare queste differenze culturali si possono usare vari metodi: la comparazione, la creazione di situazioni o di simulazioni, il chiarimento dei malintesi attraverso i giornali, i media o l'isola classe. Si tratta quindi di fare più che di parlare di valori culturali, fare secondo schemi diversi dalla propria cultura.
L'insegnante non deve tener conto solo della cultura che deve essere appresa, ma anche della cultura del nativo, le difficoltà che lui potrebbe avere, le problematiche che si trova ad affrontare, in modo che l'insegnamento diventi proficuo attraverso l'aggancio alla vita normale. Quello che è importante è che ci sia un contatto diretto fra l'ambiente e l'insegnamento.
La persona che apprende dovrebbe avere il seguente atteggiamento (cfr. Balboni, 1999):

• conoscere gli altri, quindi non basarsi su stereotipi, ma entrare in diretto contatto con la nuova cultura;
• tollerare e rispettare le differenze, cioè rendersi conto che tali differenze possono esistere, senza rinunciare al proprio modello culturale
• accettare una varietà di modelli, nel senso che ognuno è il migliore per quella cultura, ognuno è l'espressione di un popolo, arrivando a quello che Freddi ha definito "relativismo culturale" (Freddi G., Didattica delle Lingue Moderne, Minerva Italica, 1985). Secondo questo principio, non esiste una cultura migliore di un'altra, ma ognuna rappresenta in modo completo un popolo.

Questo permetterà di arrivare all'acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passando attraverso tre fasi (cfr. Balboni, 1999).
1. consapevolezza (l'essere coscienti che gli altri hanno un diverso software mentale)
2. conoscenza (bisogna conoscere le altre culture per poter interagire)
3. abilità (date dalla consapevolezza assieme alla conoscenza e all'esperienza personale).
 
2. L'interculturalità nell'insegnamento dell'italiano

Come evidenziato nella prima parte di questo intervento, l'esistenza di un insieme di valori culturali rende l'apprendimento di una lingua straniera non un puro esercizio comunicativo, ma qualcosa che va ad incidere sull'intera personalità dell'individuo e sulla sua stessa natura. L'entrare in contatto con persone portatrici di valori culturali diversi dai propri può mettere in crisi la persona e portarla ad una chiusura mentale che irretisce anche l'apprendimento linguistico.
Al contrario, bisogna cercare di favorire uno sviluppo armonioso delle competenze del learner, in modo tale da ampliare la sua capacità di relazionare con l'altro.

    2.1. Dalla teoria alla pratica: evitare gli stereotipi e abbordare i sociotipi

Alla radice di questi problemi troviamo fondamentalmente una diversa maniera di concepire i valori dell'esistenza (spazio, tempo, relazioni umane, divinità…) che si articola in un sistema concettuale vasto e complesso.
Non si può quindi evitare il problema riconoscendo le diversità ma limitandosi ad una presa d'atto. Bisogna cercare di capire le motivazioni che portano una certa cultura ad esprimersi in un modo piuttosto che in un altro, studiando il suo vissuto e le sue radici. Ciò non deve portare ad assimilare aprioristicamente tutte le manifestazioni della realtà straniera, bensì a riflettere, confrontare e comprendere.
Dagli stereotipi bisogna dunque passare ai sociotipi, cioè delle analisi che mettano in evidenza i tratti salienti di una cultura, cercando ovviamente l'omogeneizzazione ma evitando l'appiattimento delle varietà.

    2.2. Un esempio: difficoltà interculturali fra stranieri e italiani

I problemi interculturali fra Italiani e stranieri sorgono quando questi sono posti in contatto fra di loro da necessità "economiche" ben precise: lavorare, fare acquisti, concludere trattative… Il turista difficilmente si renderà conto del gap culturale che lo separa dalla gente fra la quale si trova a trascorrere un periodo di vacanza, in quanto i suoi bisogni primari vengono soddisfatti in modo quasi "automatico". Laddove invece entrano in gioco valori più profondi, come ad esempio la concezione del tempo e dell'onore in un rapporto lavorativo, una scarsa coscienza culturale può portare ad incidenti anche fatali.
Vediamo quindi quali sono i maggiori problemi che possono incontrare gli stranieri che entrano in contatto con gli Italiani e a cosa siano dovuti.

        2.2.1. Il tono della voce

Normalmente gli Italiani adottano un tono della voce notevolmente superiore a quello degli altri popoli; per questo due Italiani che si stanno semplicemente scambiando delle formule di saluto o che stanno conversando del più o del meno vengono spesso scambiati per due litiganti. Nei rapporti internazionali questo fattore, legato al nostro gesticolare vivace e alla nostra presunta aggressività, porta a pensare che si sia in feroce disaccordo con il nostro interlocutore, mentre in realtà si sta solo esponendo il proprio punto di vista.

        La vicinanza

Gli Italiani, come in genere i popoli latini, sono abituati a tollerare una distanza minima fra i corpi, e anche il contatto fisico (p.e. mano sulla spalla) è abbastanza frequente. Questo crea problemi agli stranieri abituati invece ad un maggior spazio vitale, come ad esempio i popoli nordici. Quindi, quello che per un Italiano può essere un invito a stringere dei legami più intimi o comunque più amichevoli può essere letto da uno straniero come un'inutile invadenza.
Nei rapporti fra uomo e donna invece, quella che può essere la naturale espansività italiana può venire interpretata, specialmente dai popoli musulmani, come un segnale esplicito di interesse verso l'altra persona. Ciò porta quindi a fraintendimenti e a spiacevoli "spiegazioni", che vengono vissuti dall'altro come delle sconfitte e possono comportare un arroccamento sulle proprie posizioni.

        La gestualità

Caratteristica prettamente "latina" è la forte gestualità, che accompagna, sottolinea, mima gran parte del discorso italiano. Questi gesti, del tutto spontanei per noi, sono spesso incomprensibile per gli stranieri, o possono dar luogo a fraintendimenti con gesti simili delle altre culture. Purtroppo questa gestualità è anche difficile da esplicitare a parole e solo frequenti contatti con la nostra civiltà possono portare ad una comprensione non ambigua degli stessi.

        La puntualità

In ambito internazionale l'Italiano gode fama di persona poco puntuale o che comunque non è molto affidabile da questo punto di vista. In realtà, gli Italiani tollerano un ritardo che rimane nell'arco del quarto d'ora; anzi, in questo spazio di tempo non è nemmeno considerato ritardo.
Altri popoli valutano invece la puntualità in modo completamente diverso. I popoli nordici sono molto più ligi nel rispettare gli appuntamenti dati, e considerano prova di scarsa serietà anche qualche minuto di ritardo; gli slavi, e specialmente i Russi, tollerano (ed applicano) ritardi anche di mezz'ora o tre quarti d'ora. Questo dipende anche dal fatto che nelle grandi città (come Mosca appunto) l'arrivo in orario non è legato tanto alla volontà personale, quanto alle condizioni del traffico e all'affollamento dei mezzi pubblici. Inoltre, l'attesa è considerato un elemento necessario di qualsiasi trattativa economica; qualche ora di anticamera è da mettere sempre in preventivo.

        La flessibilità

Per noi Italiani il fatto che una riunione abbia un ordine del giorno è un elemento utile ma non indispensabile: anche se poi si passerà la maggior parte del tempo a discutere di tutt'altro, ugualmente si lascerà la seduta convinti di aver impegnato utilmente la propria giornata, risolvendo problemi che comunque andavano affrontati, anche se non erano indicati nella scaletta. Al contrario, persone provenienti da tutt'altro retroterra culturale possono trovare un procedimento del genere enormemente irritante e provocatorio, in quanto comporta una perdita di tempo e una mancanza di rispetto verso le persone che hanno stilato l'elenco degli argomenti da trattare.
Inoltre, il nostro "escamotage" per coprire queste massicce digressioni (vale a dire il punto "varie ed eventuali") non è molto apprezzato all'estero, o meglio, non è compreso; viene letto dagli stranieri come l'ennesima riprova della nostra mancanza di serietà nell'affrontare problemi e trattative, lasciando ampio spazio all'improvvisazione.

        I dialetti e le flessioni dialettali

Gli Italiani, anche se ovviamente raramente se ne accorgono, danno alla loro parlata coloriture e accenti locali, che possiamo, a grandi linee, dividere in settentrionali, centrali e meridionali. Gli stranieri che studiano l'italiano (specialmente ai primi livelli) sono abituati ad una flessione più di tipo centro-settentrionale e sono quindi messi in crisi da pronunce o parole che si discostano notevolmente da quanto da loro appreso in patria. Questo problema, ovviamente, si presenta un po' per tutte le lingue, ma in Italia rasenta la vera e propria incomprensione, specialmente quando si raggiungono alti livelli di elocuzione.

        Argomenti taboo

Ci sono degli argomenti che sono taboo quasi in tutte le culture (sesso, morte, funzioni corporali…), quello che differisce è il loro livello di "impraticabilità". In Italia non sono minimamente tollerati, in ambiente formale, i discorsi che riguardano il denaro, lo stipendio, le entrate di vario tipo e men che meno quelli che toccano l'argomento "tasse". Altri Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, considerano del tutto normale parlare a tavola del proprio reddito, facendone anzi elemento di vanto.
Altro elemento che tendenzialmente si minimizza è la posizione gerarchica o comunque i rapporti di potere all'interno di un gruppo di lavoro. Questo può spiazzare ad esempio un Giapponese, abituato invece ad un preciso ordine gerarchico a cui fare riferimento per stabilire i suoi legami lavorativi e sociali.
In Italia invece l'argomento sesso è affrontato quasi subito (specialmente negli ambienti a netta prevalenza maschile) in maniera abbastanza esplicita e diretta, soprattutto da un punto di vista scherzoso. Questa nostra "facilità" può essere interpretata da uno straniero come un pensiero fisso del popolo italiano, o comunque una faccenda prioritaria nell'impostare qualunque relazione, creando così problemi di comunicazione, specialmente quando nel gruppo si introduce una donna. Inoltre bisogna tener presente che molti dei nostri giochi di parole a questo proposito (come ad esempio tutte le frasi con complemento oggetto maschile singolare esplicitato da un pronome) sono difficilmente comprensibili da uno straniero, che quindi può interpretare le nostre risate come un motteggio nei suoi confronti.

        Lo status

Gli elementi che individuano lo status di una persona cambiano da Paese a Paese e sono uno dei segnali più difficili da interpretare per chi proviene dall'estero. Oltretutto la loro evoluzione, specialmente negli ultimi tempi, è talmente rapida, da mettere spesso in crisi anche gli stessi indigeni. Ad esempio, fino a poco tempo fa lo squillo del cellulare contraddistingueva le persone che occupano una posizione di rilievo o che comunque hanno un incarico di responsabilità. Ora invece, vista la diffusione di massa dell'oggetto, le persone veramente "up" spengono il telefonino nei luoghi pubblici, o comunque laddove potrebbe disturbare gli altri, lasciando che a farlo suonare siano i meno "evoluti" da un punto di vista sociale.
Altro elemento indicatore dello status di una donna rimane comunque la pelliccia, anche se le battaglie ecologiche e animaliste degli ultimi tempi hanno portato ad un'interpretazione "politica" anche di questo capo d'abbigliamento.
Nell'ambiente giovanile, le marche del vestiario rimangono in ogni caso i segnali più precisi dello status rappresentato, anche se si assiste ad una sempre più evidente omogeneizzazione.
Infine, per un Italiano, il segnale più visibile del suo status rimane comunque la macchina, o meglio, le macchine. Il possederne una, o più di una, di grossa cilindrata indica lo stato di benessere goduto dalla famiglia in questione, non solo per il prezzo dell'autovettura, ma soprattutto per le spese connesse con il suo mantenimento (bollo, assicurazione, carburante,…).
La frequentazione di certi luoghi piuttosto che di altri (bar, ristoranti, palestre, discoteche, scuole…) indica particolari appartenenze sociali e elitarie, ma si tratta di vere e proprie "mappe" difficilmente decifrabili da uno straniero, se non dopo un lungo periodo di permanenza nello stesso posto, frequentando persone di varia estrazione.

        Il tempo (policronico e monocronico)

Un Italiano "in gamba" è quello che riesce ad occupare il suo tempo con le più diverse attività, sia nell'ambito lavorativo che in quello sociale-ricreativo. Il fatto di non riuscire ad occuparsi di più di una cosa alla volta è indice di scarsa elasticità mentale e flessibilità, dote fondamentale per un Italiano, che si trova spesso a doversi confrontare con repentini cambiamenti politici, economici e anche climatici. Questa gestione del tempo è detta "policronica" e non sempre è compresa ed apprezzata da uno straniero.
Specialmente i popoli germanici vedono in questa nostra organizzazione un caos totale, che non può portare a niente di buono: una scansione regolare degli impegni, oltre che una rigida divisione degli stessi fra persone con competenze diverse è la loro maniera di gestire lavoro e vita in generale e si capisce quindi come questo comporti inevitabilmente dei conflitti con lo standard italiano.

        Lo spazio (gestione degli spazi)

L'Italiano (in maniera contraria a quanto fatto con il tempo) è portato a suddividere gli spazi in maniera molto rigorosa. Questa è una tendenza più moderna che altro, in quanto, fino a non molto tempo fa (secondo anteguerra), la popolazione era ancora prevalentemente distribuita in piccoli centri rurali, dove le terre erano lavorate spesso in comune e dove i confini erano tramandati solo oralmente. Gli stessi attrezzi di lavoro erano utilizzati da più famiglie a rotazione. La relativamente recente "inurbazione" e quindi la necessità di vivere molto più a stretto contatto con il prossimo ha portato a una chiusura personale e a una netta divisione delle zone di competenza.
L'Italiano è molto socievole e aperto quando è lui a scegliere con chi esserlo, mentre reagisce in modo diametralmente opposto quando è obbligato ad entrare in contatto con il prossimo e a condividere questa intimità forzata.
Anche nell'ambiente di lavoro il fatto di avere un ufficio per conto proprio indica un avanzamento in grado e quindi è molto ambito. L'Italiano tende poi a personalizzare questo spazio, con quadri, oggetti, foto …. In casa ognuno ricava il proprio ambiente; i bambini più fortunati sono quelli che possono contare su una propria cameretta e ad una certa età è quasi obbligatorio avere la propria stanza per farne quello che si vuole.
Questo fenomeno ha conseguenze però anche negative, perché lo spazio pubblico viene considerato spazio di nessuno, e quindi un terreno in cui tutto è lecito. Questo non è minimamente compreso da Svizzeri, Austriaci o Tedeschi, che considerano invece lo spazio pubblico come qualcosa "di tutti", da rispettare quindi ancor di più dello spazio proprio.

        Espressività del volto

L'Italiano spesso esprime le proprie impressioni e sensazioni più con il viso che con le parole, attraverso una mimica facciale molto articolata. Frequentemente, infatti, facendo il resoconto del dialogo avuto con una persona ci troviamo a dire: "E poi ha fatto una faccia, come a dire…". Per noi è quindi del tutto usuale lasciar trasparire in questo modo il nostro pensiero, convinti che ciò sia indice di sincerità. Non funziona sempre così presso gli altri popoli, come ad esempio i Giapponesi, la cui rigida maschera facciale è una vera e propria necessità sociale. Difficile per loro quindi non solo interpretare i nostri segnali ma anche capirne la necessità, visto che esistono le parole per comunicare meglio e in maniera meno suscettibile di fraintendimenti la stessa cosa.

        Struttura del testo (divagazione italiana)

Il discorso italiano è sempre costellato da distinguo, precisazioni, digressioni, parentesi, ecc.… A noi sembra quanto meno poco "scenografico" cominciare subito con il nocciolo del discorso: e dopo cosa diciamo? Inoltre, ci pare che senza un adeguato corredo di esempi il nostro interlocutore non debba capire quale è il nostro vero intento. L'Italiano dà molta importanza alle sfumature e pretende che esse siano tutte colte e apprezzate dall'altro.
Totalmente diversa è invece la maniera di organizzare il discorso (sia orale che scritto) presso altri popoli. I Francesi infatti procedono per ragionamenti logici molto serrati, gli Anglosassoni amano esporre innanzitutto il "subject", ricorrendo poi a precisazioni solo se si rende necessario. Ciò può creare problemi nella conversazione o nei rapporti di lavoro: l'esposizione italiana può sembrare fumosa e inconcludente, mentre a noi quella straniera può sembrare stringata e troppo poco dettagliata.

        Interrompere

Per un Italiano è normale, durante una conversazione, un dibattito, una tavola rotonda, interrompere la persona che sta parlando, magari anche solo per confermare il proprio accordo con quanto va affermando. Anzi, spesso chi parla cerca approvazione nell'interlocutore per continuare il proprio discorso, magari anche con un semplice "mhmh" oppure "è vero", "certo".
Tuttavia, oltre a noi, solo gli Spagnoli tollerano questo genere di intromissione. Per tutti gli altri popoli si tratta di una mancanza di rispetto e di un'invasione dello spazio altrui, quindi si bloccano e continuano con difficoltà il loro discorso. Un Italiano a volte può interpretare un intercalare (come ad esempio, "isn't it" degli Inglesi) come una richiesta di conferma, e quindi rispondere ( "Yes, it is!") mentre invece l'altro non si aspettava assolutamente alcun cenno, e interrompe la sua battuta. Si crea quindi un meccanismo di conflitto culturale di cui le persone non sono assolutamente consce e che imputano ad una mancanza di educazione dell'altro.

        Il silenzio (gli Italiani non lo tollerano)

L'Italiano deve sempre parlare, magari anche solo del più e del meno, ma deve sempre riempire il silenzio, difficilmente lo tollera al di fuori dei casi in cui è strettamente necessario (lavoro, studio, cinema,…). Ad esempio, durante un pasto in compagnia, è obbligatorio intavolare una conversazione più o meno allegra con i propri commensali, evitando di parlare di lavoro e cercando così di stringere dei rapporti più intimi.
Al contrario, altri popoli reputano che la condizione di "anormalità" sia il parlare, e che quindi una volta cessata la causa per la quale si era resa obbligatorio la conversazione, ci si dedica altro, o semplicemente si continua a fare in silenzio ciò che si era iniziato. Un Russo converserà con voi amabilmente se siete seduti davanti a un bel bicchiere di tè e fuori scende la neve, ma sicuramente non si dilungherà in convenevoli se state facendo la coda per il latte: un attimo di distrazione può comportare la perdita della posizione acquisita.

        Il cibo e l'alcol

Per un Italiano il momento conviviale di maggior prestigio è il pasto, in quanto il cibo è fonte di piacere. La tradizionale buona cucina italiana, apprezzata in tutto il mondo, è qualcosa di cui un Italiano va fiero, specialmente perché si accompagna ad un'atmosfera festosa e amichevole. A differenza di altre culture, in cui il piacere maggiore è dato dal consumo di alcool che accompagna il pasto conviviale (vedi i popoli Nordici o Statunitensi, ad esempio), l'Italiano ritiene che sia il cibo l'elemento prioritario, e quando ha ospiti stranieri, ci tiene a far loro apprezzare le specialità del luogo.
Il forte significato attribuito al cibo e di conseguenza al pasto porta l'Italiano a scandire la sua giornata in base ai pasti da consumare e ai relativi "tempi" considerati ottimali per il loro consumo. Solo più di recente, la distribuzione del lavoro in turni nelle fabbriche ha portato a rompere questa scansione rituale del tempo.
Questa organizzazione della giornata può creare conflitto con altri popoli, abituati magari a consumare un'abbondante colazione, ma a saltare o quasi il pranzo, oppure che non dedicano sufficiente attenzione alla qualità del cibo che consumano (come ad esempio i Giapponesi).

        La famiglia

L'Italiano viene spesso considerato dagli altri popoli un "mammone" perché rimane legato alla sua famiglia d'origine per tutta la vita in maniera anche abbastanza consistente. L'età media dell'abbandono del nido da parte dei giovani corrisponde grossomodo con quella del matrimonio; solo per motivi di lavoro, di studio o per conflitti interni, un ragazzo sceglie di andare a vivere per conto proprio prima.
Questa realtà non è invece condivisa da altre culture, come ad esempio quella tedesca, dove l'indipendenza e l'autonomia della prole sono stimolate dai genitori stessi. L'Italiano viene visto come una persona poco sicura, che matura lentamente e che ha sempre bisogno della convalida di almeno altre due persone per decidere cosa fare.

    2.3. Come affrontare il problema

La situazione analizzata in precedenza è abbastanza complessa e variegata e ci fa capire come atteggiamenti e valori per noi del tutto "normali" non sono considerati alla stessa stregua dagli altri popoli.
Si rende quindi necessario uno studio approfondito delle realtà "altre" rispetto alla nostra, prendendo in considerazione non solo le diversità linguistiche ma anche quelle culturali, religiose, economiche, spirituali, ecc. e riflettendo sul fatto che parlare un'altra lingua non significa tradurre il significato di un discorso, ma arrivare veramente a pensare secondo i parametri di un'altra cultura.
Questo però non deve portare ad un'omogeneizzazione della cultura o, peggio, all'assunzione acritica dei valori di un altro popolo: ci sono degli elementi che vanno al di là della semplice tolleranza e che mettono in gioco il nostro credo religioso e la nostra morale e che quindi non possono essere accettati se non rinnegando le nostre origini. Le nostre origini invece vanno tutelate e difese, in quanto sono un patrimonio unico e irripetibile tramandatoci direttamente dai nostri avi e che fanno di noi quello che siamo.
In realtà, quello che vogliamo promuovere, è una maggiore sensibilizzazione ai problemi legati ai rapporti interculturali e una formazione alla tolleranza delle diversità; creare un clima di dialogo e di apertura, che porti al confronto e all'arricchimento reciproco. Solo in questo senso può essere intesa una reale globalizzazione della cultura: non una perdita di valori, ma un'acquisizione di strumenti e mezzi per osservare la realtà in maniera produttiva. Non da spettatori ma da attori di questo vasto scenario mondiale in continua evoluzione.
Scopo dell'educazione linguistica deve quindi essere anche quello di dotare l'allievo delle conoscenze adeguate ad un'analisi approfondita del tessuto sociale in cui si troverà ad operare. Quindi schemi d'interpretazione, parametri, strutture concettuali per affrontare l'altro e il diverso in maniera critica e costruttiva. I benefici di un tale approccio riguardano non solo la competenza linguistica, ma ricadono sull'intera personalità.

 

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1 Pur concepito insieme dai due autori, la stesura della prima parte (“L’inteculturalità nell’insegnamento della lingua”) è opera di Graziano Serragiotto, quella della seconda parte (“L’interculturalità nell’insegnamento dell’italiano”) è opera di Paola Celentin

 

Canzoni ed insegnamento di una lingua straniera: aspetti comunicativi

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di Maria Paola Nicosia

Canzoni si o canzoni no nella lezione di lingua straniera? Strumenti efficaci e validi o semplici momenti di svago da offrire agli studenti per liberare la mente da ogni pensiero? Vent’anni fa la risposta a questi quesiti propendeva, senza alcun dubbio, per una soluzione negativa del problema che, in tal modo, cessava subito di essere tale, lasciando sopito tutto quel ricco potenziale insito nelle canzoni. Esso è stato poi fortunatamente recuperato e sempre più valorizzato grazie ad un nuovo approccio sviluppatosi in seguito all’affermarsi di nuove scienze, quali l’etnografia della comunicazione e la linguistica testuale. In base ad esse, la canzone è diventata un vero e proprio ”genere comunicativo” che chiama in gioco tutta una serie di componenti che ne mutano e rivalutano l’utilizzo nel campo dell’insegnamento delle lingue straniere.
Questa nuova prospettiva evidenzia come la canzone, nel momento in cui viene proposta, attivi un processo specifico in cui il messaggio poetico viene simultaneamente trasmesso da un locutore e ricevuto da un destinatario. In altre parole, il momento dell’esecuzione viene visto come fondato su questo stretto scambio di apporti tra un Io parlante ed un Tu che ascolta.
A tale proposito alcuni autori sottolineano come l’interprete, per mezzo di vari elementi verbali ed extra-linguistici, porga all’ascoltatore dei veri e propri stimoli che lo mettono in grado di giungere alla comprensione del testo. In altre parole, l’interpretazione di una stessa canzone può variare per scelte diverse da parte dell’interprete quali, ad esempio, il bisogno di adattare il testo alla propria personale esperienza o al contesto sociale in cui vive oppure per propria volontà di non ripetersi o ancora per venire in contro alle aspettative del pubblico.
Tutto ciò può tradursi concretamente in un cambiamento dell’esecuzione vocale, della melodia che, ad esempio, può cambiare se la canzone viene portata in un altro paese e, non ultimo, si può manifestare in veri e propri cambiamenti nel vocabolario e nella sintassi del testo. Questi ultimi possono essere determinati dal desiderio di adattare una canzone ad un contesto specifico nel quale l’esecuzione ha luogo, dalla necessita di rimuovere difficoltà semantiche che di solito si presentano nelle canzoni tradizionali oppure dalla necessita di recuperare ritmi e suoni che si sono alterati nel tempo.
Per influenza di tutti questi fattori il testo, che costituisce di per sé un qualcosa di astratto, perde la propria astrattezza e svela il proprio carattere di flessibilità che può essere percepita in ogni singola esecuzione creando, di volta in volta, un effetto diverso nell’ascoltatore. Da parte sua quest’ultimo riveste un ruolo che contribuisce non meno di quello dell’interprete a costituire l’esecuzione, egli fa parte dell’esecuzione e giunge alla comprensione del messaggio trasmessogli non solo grazie ai molteplici input fornitegli dall’interprete, ma anche guidato dal proprio mondo, dalla propria esperienza dotando la canzone di un ulteriore personale significato aggiuntivo. Questo fattore sembra essere confermato dalla constatazione che nella maggior parte delle canzoni moderne si manifesta la totale assenza di interlocutori specifici ed identificabili, mentre è evidente l’alto uso del pronome personale di prima persona singolare. Esso viene reso dall’esecuzione abbastanza ambiguo da attenuarne il valore referenziale nella mente dell’ascoltatore che non lo percepisce come completamente appartenente al locutore.
Ecco che allora le parole diventano sufficientemente impersonali da far sì che ogni ascoltatore le avverta come proprie, come espressione della propria esperienza.
Questa particolare personale appropriazione da parte dell’ascoltatore viene poi facilitata e sostenuta anche da altre caratteristiche presenti nelle canzoni quali: l’alto uso di verbi senza persona espressa che, apparentemente sono in prima persona, e l’alto uso del presente semplice, che sembra agire disancorato dal tempo. Questo fa si che una canzone divenga presente ogni volta ed ovunque la si ascolti.
In considerazione di questi aspetti Murphey (1990), la cui opera rappresenta uno degli studi più attenti e validi sul ”discorso delle canzoni”, ritrova una certa affinità tra il genere canzone e la conversazione di ogni giorno, ma nello stesso tempo, puntualizza come le canzoni non possono essere viste come conversazioni nel vero e proprio senso della parola. Esse posseggono una qualità pseudo-dialogica poiché noi abbiamo accesso solo ad una parte della conversazione, sembrano mirare a descrivere sogni idealizzati o pure intenzioni nell’agire, mentre questo accade in misura minore nella conversazione ed infine si presenta in esse la mancanza di precisi referenti di luogo e tempo che stimola un’interpretazione degli stessi da parte dell’ascoltatore influenzata dalla propria situazione d’ascolto per cui vengono identificati con il qui e l’ora della situazione di enunciazione.
Per quel che riguarda le procedure attivate dall’ascoltatore nel processo di percezione ed interpretazione di una canzone, egli è aiutato da alcune componenti della stessa quali la melodia, la rima, la ripetizione e la ridondanza.
In riferimento al primo elemento, pur nel riconoscimento della differenza tra linguaggio parlato e linguaggio cantato, tra modello intonativo del primo, che consiste in un complesso sistema di suoni che fluttuano costantemente dall’alto al basso a seconda delle caratteristiche individuali e delle personali sensazioni, e la curva melodica del secondo, che segue uno sviluppo graduale rappresentato dalle note musicali, una somiglianza tra i due sistemi può comunque essere trovata. Un’intonazione ascendente nel linguaggio parlato indica un incremento d’enfasi e spesso corrisponde con una curva melodica ascendente nella canzone che annuncia l’approssimarsi di un punto cruciale che l’ascoltatore deve ricordare per comprendere il testo.
La rima poi dimostra essere un altro strumento utile nell’aiutare l’ascoltatore a riconoscere ciò che è più importante per la sua comprensione di una canzone. A tal proposito la Licari (1983), la cui opera costituisce un’altra seria indagine sulla natura delle canzoni come genere comunicativo, ricorda che nella procedura di congiungimento di un testo con una melodia, i tempi forti e le note lunghe possono essere usati per mettere in evidenza certe parti del testo.
L’ascoltatore ode queste parti per prime e le ricorda più a lungo.
Le parole in rima possono anch’esse essere enfatizzate in questo modo e vengono a costituire uno schema guida che aiuta l’ascoltatore nella comprensione della canzone e ne riassume il messaggio. L’uso del ritornello che caratterizza molte canzoni costituisce poi un altro prezioso aiuto per l’ascoltatore. Vi può essere una ripetizione di una sola frase oppure di due o quattro identiche frasi alla fine di una strofa. Queste parti ripetute sono chiamate forti poiché catturano facilmente l’attenzione e danno una sintesi del messaggio della canzone. Di conseguenza, sin dal primo ascolto, è possibile avere una comprensione globale del testo considerato il fatto che questo non fa altro che ampliare quanto espresso in forma concisa nel ritornello.
La ridondanza svolge infine anch’essa un ruolo molto importante nella conversazione ed in particolar modo nelle canzoni. Essa consiste in tutto quel complesso di informazioni che ci vengono fornite dalla situazione o dagli altri codici extra e para linguistici che sottolineano le parti rilevanti del discorso del locutore cosicché l’ascoltatore può cogliere degli spunti al fine di elaborare le proprie ipotesi anche sugli altri segmenti del discorso.
Ascoltatore presente ed attento dunque dovrà rivelarsi colui che intenda cogliere il vero significato di una canzone, al quale si richiederà comunque non solo un’approfondita analisi delle scelte verbali e musicali sopracitate o dell’interpretazione della canzone da parte del cantante, ma anche un recupero della dimensione storica e sociale delle canzoni, aspetti che possono davvero rivelarsi fondamentali per garantirgli, insieme alle altre componenti, pieno successo nel proprio compito.
Ed è proprio nel riconoscimento attuato dal nuovo approccio comunicativo dell’importanza di tutte queste dinamiche presenti nel mutuo scambio tra cantante ed ascoltatore attivo che ritroviamo la chiave per una rivalutazione della canzone in campo glottodidattico, in termini di accentuazione delle capacita di comprensione e produzione orali dei nostri ascoltatori, gli ”alunni”.

Riferimenti bibliografici:
MURPHEY T, (1990), Song and Music in Language Learning: An analysis of pop song and music in teaching English to speakers of other languages, tesi non pubblicata, cortesia dell’autore.
LICARi A. (1983), Forme d’Ascolto e d’Interpretazione nella Moderna Canzone Francese, Bologna, CLUEB.

 

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Dalla competenza comunicativa alla competenza comunicativa interculturale

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(pubblicato in Babylonia2/1996.  46 -52).

Daniela Zorzi
Università di Bologna

La crescente presenza nella scuola italiana di bambini e adolescenti stranieri, per lo più immigrati o profughi, mette sempre più in crisi il modello monoculturale e monolinguistico che propone la scuola italiana. Modello già storicamente improponibile (anche se a volte proposto) nelle zone di bilinguismo sociale e già fortemente messo in discussione negli ultimi trent'anni, quando, in conseguenza della mobilità interna, i contatti fra culture regionali e dialetti diversi si sono fatti sempre più frequenti ed è diventato palese, anche alla scuola, che per molti bambini l'italiano era, citando De Mauro, la prima delle lingue straniere. Nel microcosmo della classe, la reazione dell'insegnante ora come allora è sempre la stessa: mi hanno dato un bambino calabrese, napoletano, marocchino, cinese .... non sa l'italiano e io non so che cosa fare. Al di là del fatto che sotto la frase "non sa l'italiano" si nasconde un'infinita varietà di situazioni, in termini di conoscenze e capacità linguistiche - che va dal non saper dire buongiorno al non saper riconoscere una subordinata di terzo grado in dipendenza da un tempo storico -, ciò di cui si lamenta l'insegnante è l'inadeguatezza della competenza del bambino "altro" in relazione a quanto richiede la scuola. In realtà il problema linguistico era ed è la punta di un iceberg: sicuramente è uno degli elementi che turba maggiormente l'equilibrio della classe e incide nell'accettare o meno un ragazzo, ma molto spesso l'insufficienza linguistica, facilmente documentabile in relazione alla competenza del ragazzo autoctono monolingue, è un'etichetta di comodo per coprire il disagio che sia l'insegnante sia gli altri ragazzi provano davanti a comportamenti, abitudini, modi di parlare o di tacere, modi e tempi di reazione che si discostano a quelli del gruppo maggioritario. Di ciò, e le esperienze di moltissimi paesi con storie di immigrazione molto più forti e più antiche della nostra lo confermano, non sempre si è consapevoli, quindi si cerca quasi esclusivamente di coprire il deficit linguistico, o tutt'al più quello relativo ai contenuti disciplinari del nostro sistema di istruzione. Anche questa operazione, però, nel nostro contesto privo di una forte tradizione dell'insegnamento dell'italiano come lingua seconda, risulta difficoltosa: non si sa chi possa farlo (l'insegnante di lettere? la maestra? l'insegnante di sostegno? un interprete bilingue? per citare solo alcune modalità sperimentate in Italia), con quali competenze, in quali momenti e in relazione a quale programma di base.
    Se questa, appena tratteggiata, è la situazione più comune in cui si trova (spesso da un momento all'altro) l'insegnante a cui capita in classe un bambino straniero, e se - come è prevedibile dato l'andamento della migrazione straniera in Italia - il numero dei bambini stranieri tenderà a crescere, allora è ragionevole, oltre e al di là di ogni valutazione morale, cominciare a pensare a una pedagogia che preveda un'utenza multiculturale.
    In questa sede, vorrei vedere come il concetto di competenza comunicativa, su cui in maniera più o meno esplicita si è fondato negli ultimi 15 anni anche in Italia l'insegnamento delle lingue straniere e della lingua materna nella cornice dell'educazione linguistica, possa essere interpretato e attuato nella pratica didattica in modo da diventare uno strumento efficace in contesti in cui due o più culture devono convivere. Il mio contributo rientra nell'ambito della pedagogia interculturale, intesa come un atteggiamento e un punto di vista: non intende proporre contenuti specifici, ma si traduce in un modo di rapportarsi alla diversità, vista come risorsa per lo sviluppo di un gruppo misto. Questo atteggiamento è caratterizzato, innanzi tutto, da un aggiustamento reciproco fra le varie parti: non deve, cioè, essere solo lo 'straniero' ad adeguarsi al modello della cultura ospite, ma anche gli 'autoctoni' devono rinegoziare i loro valori e le loro certezze, cercando di identificare i comportamenti che portano all'esclusione (volontaria o coatta) dell'estraneo.

1. Sulla competenza comunicativa

Nell'ambito dell'insegnamento linguistico, si è passati da un prevalente, se non esclusivo, interesse per la forma della lingua a un prevalente interesse per l'uso, interesse quest'ultimo che pervade, in varia misura e con diverse modalità, tutti gli approcci definiti comunicativi. L'elemento che accomuna questi approcci è l'aspirazione a far sì che l'apprendente sviluppi la competenza comunicativa.  Questa include la conoscenza del sistema linguistico (cioè sapere se o in che misura qualcosa è formalmente possibile all'interno di una data lingua), ma non si limita ad essa, in quanto la competenza puramente linguistica

circoscrive la descrizione a un parlante-ascoltatore 'ideale'; che conosce 'perfettamente' la propria lingua; che non è sottoposto ai 'condizionamenti' di ordine psicologico e sociologico nell'applicazione delle proprie conoscenze ai fini dell'esecuzione; che appartiene, infine, a una comunità linguistica 'omogenea'.

(Zuanelli Sonino, 1981: 40).


Per formare una competenza comunicativa, concorrono, quindi, altre componenenti: la conoscenza psicolinguistica (sapere se o in che misura qualcosa è fattibile in virtù dei mezzi di implementazione di cui si dispone, cioè in virtù della capacità dei parlanti di trasformare una realtà mentale (il significato) in una realtà sociale ai fini della comprensione (Zuanelli Sonino, 1981: 68)); la conoscenza socioculturale (se e in che misura qualcosa è appropriato in relazione al contesto in cui è usato e valutato); la conoscenza de facto, (sapere se e in che misura qualcosa è di fatto realizzato dalla comunità parlante quella lingua, e non soltanto possibile). La competenza comunicativa non solo richiede che il parlante abbia queste conoscenze, ma anche che sviluppi l'abilità d'usarle (Hymes, 1971).
    Da questi principi teorici generali - che nascono all'interno di una teoria sociolinguistica dell'uso linguistico, senza un originario interesse per la pedagogia delle lingue - sono derivati, come si diceva, i vari approcci didattici di tipo comunicativo. Questi hanno messo l'accento su vari aspetti della comunicazione: alcuni hanno privilegiato il "che cosa è adatto dire in una certa situazione", e quindi quali sono le realizzazioni linguistiche che si ritengono più comuni o più usate per esprimere "nozioni" (ad es. spazio, tempo, quantità ecc.) e "funzioni" (ad es. chiedere e dare informazioni, presentarsi, accettare, rifiutare ecc.). Altri hanno messo l'accento sul contesto d'apprendimento: in particolare sulla relazione fra il compito cognitivo da svolgere (ad es. trovare argomentazioni convincenti affinché X faccia Y), il gruppo dei partecipanti (come i partecipanti al gruppo devono negoziare rapporti e informazioni per accordarsi su quali sono argomentazioni davvero convincenti) e gli elementi linguistici necessari per portare a termine il compito assegnato. Altri, ancora, hanno messo l'accento sullo studente come individuo, riconoscendo a ciascuno la propria specificità e quindi offrendo percorsi di apprendimento differenziati, fra i quali il singolo studente può scegliere quello più adatto alle proprie capacità, alle proprie inclinazioni e ai propri obiettivi.
    Caratteristica comune a tutti questi approcci è l'attenzione per lo studente più che per la struttura della lingua da insegnare. In momenti e in modi diversi ci si è occupati dei bisogni dello studente, cercando di identificare quali sono i suoi obiettivi e di quali strumenti ha bisogno per interagire linguisticamente con la cultura con cui vuole/deve essere a contatto: quali nozioni e quali funzioni linguistiche gli sono più utili per i suoi scopi, quali strategie di comunicazione deve conoscere e attivare per avere incontri soddisfacenti, quali atteggiamenti deve assumere per avvicinarsi al parlante nativo. Questi è considerato il modello per eccellenza,  il punto d'arrivo, mitico e frustrante allo stesso tempo, perchè mai raggiungibile, di tutto il percorso pedagogico. L'attenzione per il soggetto apprendente ha avuto l'indiscutibile vantaggio di sviluppare una serie di studi sia sull'apprendimento (motivazione, stili d'apprendimento, memoria, preferenze rispetto a tecniche e contenuti, personalità ecc.) sia sull'uso sociale del linguaggio, cioè come l'apprendente negozia verbalmente informazioni e relazioni con gli altri partecipanti del gruppo tramite la lingua che sta imparando. Questi approcci, però, hanno evidenziato soprattutto lo "sforzo" che l'apprendente fa in direzione della lingua e della cultura d'arrivo, tralasciando le modalità di negoziazione che il parlante nativo può o potrebbe mettere in campo per facilitare l'incontro.

2. Sulla competenza comunicativa interculturale

Mentre, come si diceva, l'attenzione della pedagogia linguistica è essenzialmente rivolta a far sì che l'apprendente sviluppi la capacità di interagire secondo il modello dei parlanti nativi, gli studi sulle interazioni verbali (e sociali) fra parlanti di lingue diverse hanno cercato di descrivere, tramite analisi del "dettagli" dell'interazione  - quello che realmente avviene in questi incontri e hanno portato una serie di informazioni sul come, sul quando e, a volte, anche sul perché alcuni incontri non hanno successo, rilevando, in particolare come

il fraintendimento interculturale è un prodotto mutualmente costruito da tutti i partecipanti all'interazione, non è responsabilità di uno solo.

(Chick, 1990: 254)


Analizzando incontri interculturali  si è visto come l'interazione fra persone di culture diverse sia marcata da una serie di momenti di asincronia, che si manifestano in silenzi, sovraposizioni, reazioni impreviste, interruzioni, ecc. che mostrano la difficoltà di stabilire e mantenere una cooperazione conversazionale a causa delle differenze nel background culturale e nelle convenzioni di comunicazione. I partecipanti, normalmente inconsapevoli sia delle conoscenze socioculturali sia delle convenzioni comunicative che contribuiscono alla loro interpretazione (e, normalmente, inconsapevoli anche delle proprie convenzioni conversazionali), hanno solo la percezione di un incontro fallimentare, le cui cause sono raramente identificate. Spiegano quello che è accaduto più spesso in termini psicologici che in termini sociologici o culturali, percependo l'altra persona come non cooperativa, aggressiva, stupida, incompetente o con spiacevoli caratteristiche personali. Ripetuti incontri interculturali falliti con diverse persone portano nel tempo, alla formazione di stereotipi culturali negativi (Chick, 1990: 253 e sgg.)
    Il fallimento può essere di vari tipi: può non esserci comunicazione, cioè l'enunciato di un parlante non comunica nessun messaggio all'interlocutore, oppure un fraintendimento, quando si comunica qualcosa che non si voleva dire (Gumperz, 1982). I fraintendimenti - a loro volta - possono essere o di tipo pragmalinguistico, quando si attribuisce erroneamente una certo significato a un enunciato (ad esempio quando un consiglio viene interpretato come un rimprovero), o di tipo sociopragmatico, quando il contributo dell'altro non è ritenuto adatto alla situazione, in seguito a diverse valutazioni dei parametri sociali che determinano le scelte linguistiche (ad esempio l'uso del registro sbagliato per troppa o troppo poca formalità) (Thomas, 1983).
    Le competenze che assicurano una effettiva comunicazione interculturale sono così complesse e oscure e legate al contesto, che in nessun modo possono essere direttamente insegnate come un insieme di conoscenze. Comunque un'efficace comunicazione interculturale può essere imparata. Essere consapevoli delle fonti potenziali di asincronia e delle sue possibili conseguenze negative sono un prerequisito necessario per l'apprendimento in quanto permette di ripercorrere retrospettivamente il discorso, di cercare e di identificare eventuali punti di asincronia per mettere in campo adatte strategie di riparo (Chick, 1990).
    A titolo d'esempio, riporto un incontro molto problematico, fra un belga e un africano (Blommaert, 1991: 27 e sgg.), che mette in evidenza sia il punto di incomprensione sia le modalità di risoluzione.
A è il belga, B è l'africano. Si trovano a Bruxelles in un pomeriggio d'inverno.)
        A: Vuoi un caffè?
        B: No, grazie, non ho fame.
        A: Vuoi un CAFFE'?
        B: No, grazie. (breve pausa) Non ho fame.(lunga pausa)
        A: Vorresti andare a bere qualcosa?
        B: Certo, con piacere, fa proprio freddo.
        A: Magari un caffè?

        B: Bene, volentieri.
B reagisce alla domanda iniziale come se gli avessero offerto del cibo, in quanto nella sua cultura (Haya, nel nord della Tanzania) agli ospiti si offrono chicchi di caffè da masticare, come simbolo di amicizia, ospitalità e ricchezza. Di conseguenza è del tutto coerente la categorizzazione che B fa di caffé come "cibo". La categorizzazione del belga, è, invece, "bevanda calda".  Le prime due battute del dialogo mettono in evidenza la differenza delle due concezioni, che porta a un fraintendimento di tipo pragmalinguistico. B si accorge che il suo intervento non è appropriato quando A ripete la domanda, sottolineando la parola caffé. A, dopo una pausa, riformula l'invito passando da "caffé" a un più generale "bere qualcosa". B questa volta accetta e ciò dà ad A una base per ritornare alla proposta iniziale, che finalmente ha successo. Il fraintendimento è stato rimediato.
    In questo scambio si possono identificare tre fasi: una prima di "osservazione" di ciò che sta accadendo, in cui i partecipanti si accorgono del fallimento della comunicazione: i loro contributi sono perfettamente coerenti con i loro assunti culturali, ma non funzionano in quella situazione; segue una seconda fase, la 'ricerca di un terreno comune' in cui A evita l'elemento problematico (caffè). Entrambi si accordano quindi sul 'bere qualcosa'. A questo punto inizia la fase del 'dialogo': viene apprezzata esplicitamente l'idea di andare a prendere qualcosa di caldo e si è creata una base comune per accettare l'idea di caffé come bevanda.
    Questo esempio mostra come la competenza interculturale consista nel raggiungere un reciproco adattamento (e non solo l'adeguamento dell'apprendente ai modelli linguistici e culturali del paese ospitante).
    Obiettivo primario della pedagogia interculturale - di conseguenza - è trovare strategie didattiche perché soggetti di origini culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro indipendentemente dalle differenze di lingua, comportamenti culturali e credenze. L'attenzione si sposta, quindi, dal lavoro che fa il singolo apprendente al modo con cui due persone di culture diverse riescono a negoziare significati e relazioni tramite un mezzo linguistico in cui hanno competenze molto sbilanciate. Questo non significa abdicare a una funzione didattica da parte di chi ha le maggiori competenze, ma, assumendo che il significato sia socialmente negoziato (piuttosto che individuale) e situato nel processo di interazione faccia a faccia (piuttosto che nella testa del singolo parlante), significa vedere la relazione personale non solo come una risorsa per l'apprendimento linguistico da parte del più debole, ma anche per l'allargamento dei confini culturali e linguistici di entrambi.
    Nella gestione didattica ciò ha due implicazioni. Da un lato porta a non vedere la presentazione di contenuti culturali (quali la vita quotidiana in Marocco, le caratteristiche dell'Islam, o la scuola in Cina) come centrale nell'approccio interculturale: Nanni (1993: 77), a giusta ragione, sostiene che limitarsi a questo tipo di contenuti

significa già aver fatto una scelta dogmatica e moralistica che prefigura una proposta educativa sostanzialmente conservatrice per quanto possa essere aperta sul piano delle idee.


Dall'altro implica la costruzione di un clima di classe che favorisca reciproci adattamenti a fronte delle diversità linguistiche e culturali: parlando di insegnamento dell'italiano, si mette l'accento sui meccanismi interattivi e sulla dinamica della gestione della classe e si cerca di impostare una didattica che consideri ogni studente come un individuo, e al contempo, sviluppi l'abitudine alla partecipazione cooperativa ai lavori di classe (Contento et al., 1994).

3. A proposito di "competenza partecipativa"

Come si diceva in precedenza, la comunicazione interculturale è caratterizzata (fra l'altro) dal processo, attivato da tutti i partecipanti, finalizzato a trovare accordo nella situazione in atto. In ambito scolastico, la prima operazione da fare, quindi, è definire la situazione, facendo diventare l'implicito dei comportamenti oggetto di discorso. Si tratta, cioè, di rendere esplicita la "norma" di comportamento verbale e non verbale adeguata al contesto classe di una scuola italiana, norma a cui di solito ci si adegua come se fosse l'unico comportamento possibile.  Due strategie sembrano produttive: da un lato riflettere insieme su "che cosa si fa tutti i giorni in classe", cercando di entrare nei dettagli delle azioni routinizzate (ad esempio: quando suona la campana dell'intervallo, i ragazzi si alzano subito, o aspettano l'autorizzazione dell'insegnante?); dall'altro riflettere insieme sulla varietà di routines possibili, in alternativa a quelle attivate in quel contesto-classe: gli studenti possono raccontare esperienze fatte in altri ordini di scuola (ad es. alle elementari potevo/non potevo stare nel corridoio durante l'intervallo) o esperienze di amici che frequentano scuole diverse, e l'insegnante può raccontare "quello che succedeva quando andava a scuola lui" (ad esempio di quando si stava seduti nel banco a braccia conserte se non incrociate dietro la schiena; o del mutato valore sociale di refettorio e doposcuola, che una volta, ben diversamente da oggi, connotavano disagio sociale od economico). Sono attività che portano alla consapevolezza sia di quello che avviene veramente in classe, sia di come "ciò che di fatto avviene nella propria classe" non sia universale e quindi nè ovvio nè scontato per studenti con esperienze diverse.
    A titolo d'esempio propongo una lista, del tutto approssimativa, di tratti del contesto "classe", che possono variare a seconda dei luoghi e delle situazioni. Questi elementi potrebbero diventare oggetto di discorso e di riflessione per tutti i ragazzi del gruppo, in quanto ciascuno di loro al momento di iniziare quella scuola ha dovuto rapportarsi a una serie di situazioni differenti rispetto alla sua esperienza precedente, sia scolastica, sia pre-scolastica:
-      Diversa struttura dell'ambiente fisico e dell'organizzazione logistica: disposizione del banchi e della cattedra; usi differenziati dei locali della scuola (aule, palestre, laboratori, cortili).
-      Diverse convenzioni che regolano l'uso di materiali didattici: in certe scuole elementari a tempo pieno, ad esempio, i bambini devono lasciare a scuola i libri e i quaderni, in altre li riportano a casa tutti i giorni; nella provincia di Bolzano i libri di testo per la scuola dell'obbligo sono di proprietà della scuola che li presta al singolo studente: questi, al termine dell'anno scolastico, dovrà restituirli in ottime condizioni, perché possano essere usati da un altro studente l'anno successivo: questo fatto - ovviamente - modifica il rapporto dello studente con il libro.
-      Diverse convenzioni, nella vita di classe, relative alla mobilità e alla gestualità: alzarsi o meno al cambio dell'ora; alzarsi o meno durante la spiegazione dell'insegnante; convenzioni che regolano l'andare in bagno, al refettorio ecc; se/quando alzare la mano o alzarsi in piedi per rispondere o chiedere la parola; se/quando alzarsi per andare a parlare con un altro compagno.
-      Diverse convenzioni nell'interazione con l'insegnante: se/quando parlare spontaneamente; se/quando rispondere alle domande; modalità diverse di dare ordini/consigli/esortazioni/rimproveri.
Conoscere queste convenzioni e imparare ad agire all'interno di questi confini fa parte di una componente della competenza comunicativa, che potrebbe definirsi "competenza di partecipazione", intendendo con questo termine la capacità di riconoscere i tratti costitutivi degli eventi comunicativi, e di sapersi rapportare ad essi.
    Se per il ragazzo italiano questa competenza si è sviluppata nel tempo, tramite le informazioni date dall'istituzione (ordini, istruzioni consigli e rimproveri dell'insegnante) e il rinforzo dato dall'ambiente sociale intorno a lui (modello proposto o imposto da familiari e da amici; precedenti esperienze nel contesto italiano), per il ragazzo straniero, giunto da poco da un contesto scolastico e sociale diverso, sviluppare questa competenza diventa di necessità un processo accelerato, pena la sanzione sociale. In questo processo può essere aiutato da informazioni sul contesto e sulle regole socioculturali che regolano la partecipazione: lo studente deve essere consapevole di quale atteggiamento il gruppo si aspetta da lui, anche se ciò non significa che debba necessariamente adeguarsi. Da un lato deve sapere quali inferenze (di solito negative) si traggono da comportamenti che si discostano molto da quelli del gruppo maggioritario; dall'altro, nel caso non infrequente all'interno di un contesto istituzionale come la scuola, in cui 'debba' seguire certe regole, sapere che ci sono, come funzionano ed eventualmente anche perché ci sono e a che cosa servono, può aiutarlo ad adeguarsi. Raggiungere un equilibrio fra il rispetto dei tratti culturali dei singoli e le regole di un'istituzione è sicuramente problematico (le punte estreme, in Italia, si vedono nella difficoltà di accettazione e di inserimento dei bambini zingari, stigmatizzati a priori, e spesso con comportamenti che confermano alcuni degli stereotipi).  Una strategia attenuativa del conflitto è rendere oggetto di discorso e di negoziazione non solo le diverse convenzioni culturali e istituzionali, ma anche la misura in cui è opportuno o neccessario adattarsi, senza ricorrere alla semplice imposizione.
    Un esempio di come possono essere rese esplicite le regole socioculturali in un contesto didattico, lo offre Saville-Troike (1992). Racconta di una studentessa giapponese che si inchinava regolarmente davanti agli insegnanti. Un professore, cercando di insegnare le regole sociolinguistiche inglesi, le disse di non farlo con insegnanti anglosassoni, perché era considerato inappropriato. La ragazza, avvilita, reagì dicendo che sapeva benissimo che gli americani non si inchinavano, ma che quella era la sua cultura e che, se non si fosse comportata così, avrebbe mancato di rispetto e non sarebbe stata una persona corretta. Le diverse convenzioni sono così state rese esplicite e giustificate: si è costruita una base per eventuali accordi o per un'accettazione consapevole dell'alterità. Saville-Troike conclude che si dovrebbe parlare delle regole sociolinguistiche, ma che si dovrebbe lasciare alla decisione degli studenti se produrle o meno.
    D'altra parte, senza forzare una persona a cambiare comportamento, è molto importante informarla che la media dei parlanti interpreta il comportamento 'diverso' come un segnale particolare. L'esempio seguente, anche questo riferito da Saville-Troike (1992), mette in evidenza il disagio che deriva dal fatto che i partecipanti all'interazione non chiariscono i presupposti del loro comportamento. All'inizio di un corso di inglese per stranieri, fu chiesto agli studenti di presentarsi agli altri con il nome di battesimo. A giro di tavolo tutti dissero il loro nome, finché un anziano signore giapponese anunciò: "Voglio essere chiamato signor Tanaka". Questo gelò l'insegnante e gli altri studenti. Ovviamente era suo diritto essere chiamato in maniera formale, ma gli sarebbe stato utile sapere che, in quel contesto, il suo atteggiamento suonava distante, scortese e veniva interpretato come segno di poca amichevolezza.
    In quest'ultimo esempio sembra fallire la reciprocità di atteggiamento su cui si fonda la competenza comunicativa interculturale:

è sbagliato aspettarsi che l'adeguamento debba essere unilaterale e completo: la migliore dimostrazione di competenza interculturale sta nel chiarire che cos'è la tua identità culturale e nel segnalare all'interlocutore che ti aspetti che lui voglia venirti incontro, proprio come tu sei disposto ad andare incontro a lui.

(Dirven & Pütz, 1993: 152)


 

4. Conclusioni

Introducendo il concetto di competenza di partecipazione, come una delle componenti della competenza comunicativa interculturale, siamo andati nella direzione degli obiettivi che si propone un approccio didattico orientato sull'interculturalità: favorire, attraverso la vita di classe

una dinamica acquisizione del sapere, lo sviluppo delle abilità (comprese quelle di azione sociale) e l'internalizzazione di valori e atteggiamenti che potranno consentire ad insegnanti e alunni di non provare alcun disagio di fronte alla diversità culturale.

(Lynch, 1993:1)


    Siamo partiti dall'assunto che una competenza comunicativa interculturale - al pari della competenza comunicativa - non possa essere "insegnata", in quanto si manifesta attraverso comportamenti linguistici e non linguistici assolutamente dipendenti dalle infinite variabili del contesto di situazione. Si ritiene allo stesso tempo che possa essere "imparata", o al di là della banale semplificazione, che si possano creare, anche in classe, alcune condizioni che aiutano a stabilire positive relazioni con persone di culture diverse.
    Si tratta innanzi tutto di cambiare la prospettiva didattica: non è il bambino straniero a dover imparare (per adeguarsi) il modello di comportamento degli autoctoni, ma sono tutti i partecipanti al gruppo (cioè anche i bambini italiani e gli insegnanti) che - insieme - devono trovare un accordo sul comportamento adeguato. Ciò non significa abdicare al proprio modello culturale, ma trovare modalità di negoziazione per cui ciascuno attutisce o esalta aspetti della propria cultura per venire incontro all'altro.
    L'adeguamento reciproco richiede una consapevolezza del proprio e dell'altrui comportamento, o, per lo meno la consapevolezza che certi comportamenti usuali in una certa cultura possono essere inusuali o avere valori differenti in un'altra. Rapportando questa affermazione a una classe di scuola italiana, vediamo che un primo passo è rendere esplicite le norme di comportamento che regolano la vita quotidiana in quel contesto, norme che i partecipanti della stessa cultura danno per scontate, e che raramente diventano oggetto di discorso. Usualmente si sanziona chi si distacca da queste norme (straniero o autoctono che sia), ma quasi mai si mettono in discussione o diventano oggetto di riflessione. Conoscere le regole tacite dell'evento a cui si sta partecipando e renderle esplicite a chi fa parte di un'altra comunità aiuta a giustificare comportamenti diversi, in apparenza estranei o minacciosi. E' ovvio che tale consapevolezza non è d'aiuto solo nel caso in cui siano presenti studenti di culture molto distanti dalla nostra: la varietà delle culture italiane, e la varietà delle abitudini e delle tradizioni familiari che ogni studente si porta dietro al momento di entrare in classe, è stato, è o può essere ragione di conflitto o di incomprensione. Un atteggiamento che non solo rispetti l'alterità, ma che la veda come una risorsa (non necessariamente un modello da imitare, ma uno stimolo per mettere in discussione il proprio modello senza subirlo acriticamente) "riconosce a ciascuno (immigrato o autoctono che sia) il diritto a non dover essere il sosia di altri e a non essere costretto nei limiti dell'omologazione" (Contento et al., 1994: 9). E' proprio in questo senso che i bambini "altri", o con una bella espressione di Canevaro "i bambini che vengono da lontano", sono una risorsa e un arricchimento per tutto il gruppo:

l'uomo non ha soltanto bisogno dell'altro, ma dell'altro differente da sè. Attraverso i rapporti in cui sia dominante l'identità egli rischia di dialogare con altri se stesso; può ricevere molte rassicurazioni, ma gli mancheranno stimolazioni per attivare strategie di cambiamento e ampliare la propria prospettiva esistenziale.

(Contini, 1983: 156)


 

Bibliografia

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Contento, S., Genovese, A. & D. Zorzi 1994. "Il quadro teorico dei progetti". Introduzione a Bendicente et al.

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Lynch, J. 1993. Educazione multiculturale in una società globale. Roma, Armando Editore.

Nanni, A. 1993. "Itinerari, strumenti e metodologie di educazione alla pace", in Balducci, E. et al. Per una pedagogia della pace. Firenze, ECP.

Saville-Troike, M. 1992. "Cultural maintenance and 'vanishing' Englishes" in Kramsch, C. & S. McConnell-Ginet (eds.) Text and context: cross-disciplinary perspectives in language study. Lexington MA, Heath.

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Zuanelli Sonino, E. 1981. La competenza comunicativa. Torino, Boringhieri.

 

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Imparare a parlare in italiano: note pedagogiche

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(pubblicato in in La formazione dei dirigenti scolastici italiani all'estero. IRRSAE- Abruzzo. pp. 19-31).
 

Daniela Zorzi Calò - Università di Bologna
 

0. Imparare a parlare significa essenzialmente imparare a risolvere in tempo reale i problemi che pone l'interlocutore, problemi cognitivi e linguistici, mediandoli con le proprie esigenze di comunicazione. Ciò vuol dire che, per parlare, non è sufficiente avere la frase adatta da dire a un certo momento (anche se, ovviamente, è necessario saper formulare verbalmente il proprio pensiero, indipendentemente dall'interlocutore), ma bisogna percepire il contributo del partner e a questo adeguare ciò che si vuol dire.

Sul piano didattico dunque, si lavora su due livelli: da un lato si esercitano le abilità di produzione, si cerca cioè di mettere in grado lo studente di saper produrre testi comprensibili, curando gli aspetti sistematici (morfosintassi, lessico, pronuncia e intonazione), dall'altro si creano occasioni per  attivare abilità di interazione, cioè la capacità di negoziare con l'interlocutore un prodotto discorsivo mutualmente comprensibile e accettabile. Questo significa ad esempio, rivalutare il ruolo dell' "ascoltatore" rendendolo co-partecipante, dandogli gli strumenti non solo perché possa assentire a quanto gli viene detto, ma anche intervenire con le sue conoscenze sull'argomento, con le sue opinioni o i suoi dubbi nel costruire congiuntamente il discorso.  All'"ascoltatore", inoltre, si deve dare modo di affinare gli strumenti linguistici per prendere a sua volta la parola e condurre il gioco. Tutto ciò, ovviamente  modifica il comportamento del "parlante": non può proseguire con il suo monologo indipendentemente dal contributo del partner, ma deve prenderne atto con commenti o valutazioni fino ad assumere come centrale l'argomento proposto  dal suo interlocutore. Si devono quindi creare condizioni didattiche perché  gli apprendenti siano esposti a un parlato non pianificato, così da risolvere i problemi imprevedibili che man mano si presentano.

In questa sede mi occuperò di come si può sviluppare in classe la capacità di interagire con gli altri a livello discorsivo, cercando di isolare alcune caratteristiche del parlato allo scopo di rendere il concetto "abilità di interazione" utilizzabile sul piano pedagogico. Saranno, quindi, proposte alcune attività fattibili in classe (ovviamente da adeguarsi alle specifiche situazioni didattiche). Per ciascuna saranno rese esplicite le abilità richieste allo studente, le sottocompetenze che vengono sviluppate e le modalità di gestione in classe.
 
 

1. L'abilità di interazione.

Per abilità di interazione intendo, genericamente, la capacità di costruire con l'interlocutore un discorso mutualmente comprensibile e accettabile.

Fra  gli elementi che favoriscono la comprensibilità e, quindi, la comunicazione  interpersonale, ci sono le routines di interazione.  Con questo termine si intendono i modi convenzionali con cui i parlanti segnalano l'andamento della conversazione in atto: si va dai segnali di assenso, alle richieste di chiarimenti, ai diversi modi con cui segnalare accordo o disaccordo con quello che l'altro sta dicendo, fino agli aspetti più tecnici, e di cui si è meno consapevoli: come fare per intervenire in un discorso nel tempo e nel modo opportuno, come interrompere l'interlocutore senza essere scortesi, come coinvolgere il partner o attirarne l'attenzione.

Che implicazioni ha tutto questo per l'insegnamento dell'italiano? Gli insegnanti (e i materiali) sono ormai esperti nel concentrarsi sul lessico, componenete assolutamente indispensabile per trattare un argomento; inoltre sanno lavorare bene sugli aspetti della coerenza semantica e grammaticale, perché il discorso (dal punto di vista di chi lo produce), sia ben articolato a livello di significato e che tali collegamenti siano resi espliciti dagli appropriati nessi sintattici.

E' possibile, anche se più difficile, insegnare gli aspetti formali dell'interazione che marcano l'andamento della conversazione: elementi che indicano l'inizio di un nuovo discorso (ad es. volevo chiederti...; a proposito di x...) o la sua conclusione (siamo a questo punto; allora siamo d'accordo ecc.); modi con cui si riprendono parti del discorso fatto e si segnala la reazione a quanto è stato detto (davvero!, interessante! ecc.). In questo caso sono utili le attività d'ascolto, in quanto possono portare lo studente alla consapevolezza di come i parlanti marcano il passaggio da un argomento all'altro tramite attività che mettono a fuoco, non tanto gli argomenti trattati, quanto i modi con cui si introduce, si mantiene e si conclude un argomento.  Tuttavia questo non è sufficiente in quanto, pur essendo un argomento iniziato da una sola persona, mantenerlo in vita e a volte concluderlo, di norma è un lavoro congiunto degli interlocutori, che, come si diceva cooperano per creare il prodotto finale.
 
Quindi allo studente è utile non solo avere informazioni sull'uso più comune di questi segnali,  ma anche occasioni diversificate d'analisi, mostrare cioè, tramite un ascolto accurato e/o la lettura di trascrizioni di testi orali autentici,  come i partecipanti gestiscono la conversazione, per vedere non solo che cosa dice il singolo parlante, ma anche quando, in relazione a che cosa e che effetto fa il suo contributo all'interlocutore. A queste attività di decodifica, dovranno seguire attività di produzione. Entrambe saranno focalizzate sulla gestione dell'interazione.

Se è abbastanza semplice trovare attività che portano al riconoscimento di questi aspetti è molto più complesso disegnare attività in classe che ricreano le stesse condizioni della conversazione casuale.  Nei manuali didattici si trovano usualmente indicazioni per costruire dialoghi stereotipici: ad es.  compaiono istruzioni del genere: "Invita un tuo compagno a una festa a casa tua/  il tuo compagno accetta e ringrazia" Ogni studente, a questo punto, produce la "sua" frase (Vieni alla mia festa?/ Sì, grazie) recitando un copione. Questo tipo di attività ha (almeno) due limiti, rispetto al parlato reale: innanzi tutto è da ricordare che il significato che un singolo enunciato (o uno scambio di battute)  assume, dipende in larga misura dalla sua posizione nel contesto. Ad esempio la frase "scusa, che cosa vuoi dire?" può essere, a seconda del contesto, una vera richiesta di chiarimenti o un esplicito segnale di disaccordo, (approssimativamente: "secondo me stai dicendo delle sciocchezze"); oppure, per tornare all'esempio della festa, può trattarsi di un invito normale, di un segno di riappacificazione dopo un litigio, di una battuta preliminare ad altre richieste (...allora porta la tua bellissima sorella). In altri termini il valore discorsivo dello scambio è attribuibile soltanto nel contesto allargato dell'incontro. Il secondo limite riguarda l'autonomia della singola battuta del dialogo: come si è già detto, la conversazione non è una produzione autonoma di frasi preconfezionate da parte dei due interlocutori, ma è un lavoro cooperativo con cui si utilizza il contributo imprevedibile del partner per arrivare a un prodotto armonico e fluente.

Per superare questi limiti, è possibile creare anche in classe le condzioni tipiche di reciprocità tipiche dell'interazione: per fare un esempio di reciprocità vediamo che, se uno fa un'affermazione, la reazione più naturale è, non solo commentarla, ma  riprendere l'argomento con esperienze analoghe, a sostegno od eventualmente in opposizione, ma sempre relative al punto proposto dal primo parlante. Tali attività, cioè,  devono essere fatte in modo che i partecipanti trovino ciò che hanno in comune o ciò in cui differiscono.

Le attività che seguono, mirano dunque a sviluppare le capacità interattiva degli studenti, come è stata sopra delineata.

2. Le attività.

2.1. Parlato transazionale e parlato interazionale

Una distinzione molto produttiva per la costruzione di attività finalizzate al parlato spontaneo, è quella fra parlato transazionale,  finalizzato essenzialmente al passaggio di informazione, e quello interazionale finalizzato essenzialmente allo stabilire e mantenere buoni rapporti interpersonali (Brown & Yule, 1983). Nessuno scmbio verbale può definirsi interamente transazionale  o interamente interazionale: anche gli scambi finalizzati per definizione alla richiesta di beni o di servizi hanno molto spesso una componenente interazionale (Aston, 1988; Belton, 1989): questa si manifesta principalmente in segnali di amichevolezzaa, ricorso al racconto personale, scherzi o piccoli racconti. D'altra parte si può vedere una componenete transazionale anche nelle quattro chiacchiere, di fatto si modifica lo stato delle conoscenze reciproche, scambiandosi informazioni anche se questo significa soltanto conoscere un po' meglio una persona. Ovviamente le quattro chiacchiere, che si fanno sempre senza alcuna predeterminazione degli argomenti, sono meno prevedibili di un incontro più rutinizzato, (come chiedere un biglietto del treno alla stazione). Se lo studente deve sviluppare la capacità di partecipare ad una conversazione informale, una componente di non-predicibilità dovrebbe essere presente in varie attività comunicative da fare in classe.

Se si vuole che l'apprendente sappia partecipare a una conversazione, e quindi partecipare ai racconti (di avvenimenti e di esperienze), agli scherzi, agli aneddoti che  caratterizzano l'andamento della conversazione comune, si deve esercitare l'apprendente non solo a raccontare, ma anche a funzionare come un buon ascoltatore: le attività, cioè devono assicurare all'ascoltatore un ruolo fattivo e positivo.

Presentiamo quindi due attività: una prevalentemente interazionale (costituita da un roleplay) e una (costituita da un problema a cui gli studenti devono trovare una soluzione) che richiede in varia misura sia di scambiarsi informazioni, e quindi ha una componente transazionale, sia di saper gestire verbalmente i rapporti interpersonali a fini cooperativi.
 

3. L'autostop.

3.1. La gente che si incontra in treno, per la prima volta, quella che si vede alle feste o alla prima lezione di un nuovo corso, o che si trova per caso con un conoscente  in una situazione  di attesa (dal medico, alla stazione ecc.) tende a condurre un discorso in cui una persona offre il primo argomento, l'altro commenta, riutilizza quanto è già stato detto per andare avanti o cerca un qualsiasi appiglio discorsivo per spostare il discorso e proporne uno che gli interessa maaggiormente. Queste chiacchiere, essenzialmente interazionali, sono caratterizzate, di norma, da un frequente cambio d'argomento e da una grande quantità di segnali d'accordo. Questo veloce avvicendarsi di argomenti in un incontro, in cui l'unica cosa importante è mantenere un positivo rapporto interpersonale, crea al parlante non esperto numerose difficoltà.

Le difficoltà riguardano in particolare la scelta dell'argomento da proporre, il modo con cui mantenere o cambiare il tema proposto, il modo con cui trovare o costruire un terreno comune  (conoscenze, gusti, esperienze: anch'io ho avuto la stessa esperienza; Va a Roma?/ Io ci so stato l'altra settimana ecc.).
Di queste difficoltà anche il parlante nativo è poco cosciente: le definisce situazione imbarazzanti dove "non si sa mai che cosa dire", ma, per lo meno, può contare su su automatiche conoscenze linguistiche: se trova l'argomento, avrà sicuramente anche le parole per parlarne.
Si possono costruire attività cha da un lato portino a livello di coscienza come funzionano questi incontri in cui non c'è nessuna informazione particolare da scambiare  e nessun modello globale e stereotipico al quale fare riferimento, e dall'altro creino in classe l'occasione  per scambi verbali esclusivamente finalizzati a rafforzare i rapporti personali.

L'attività consiste in un roleplay. Con questo termine si intende  una grande varietà di attività che si possono fare in classe: si va dalla recita del dialogo precedentemente letto o scritto, alla recita semilibera, seguendo un canovaccio, alla libera  espressione di pareri personali per negoziare la soluzione di un problemi reali o fittizi. Il role play chiede agli apprendenti di proiettarsi in una situazione immaginaria per attivare se stessi o un personaggio: in certi casi gli studenti hanno delle consegne dettagliate, in altri, si creano da soli un ruolo, fino a mantenere la propria identità. Scopo ultimo del roleplay, come di tutte le attività finalizzate all'espressione orale, è di fare in modo che lo studente si manifesti con la maggiore autonomia e creatività  possibile: la completa naturalezza è probabilmente impossibile in classe, ma avere la percezione di essere coinvolti in attività autentiche è importante per l'apprendente.
Presentiamo quindi un roleplay di tipo libero, vincolato solo dalla scena.

3.2  Procedimento operativo
Livello: studenti di livello intermedio e avanzato
Durata 45-60 m.

Situazione: siamo sulla strada statale fra la località X e la località Y (entrambe note ai partecipanti). Lo studente A è rimasto senza benzina per strada. Ferma la macchina guidata da B e gli chiede un passaggio fino al primo distributore. B lo fa salire.

Compito: Due studenti volontari A e B devono chiacchierare per 8-10 minuti, scegliendo liberamente  gli argomenti.
La conversazione viene registrata.

Altri due studenti (gli osservatori) devono prendere appunti sugli argomenti trattati, segnare quelli che si protraggono per maggior tempo, indicare chi li ha iniziati.

A tutti gli altri studenti viene data una lista dei modi con cui si coopera al buon andamento della conversazione. Accanto alle voci della lista devono man mano indicare se sono attivati da A o da B.

La lista di aspetti discorsivi di cui verificare la presenza comprende (almeno) i seguenti punti:

- annunciare o indicare il proprio scopo all'inizio
- indicare di aver capito
- verificare se l'altro ha capito,
- chiedere all'altro informazioni, chiarimenti, precisazioni  (anche di tipo linguistico)
- chiedere l'opinione dell'altro
- rispondere a richieste di chiarimenti
- cercare un terreno comune (argomenti e punti di vista)
- adattarsi ai punti suggeriti dall'interlocutore
- riassumere per chiarire significati e intenzioni
- indicare incertezza
- chiedere chiarimenti
- esprimere accordo /apprezzamento / riserva

(da: Bygate 1987:34-35)

Al termine della conversazione, gli osservatori riferiscono gli argomenti e gli altri controllano in gruppo se hanno segnato le stesse caratteristiche nel dialogo, cercando di ricordarsi il contesto locale (ad es. su quali punti c'è stato un accordo esplicito), su quali punti sono stati chiesti chiarimenti o maggiori dettagli ecc.

Si riascolta la conversazione e si analizzano le formule usate per introdurre - mantenere - sostenere e allontanarsi dagli argomenti. Se è possibile sarebbe interessante far confrontare agli studenti la loro produzione con un analogo roleplay   preparato fra due nativi. E' sufficiente una registrazione precedentemente preparata - seguendo le stesse indicazioni - fra l'insegnante e un altro italiano.

 Riassumendo le caratteristiche dell'attività, vediamo che:

- lo studente è libero di scegliere l'argomento di cui parlare, diversamente da altre attività di classe in cui è vincolato o all'uso di certe forme, o all'argomento (o testo) proposto daall'insegnante.  Scegliere l'argomento, come si diceva, è una  delle caratteristiche della comunicazione non scolastica.

- lo studente è libero di avere un suo punto di vista  sulla situazione, in un certo senso di essere se stesso: ciò implica, nell'attività appena presentata, che può anche mostrare imbarazzo, fare lunghi silenzi alla ricerca di qualcosa da dire,  avere cioè manifestazioni di disfluenza dovute alla difficoltà dell'interazione, ma non necessariamente ascrivibili  alla sua debole competenza in italiano. Come si diceva precedentemente questi incontri di comunicazione forzata possono essere imbarazzanti anche per molti parlanti nativi.
 
- tutti gli studenti hanno ruoli attivi e complementari anche se diversi: 2 parlano, gli osservatori sviluppano particolarmente  l'ascolto selettivo, o dei contenuti o delle forme (questi ultimi leggono e riconoscono il legame fra  una funzione discorsiva e la sua realizzazione linguistica.

- La produzione verbale degli studenti non è sollecitata per esercitare porzioni di lingua precedentemente appresa, ma anzi è un'occasione per imparare a gestire la conversazione. Inoltre è riutilizzata per una successiva analisi. Diventa oggetto di riflessione, a sua volta materiale didattico da analizzare  per prendere coscienza delle azioni discorsive che si sono compiute.
(Gavioli, 1990)
 

4. Un bacio, uno schiaffo

Si tratta di un problema da risolvere: una situazione "strana" a cui gli studenti devono trovare una spiegazione, dopo aver messo in comune diverse informazioni.

4.1. Procedimento operativo

Studenti: adolescenti e adulti di livello intermedio o avanzato.
Durata: 45-60 m.
 

Procedura: ad ogni studente viene  dato un foglio su cui c'è l'ambientazione e i personaggi della storia e una sola frase della storia seguente.

Scena e personaggi:

Alla fine degli anni '60, in Vietnam, 4 persone sono sedute in treno. Le 4 persone sono: un giovane patriota vietnamita; una vecchia nonna vietnamita; accompagnata dalla giovane e bella nipote, un rude soldato americano.

Frasi della storia:

- Il treno entra in un tunnel
- c'è il suono di un bacio
- tutte e quattro le persone sentono il rumore di uno schiaffo
- all'uscita del tunnel il vietnamita vede che la faccia del  soldato è diventata rossa.
- la ragazza lancia occhiate attonite alla nonna e al soldato
- la nonna dorme in un angolo
- il giovane vietnamita sorride con aria compiaciuta.

Problema: Chi ha dato il bacio e a chi?
                Chi ha dato uno schiaffo e a chi?

La ricostruzione della storia deve essere logica, tener conto di tutti gli elementi, senza contraddizioni.

Regole:

1) tutti gli studenti devono leggere agli altri la loro frase: non la devono mostrare a nessuno e gli ascoltatori NON devono prendere appunti, possono però farsela ripetere più volte e chiedere tutte le spiegazioni che desiderano sul contenuto della frase.

2) le domande relative a problemi lessicali o grammaticali vanno poste SOLO all'insegnnate.

3) l'insegnante non deve organizzare il lavoro di gruppo, nè, tanto meno, intervenire con proposte o suggerimenti.

4) Al termine del tempo a disposizione, gli studenti scrivono la trama della storia e presentano all'insegnante la soluzione che hanno trovato.

Nel caso di classi numerose, si dividono gli studenti in due gruppi con identiche istruzioni. L'attività si conclude quando uno dei due gruppi ha trovato una soluzione. In caso di disaccordo con l'altro gruppo si confrontano e si discutono le diverse soluzioni.
 

4.2. Analisi dell'attività.

E' un'attività complessa, condotta senza il controllo dell'insegnante, che richiede una serie di conoscenze, di capacità e di abilità.
Osserviamo ora in dettaglio quello che succede:

Prima fase: organizzare il gruppo di lavoro

Nella prima fase gli studenti devono decidere come organizzarsi per portare avanti l'attività. Il problema iniziale consiste dunque nella negoziazione dei ruoli e dei rapporti all'interno del gruppo: decidere chi comincia a parlare; vedere se qualche studente assume il ruolo di leader, conducendo le varie operazioni. Si discute la procedura, rileggendo e discutendo le regole e chiedendosi reciprocamente eventuali chiarimenti (bisogna ricordare che non possono essere chiesti all'insegnante chiarimenti sulle modalità di lavoro); ci si accorda, quindi sulla procedura da seguire.

Seconda fase: scambiare informazioni

Seguendo lo schema organizzativo appena definito, ogni studente legge la sua frase: la lettura deve essere chiara, in quanto gli altri studenti devono capire l'informazione dato che tutte le frasi sono essenziali per risolvere il problema. Si può chiedere a chi legge di riformulare il senso della frase con altre parole o di ripetere, anche più volte, la lettura.

Terza fase: negoziare la soluzione

Gli studenti producono e valutano, alla luce dell'intero quadro informativo, ipotesi esplicative. Ciascuno si costruisce un punto di vista sui fatti e lo propone agli altri. Si lavora per raggiungere il consenso: ci deve essere un accordo esplicito sulla soluzione che si è costruita.

Quarta fase: presentazione della soluzione:

Raggiunto un accordo, qualcuno nel gruppo scrive la storia e qualcuno la legge all'insegnante: anche in questo caso ci si deve accordare su chi scrive e su chi legge.

Quali conoscenze sono necessarie per risolvere il problema?
Sono necessarie conoscenze generali di tipo socio-culturale: si richiamano più o meno consapevolmente alla memoria schemi (conoscenze pregresse rutinizzate) sul Vietnam, treno/tunnel, bacio/schiaffo; conoscenze relative alla struttura narrativa: situazione iniziale, evento, determinazione di una nuova situazione, spiegazione dei fatti, conclusioni; conoscenze linguistiche lessico- grammaticali.
L'attività richiede abilità linguistiche specifiche: la lettura a voce alta, con pronuncia sufficientemente accurata da permettere la comprensione; dal punto di vista dell'ascoltatore, richiede attenzione alle ripetizioni e alle catene lessicali, che permettono di ricostruire la storia: in altri termini si sviluppano alcune componenti della competenza testuale, quali l'identificazione di elementi di coesione grammaticale e lessicale.
Sono attivate numerose funzioni linguistiche: chiedere e dare informazioni; fare ipotesi, accettarle e confutarle; esprimere accordo e disaccordo; fare proposte, accettarle e rifiutarle; formulare un'idea, argomentarla e sostenerla; dare istruzioni e segnalare di averle capite.

Considerando l'interazione dal punto di vista della regolazione del rapporto interpersonale, vediamo che sono chiamate in causa  capacità tecniche di gestione della conversazione: passaggio del turno di parola da uno studente all'altro e quindi regolazione dei rapporti all'interno del gruppo (ad es. sollecitare uno studente a partecipare o reprimere chi sta dominando); capacità di intervenire nel discorso in atto ed eventualmente di interrompere; capacità di usare segnali discorsivi che proiettano ciò che si intende dire; ripresa e riutilizzo dei contributi degli altri studenti; formulazione verbale dell'accordo definitivo con eventuale ripetizione di quanto già detto e quindi chiusura dell'incontro verbale.
chiusura dell'incontro verbale. Questa attività è un esempio abbastanza chiaro di lavoro cooperativo, in cui tutti i partecipanti hanno gli stessi diritti e doveri conversazionali e sono accomunati da uno stesso obiettivo (risolvere il problema). Limitando completamente il ruolo dell'insegnante, si ottiene che la lingua italiana sia usata in maniera autentica anche per funzioni regolative, normalmente di pertinenza dell'insegnante.
 

5. Conclusioni.

Le attività che abbiamo presentato, non solo mettono in atto un'interazione verbale fra i partecipanti, finalizzata a uno scopo di comunicazione, ma si pongono  come occasione di riflessione sulle strategie discorsive impiegate: integrano cioè le attività di decodifica e le attività di produzione di cui si accennava all'inizio.
Sono, inoltre, un' occasione per attivare funzioni e modalità discorsive che non sono tipiche della comunicazione in classe: ad esempio viene assegnata agli studenti una funzione organizzativa e regolativa, tradizionalmente propria dell'insegnante, e, sul piano del discorso è lasciata agli studenti la responsabilità di prendere iniziative verbali (rispetto alla prassi tradizionalmente consolidata per cui allo studente compete rispondere o reagire agli stimoli dell'insegnante o del testo). Mettono, inoltre, in evidenza, come il parlato interazionale non sia soltanto un modo per facilitare lo scambio di informazioni, creando un  rapporto di cortesia fra le persone, ma sia uno strumento primario per stabilire relazioni interpersonali non di tipo utilitaristico.
 
 

Bibliografia

Aston, G. 1988. Negotiating service: studies in the discourse of bookshop encounters, Bologna, CLUEB

Belton, A. 1988 "Lexical naturalness in native- non native discourse. "English Language Research Journal" 2.

Breen, M.P. 1985. "Authenticity in the language classroom", Applied Linguistics 6/1.

Brown G. & G.Yule 1983. Teaching the spoken language, Cambridge, C.U.P.

Bygate, M. 1987  Speaking, Oxford, O.U.P.

Gavioli, L. 1990 "Il testo parlato: spunti di analisi e di osservazione", Laboratorio degli studi linguistici 1990, Università degli Studi di Camerino.

Widdowson, H. 1990. Aspects of language teaching, Oxford, O.U.P.

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Contributi dell'analisi della conversazione all'insegnamento dell'italiano L2

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pubblicato nel 1996 in Atti del III convegno ILSA, a cura di M. Maggini e M. Salvaderi. Comune di Firenze. pp.11-39

Daniela Zorzi - Università di Bologna

Ogni discorso sull'insegnamento delle lingue presuppone un punto di vista (se non una teoria) sull'apprendimento e una concezione del linguaggio. In questa sede assumo un punto di vista interazionale, intendendo con questo termine il fatto che la comunicazione linguistica interpersonale non consiste in uno scambio di messaggi pre-costituti nella mente dei singoli, ma è il prodotto di collaborazione e di negoziazione fra i partecipanti: questi, tramite l'interazione, costruiscono un "mondo" comune che consente di interpretare ciò che si sta dicendo. Uno degli approcci teorici che aiuta a chiarire come si costruisce questo mondo condiviso, sia sul piano dell'informazione sia su quello della relazione, è l'Analisi della Conversazione (AC): descrive il discorso orale, con prevalente, ma non esclusiva attenzione al discorso dialogico, osservando nei dettagli il "come" e il "quando" la gente dice "che cosa". E' un approccio di tipo sociologico, che tenta di spiegare come si costruiscono le relazioni sociali, partendo da come si costruisce l'interazione verbale. Non nasce quindi con intenti didattici (in generale come tutte le teorie linguistiche), ma i suoi contributi possono essere rilevanti nell'apprendimento /insegnamento delle lingue.

1. Che cos'è l'Analisi della Conversazione.

Come si diceva, lo scopo centrale delle ricerche analitiche conversazionali è descrivere e spiegare le competenze che i parlanti comuni usano e a cui fanno riferimento quando partecipano a un'interazione socialmente organizzata: cercano di identificare gli aspetti sistematicamente ordinati del parlato e di capire in che modo, cioè attraverso quali procedure, quest'ordine è raggiunto, apprezzato e usato, nel corso dell'interazione, dai parlanti stessi.

1.1 I dati.
   
Questi studi si basano su conversazioni reali, registrate e trascritte: i dati sono essenziali per la descrizione, in quanto è sulla base delle ricorrenze sistematiche e osservabili di certi fenomeni, che si formulano le ipotesi per la costruzione del sistema conversazionale. Gli analisti della conversazione, osservando i dati, adottano la prospettiva del partecipante: ciò significa che, anche disponendo della trascrizioni di un intero incontro, non usano le conoscenze basate su ciò che segue per interpretare ciò che precede: ciò consente di prestare attenzione allo sviluppo del processo discorsivo, più che alla conversazione già conclusa, vista come un prodotto statico, da analizzare post-hoc.
    I dati sono trascritti in modo tale da evidenziare molti tratti del discorso orale: pause, interruzioni, parlato simultaneo, false partenze, risate, segnali apparentemente vuoti (ad esempio elementi privi di contenuto proposizionale, come ehm, ah, uh):

la trascrizione di una interazione rappresenta il tentativo di rendere in forma scritta e lineare quei dettagli dell'interazione che permettono successive analisi di un qualche tipo. Ovviamente la scelta di particolari convenzioni di trascrizione diventa un fatto importante, in quanto queste danno i dettagli che sono resi visibili dalla trascrizione, specialmente per chi non ha avuto accesso alla registrazione originale.

(Psathas & Anderson, 1990:77).

1.2 La conversazione spontanea.
   
I primi studi (indicativamente dai primi anni '70 alla metà degli anni '80) si sono occupati quasi esclusivamente della conversazione spontanea, non strutturata e non soggetta a vincoli istituzionali, allo scopo di descrivere i tratti generali (se non universali)  che permettono a due o più interagenti di costruire un prodotto ordinato, al di là dell'apparente casualità del discorso. Si è studiato, ad esempio, i modi con cui i parlanti si alternano nella conversazione turno dopo turno e quali regole tacite osservano per non interrompersi o per non creare silenzi e disfluenze (Sacks et al 1974); si è notato come la conversazione proceda per quelle che sono state definite "coppie adiacenti", in cui la prima parte rende rilevanti solo pochissime mosse alternative: ad esempio una domanda richiede una risposta, ai saluti si risponda con saluti, a un invito segue o un'accettazione o un rifiuto. Ovviamente la situazione può essere più articolata: a un invito (vieni a casa mia stasera?) può seguire una sequenza di chiarimento (a che ora? /verso le 8), ma l'invito rende comunque rilevante la risposta al termine della sequenza di chiarimento. Quando la seconda parte manca, l'assenza viene notata e a questa si attribuiscono significati. Ad esempio se, un conoscente incontrato per strada non risponde ai miei saluti, posso pensare che sia maleducato o distratto, che gli sono antipatico o che non mi ha riconosciuto: qualsiasi inferenza io tragga, comunque, rileva un comportamento "a-normale". Riferirsi, per lo più inconsapevolmente, a una cosiddetta norma richiede che, quando questa è violata, sia fatto un successivo lavoro rimediale per ristabilirla. Ad esempio, in un incontro successivo potrebbe comparire uno scambio di questo tipo: "A: ti ho incontrato l'altro giorno, ti ho salutato, ma tu non mi hai neanche risposto! / B: scusami, non ti ho proprio visto"; mentre sarebbe irragionevole una battuta del tipo: "A: ti ho incontrato l'altro giorno, ti ho salutato, e tu mi hai risposto!". Questo esempio, al di là della sua banalità (ma è attraverso queste "banalità" della vita quotidiana che si costruisce un ordine sociale) mostra come certi corsi di azione siano tanto prevedibili da non richiedere commenti o altro lavoro discorsivo. Sulla base di questo principio, è possibile ipotizzare dei criteri di predicibilità non soltanto del turno immediatamente successivo, ma anche dello sviluppo di intere sequenze della conversazione. Ad esempio, nelle conversazioni informali, il racconto di una piccola disavventura quotidiana, è seguito da commenti di solidarietà e di conforto o da racconti analoghi da parte degli altri partecipanti all'incontro: è cioè predicibile che certe azioni rendono rilevanti certi comportamenti e non altri. Queste azioni sono definite, nella terminologia dell'AC "preferite" in quanto non marcate e percepite come più consuete nella comunità parlante. Naturalmente il singolo può distaccarsi da questa norma di comportamento: può tacere, cambiare discorso o esprimere apertis verbis il proprio disinteresse al racconto: questo comportamento viene definito "dispreferito", in quanto percepito come meno consueto e che quindi richiede, per mantenere accordo e sintonia, scuse o  giustificazioni, cioè mosse rimediali che "correggano" la deviazione dalla norma.

1.3 Il parlato in contesti istituzionali.
   
Come si diceva, i primi studi dell'AC hanno considerato in modo particolare la conversazione comune, informale, non strutturata, cioè quella in cui tutti i parlanti hanno lo stesso tempo a disposizione e gli stessi diritti di proporre un discorso, cambiare argomento, esprimere la propria opinione, ecc., incontri, cioè, in cui le relazioni fra i parlanti sono paritarie e simmetriche. Il parlato conversazionale è stato visto "sia come il luogo primario della socializzazione, sia come una precondizione, e allo stesso tempo un risultato, della vita sociale organizzata" (Schegloff 1992:1296). In un secondo tempo l'AC ha cominciato a descrivere le interazioni in cui certi parametri (ad esempio il tempo a disposizione, il diritto di fare domande, il dovere di dare certe risposte, la possibilità di decidere l'argomento di conversazione), sono distribuiti in maniera non casuale ma pre-determinata. Si è occupata quindi di interazione in contesti istituzionali: colloqui medico-paziente; interazione in classe, interrogatori in tribunale, interviste giornalistiche, colloqui di lavoro, incontri in strutture di pubblico servizio. Spesso tali ricerche sono originate dal fine "pratico" di migliorare l'efficacia e la accettabilità degli incontri istituzionali: ad esempio sono stati fatti studi sui meccanismi delle interviste agli uffici di collocamento per vedere se o come venivano discriminate certe categorie sociali o etniche a favore di altre; oppure le analisi condotte sull'interazione in classe hanno cercato di capire se o come la qualità dell'interazione insegnante/studente e studente/studente incideva sull'apprendimento degli allievi.Da un punto di vista teorico, queste ricerche sono partite dall'assunto che non era il contesto dato a priori (ad esempio un'interrogazione in classe) a determinare certi comportamenti discorsivi, ma che erano i partecipanti stessi, attraverso le loro azioni, a creare il contesto. In altri termini

l'analisi conversazionale non accetta l'idea di un contesto come precostituito rispetto all'interazione, composto di fattori come sesso, età, status sociale di partecipanti che determinano l'andamento dell'interazione, ma sostiene una visione flessibile e riflessiva del contesto. Non è il contesto a predeterminare l'interazione ma è questa che lo modella, lo plasma; anzi più esattamente sono i membri che momento per momento lo costituiscono, creano con le loro azioni il contesto.

(Orletti 1994b:70).


Il punto messo in rilievo dall'AC è che uno stesso "evento", poniamo un'interrogazione, può essere condotto in modi diversi, lasciando, ad esempio soddisfatti o frustrati i partecipanti, che turno dopo turno, possono dire e fare le cose "sbagliate", o al contrario, creare con l'interlocutore un rapporto facile e collaborativo. I partecipanti, cioè, anche all'interno delle regole che costituiscono l'evento (nel nostro esempio è l'insegnante che deve interrogare e lo studente che deve rispondere) possono localmente creare contesti diversi: trasformare l'interrogazione in un interrogatorio di terzo grado, o in una piacevole conversazione o, ancora, in un'esibizione del sapere dell'insegnante.
    Per fare un esempio, osserviamo un frammento di interazione in classe. E' tratto dal corpus del LIP, Lessico di Frequenza dell'Italiano Parlato,  (De Mauro et al 1993). Leggendo l'inizio della trascrizione di un'interrogazione di geografia alla scuola Media, si ha l'impressione che l'insegnante sia particolarmente direttiva e impositiva. Vediamo se questo giudizio intuitivo può essere sostenuto dall'analisi:

1     A:     allora vediamo un attimino oggi eh Roberto eh comincia un attimino te per cortesia a farci la presentazione di uno degli stati europei che abbiamo studiato quest'anno # quale
2     B:    Scandinavia
3     A:    preferisci_ raccontare? la Scandinavia bene sappiamo sempre di dover seguire che cosa? uno schema che voi stessi avete eh formulato allora come cominciamo a presentare questa nazione
4     B:     la Scandinavia e'_ prevalentemente
5     A:                        vai vicino alla carta geografica e fammi vedere un attimino allora come si presenta di solito una regione?

L'interrogazione è (o dovrebbe essere) costruita attraverso domande e risposte. Come si diceva, sulla base delle coppie adiacenti, una domanda rende immediatamente rilevante una risposta. Alla domanda al turno 1 lo studente risponde (Scandinavia). L'insegnante al turno 3 formula un'altra domanda (preferisci raccontare?) e senza dare il tempo di rispondere (non c'è nessuna pausa dopo la domanda) accetta l'argomento proposto precedentemente dallo studente e fa una domanda sulla metodologia dell'esposizione. Anche a questa domanda non lascia il tempo di rispondere e propone lei stessa lo schema di presentazione. Chiude questa fase del discorso (segnalato da "allora" che marca il passaggio da un argomento all'altro) e sollecita lo studente a esporre il suo argomento. Questi inizia la presentazione, ma dopo quattro parole è interrotto dall'insegnante che - senza scusarsi dell'interruzione - dà altre istruzioni; ancora una volta l'insegnante non aspetta la risposta e ripete la domanda alla quale lo studente aveva più volte tentato di rispondere.
    Un'analisi di questo genere ci mostra che l'insegnante appare "sgradevole", perchè ha sistematicamente violato la "norma" dell'interrogazione (oltre che le norme della conversazione comune): ha fatto una domanda e non ha aspettato la risposta, ha sollecitato una risposta che lui stesso aveva impedito di produrre, ha interrotto la risposta (mossa dispreferita), con altri ordini. E' un buon esempio, inoltre, di come l'interrogazione non sia solo un costrutto aprioristico al quale entrambi i partecipanti fanno riferimento, ma sia una cornice all'interno della quale, localmente, azione dopo azione, vengono rinegoziati o confermati i ruoli dei partecipanti.

2. Analisi della Conversazione e didattica delle lingue straniere.

La rilevanza dell'AC per la didattica delle lingue straniere riguarda aspetti diversi, sia sul piano dei contenuti, sia su quello metodologico. Innanzi tutto l'analisi ci fornisce una serie di indicazioni (che altri approcci descrittivi trascurano) su che cosa osservare in una trascrizione di un testo parlato, in particolare analizza "quello che si fa" in un conversazione, prestando attenzione sia ai "dettagli", sia al "quando", cioè alla posizione degli enunciati nella sequenza del discorso e alla posizione della sequenza all'interno dell'incontro.

2.1. Il "quando".
   
Il significato di un enunciato dipende anche dalla sua posizione nel discorso. L'importanza del quando o dove si dice qualche cosa è stata trascurata dagli approcci pedagogici, non solo a base grammaticale o strutturale, ma anche da quelli a base funzionale.
Questi, come è noto, organizzano il syllabus per concetti o nozioni (spazio, tempo, relazione ecc.) e per funzioni (chiedere e dare informazioni, esprimere dubbio, accordo, piacere, dispiacere, ecc.) cercando di fornire ai discenti gli strumenti linguistici per realizzare le proprie intenzioni comunicative.
    Attraverso un esempio inventato cerchiamo di chiarire l'importanza del "quando". Un'affermazione come "carino", analizzata a livello semantico suggerisce un significato positivo, analizzata in termini di azione linguistica suggerisce "apprezzamento". Osserviamola ora inserita in due sequenze diverse:

A e B stanno uscendo dal cinema e commentano il film:

         A: Stupendo! un vero capolavoro!
         B: Carino.

         A: Bellino, vero?
         B: Carino.

 Se consideriamo l'espressione di B (carino) in relazione a quello che ha detto A, notiamo che nel primo caso è un apprezzamento limitato, e in parziale disaccordo con l'opinione di A; nel secondo è un apprezzamento in accordo con A. Vediamo come potrebbero proseguire gli incontri:
         A: Stupendo! un vero capolavoro!
         B: Carino.
         A: Non ti ha entusiasmato, vero?

         B: Bellino, vero?
         B: Carino.
         A: Si vede proprio volentieri.

Nel primo caso, dopo l'enunciato "Carino" inizia una sequenza per chiarire il disaccordo d'opinioni, nel secondo caso c'è una ratifica esplicita dell'accordo che si è manifestato. In altri termini l'enunciato "Carino" ha valore diverso a secondo della posizione nella sequenza e rende rilevanti azioni diverse.

2.2. Le fasi dell'incontro e i "dettagli".
   
Come si diceva, l'AC pone  attenzione ai dettagli, fornendo informazioni sull'interazione verbale rilevanti per la comprensione e per la produzione del discorso orale.  Numerosi sono ormai i tratti conversazionali studiati anche per l'italiano: ad esempio dove compaiono e che funzioni hanno le ripetizioni (Bazzanella 1994a) o i segnali discorsivi, come ah be' praticamente, allora (Contento 1994, Bazzanella 1994a,b; Zorzi1996b), come funzionano le interruzioni (Zorzi 1990, Bazzanella 1994a); come si aprono e si chiudono gli incontri (Aston 1995b, 1995a); come ci si corregge dopo aver fatto un errore e come si reagice quando si viene corretti (Testa 1991,  Zorzi 1996a); come si reagisce davanti ad azioni dipreferite (Zorzi et al 1990, Gavioli 1995). Alcune di queste informazioni cominciano a comparire in qualche materiale per l'insegnamento dell'Italiano L2. Possiamo distinguere due modi in cui i questi elementi hanno una collocazione nella didattica: da un lato abbiamo liste di funzioni (ad es. "segnalare dubbio o incredulità") che possono essere attivate tramite varie forme (ad es. segnali discorsivi quali forse, veramente, però; o ripetizioni, con intonazione dubitativa, del segmento su cui si hanno perplessità); dall'altro liste di forme, ciascuna delle quali può attivare una serie di funzioni. Nel primo caso, il fuoco è sullo sviluppo della capacità di conversare del discente, intendendo per capacità di conversare una serie di abilità: mantenere il discorso, cedere il turno, coinvolgere interlocuori, esitare, segnalare il desiderio di intervenire ecc. Nel secondo caso, il fuoco è sui singoli elementi (ad esempio liste di segnali discorsivi, formule di cortesia, o saluti) di cui si riconosce il contributo alla significatività del discorso, e che quindi vengono presentati ai discenti, affiancati da una serie di significati possibili.

2.3. Osservare una trascrizione.
   
Per vedere la rilevanza dei dettagli e della posizione degli enunciati, analizziamo la trascrizione di una telefonata tratta dal LIP, notando come alcuni dei tratti sopraelencati siano assolutamente determinanti per capire come i due interlocutori negoziano le informazioni e il rapporto interpersonale.
    Questa è la situzione: B, un idraulico, telefona a casa di A, per scusarsi di non essere andato a fare un lavoro che aveva promesso di fare. A gli dice che hanno già chiamato un altro idraulico e spiega perchè.
1     A:     si'?
2     B:     buonasera sono XYZ chi e'?
3     A:     eh sono XYZ il figlio
4     B:     ciao_ eh c'e' papa'?
5     A:     no papa' non c'e'
6     B:     senti_ io dovevo dir<gli> io ho provato a chiamare l'altro ieri ma un sacco de vorte ma il telefono non funzionava
7     A:     ah ho capito ma_ era occupato che e' successo?
8     B:     no perche' dovevo avvisare_ papa' per quel lavoro che dovevo venire a f<are> che doveva venire quel collega che poi non e'venuto
9     A:     ahah infatti
10   B:     sia per scusarmi e sia per dije che venivamo domani oramai
11   A:     e no pero' ?s? purtroppo c'era <?> aveva iniziato a gocciolare giu'
12   B:     ahah beh?
13   A:     e allora abbiamo dovuto chiamare un'altra persona
14   B:     che e' successo?
15   A:     niente era il tubo dell'acqua calda l'entrata dell'acqua calda praticamente dal bide'
16   B:     dal bide'_?
17   A:     ahah si' aveva iniziato a gocciare e mia zia era preoccupata e'venuta su allora abbiamo deciso di chiamare un'altra persona
18   B:     ho capi<to> hanno hanno fatto un buco che hanno fatto?
19   A:     eh hanno levato la mattonella la mattonella sopra il bide' e per fortuna era proprio quello li'
20   B:     ahah si' e' quello che avevo detto io pure a papa' dico qui c'e'da leva' sta mattonella insomma
21   A:     si' era quello li'
22   B:     senti mi fai chiamare stasera da papa' per piacere?
23   A:     va bene
24   B:     eh?
25   A:     okay glielo dico
26   B:     ecco eh anche per chiedeje scusa perche' io d' altra parte so' stato fuori XYZ_ invece non e' potuto venire e no<n> e non ha potuto neanche avvisare capito?
27   A:     ho capito va bene
28   B:     va bene_?
29   A:     va benissimo
30   B:     ti ringrazio e ti chiedo scusa ancora
31   A:     niente arrivederci
32   B:     ciao

 

Osservando l'incontro nel suo sviluppo, dopo la sequenza d'apertura (1-5), B, prima di esporre la ragione della telefonata inizia un turno di scuse (6), che si configurano come "colpa di qualcun altro", nello specifico il telefono non funziona. Questa affermazione rende rilevante una mossa di accettazione (come in questo caso: sì il telefono era occupato) da parte dell'interlocutore.  Questi sollecita la ragione della telefonata e l'idraulico prima parla del lavoro che lui stesso doveva venire a fare, poi si autocorregge e "accusa" il collega "che non era venuto". A. accetta con un "infatti" la definizione della situazione proposta da B. Ciò rende rilevante una proposta da parte dell'idraulico: "veniamo domani". Come si accennava precedentemente la seconda parte preferita di una proposta è l'accettazione. In questo caso però A non può ccettare la proposta in quanto hanno chiamato un altro idraulico. Rifiutare una proposta è una mossa dipreferita e richiede un lungo lavoro rimediale. Il turno di A (11)è costellato da difluenze ("e" iniziale, marche di incertezza come una falsa partenza "-s-", una seconda falsa partenza (c'era, aveva cominciato ... purtroppo) segnali che preparano l'informazione negativa. L'idraulico la sollecita in maniera esplicita, nonostante il "no" al turno 11 (ahah beh?) e A comunica che hanno chiamato qualcun altro. A questo punto inizia una lunga sequenza sul problema tecnico (14-21) in cui l'idraulico fa sfoggio di tutta la sua competenza: la sequenza si conclude con l'accordo esplicito di A sull'interpretazione che B aveva dato del problema.
    Con questa sequenza di azioni, i due interlocutori non solo si sono scambiati le informazioni essenziali per risolvere il problma pratico, ma hanno lavorato sistematicamente per mantenere la faccia (l'idraulico non è venuto, ma è competente; A. ha chiamato un altro, però il poblema era drammatico ed era proprio quello identificato dall'idraulico): si è arrivati a questa affermazione, attraverso un'analisi dei dettagli: tempi, pause, ripetizioni (elementi - ripetiamo - che segnalano all'interlocutore come deve essere interpretatato l'enunciato), analisi che ha mostrato come tutta la conversazione si sia svolta "secondo le regole": le domande hanno avuto risposta, sulle affermazioni c'è stato accordo, le azioni dispreferite (ad esempio rifiutare una proposta) sono state rimediate.
    Inoltre la sezione di chiusura è molto articolata, si protrae, infatti per 10 turni, riflettendo, nella sua complessità,la problematicità dell'incontro:

Le conclusioni di una telefonata e di tipi analoghi di conversazione sono una faccenda delicata, sia dal punto di vista tecnico, (nel senso che devono essere formulate in modo tale che nessuno dei partecipanti si senta costretto a porre termine alla conversazione quando ha ancora cose urgenti da dire) sia dal punto di vista sociale (nel senso che conclusioni troppo frettolose o troppo lente possono dar adito ad inferenze spiacevoli sulle relazioni sociali fra i partecipanti).

(Levinson 1983, 1985:393)

Nelle telefonate non conflittuali, si sono identificate (Levinson 1983) quattro fasi che costituicono la conclusione della telefonata: un argomento i chiusura (accordi; ripresa dell'argomento principale della conversazione, saluti alla famiglia ecc.); una o più coppie di turni di passaggio (va bene, d'accordo ecc.); un'eventuale personalizzazione della chiamata (ad esempio scuse o ringraziamenti, seguiti da altri elementi che precedono la chiusura dell'incontro); uno scambio finale di elementi terminali. Nel nostro esempio compaiono tutte le sezioni: l'argomento di chiusura è dato dalle scuse, accettate da A, per il mancato servizio (26 - 27), seguono i turni di passaggio (28 -29) per segnalare un accordo generico; c'è quindi una personalizzazione della chiamata (30), in cui l'idraulico ribadisce le proprie scuse, accettate con "niente", mossa preferita per minimizzare una "colpa", quindi uno scambio finale di elementi (31 -32).

2.5 Implicazioni didattiche.
   
In che modo un'analisi del genere è rilevante per la didattica? Dal punto di vista dei contenuti, perché fornisce informazioni sull'uso linguistico non altrimenti accessibili per lo studente; dal punto di vista della metodologia perché, sottolineando il lavoro congiunto dei partecipanti all'interazione, consente delle attività che mirano a sviluppare una competenza procedurale nell'allievo,
    Solo conoscendo le caratteristiche della comunicazione reale, si può aiutare lo studente ad usare la lingua in modo adeguato ai diversi contesti. Normalmente lo studente non ha accesso alle trascrizioni di dialoghi reali, sia per l'ovvia difficoltà di registrare e di trascrivere gli incontri, sia perché può mancare la strumentazione teorica per rendere fruibili,a livello pedagogico, testi che appaiono confusi e "difficili", appesantiti dai tratti propri dell'oralità. Inoltre i dialoghi che compaiono nei libri di testo sono scelti (se non adattati o costruiti) in quanto "esempi" di qualcosa (di come ci si saluta, di come si chiedono informazioni, di come si può parlare di politica o di come si può descrivere un appartamento o raccontare una vacanza). Sono cioè testi orali presentati come modello di un possibile comportamento linguistico in un contesto dato a priori. L'artificiosità  di certi dialoghi è comune percezione di ogni insegnante di lingua: parecchi studiosi, quindi, hanno cominciato a utilizzare le interazioni della vita quotidiana come base di confronto con i dialoghi dei libri di testo (Thomas 1984; Scotton e Bernstein 1988; Price 1995). Anche considerando dialoghi non precedentemente scritti (improvvisati, o registrati nella vita reale), ma selezionati a scopo didattico, hanno sistematicamente rilevato differenze: "le interazioni reali faccia a faccia e le interazioni telefoniche contengono più parole e più turni  di quelle contenute nei dialoghi e nei libri di testo" (Price 1995:71). Inoltre nei dialoghi dei testi compaiono frequentemente forme, che sono più rare nelle conversazioni reali: e ciò allo scopo di presentare allo studente un'ampia gamma delle potenzialità della lingua, senza tener conto che:

presentando allo studente l'intera serie di possibilità strutturali della lingua d'arrivo, o la lingua come potrebbe essere, impediamo allo studente di cogliere la lingua come essa veramente è.

(Di Vito 1991:339)


Commentando i dialoghi dei libri di testo Argondizzo pone una serie di domande molto precise:
        - attraverso l'input linguistico riusciamo a insegnare quelle convenzioni tipiche  di conversazione e del parlato che sovente e spontaneamente vengono utilizzate durante l'interazione verbale naturale?
        - la lingua presentata attraverso i dialoghi rispecchia modi di dire ed espressioni tipiche della conversazione naturale?
        - o, al contrario, proponiamo dialoghi che presentano la lingua come un oggetto verbale perfettamente confezionato e spesso basato su forme stereotipe del linguaggio?
        - l'input socioculturale che i dialoghi dovrebbero fornire amplia le conoscenze dei ragazzi verso altri modelli di interazione conversativa, rendendoli consapevoli che esistono varie e diverse modalità di conversazione rapportate alla realtà socioculturale della lingua parlata?
                                                                                                                                    (Argondizzo 1995:82)

La sua risposta è che la distanza fra i dialoghi dei testi e la conversazione reale è tale da rendere necessario, sul piano della didattica quotidiana, integrare i materiali con attività che rendano gli studenti consapevoli della differenza. L'AC indica alcuni modi con cui ci si può accostare a un testo orale. Innanzi tutto la conversazione non è presentata come un modello da imitare. Come si è visto dall'analisi nel paragrafo precedente una semplice telefonata di servizio, diventa un problema di negoziazione di rapporti personali e di identità professionale. Assumendo, dunque che i partecipanti si adeguano l'uno all'altro per gestire localmente, turno dopo turno sia il rapporto che l'informazione, il concetto di "conversazione modello" viene fortemente indebolito. Ciò non vuol dire che allo studente non si devono presentare conversazioni fra due parlanti nativi o fra un parlante nativo e uno non-nativo (situazione, per definizione più vicina a quella del nostro apprendente): lo studente deve essere abituato a vedere come i partecipanti si adattano l'uno all'altro, quali procedure attivano per arrivare a una reciproca comprensione. Ciò può essere molto utile, non per capire quella specifica conversazione, nè tantomeno per riprodurla, quanto per sviluppare la capacità;  di risolvere i problemi di comprensione e di adeguamento discorsivo che si porranno nelle infinite e imprevedibili interazioni che dovrà sostenere. In altri termini, nessuna telefonata a un idraulico sarà uguale, e probabilmente neanche simile a quella che si è precedentemente analizzata: potranno essere, invece, ricorrenti i problemi di salvaguardare la faccia propria e quella altrui, trovando un accordo conclusivo.

2.6. Il punto di vista contrastivo.
   
Gli esempi precedenti sottolineavano l'importanza per lo studente di essere esposto a reali interazioni, attraverso le quali diventare consapevole delle norme discorsive della lingua che sta studiando. Ugualmente può essergli utile riflettere sia sui meccanismi conversazionali della propria lingua, sia essere guidato a confrontare la propria lingua madre con l'italiano. Ad esempio esistono studi sistematici che confrontano incontri italiani e inglesi.
    Le analisi condotte finora sulla struttura della conversazione nelle due lingue, mettono in evidenza differenze di due diversi ordini: uno essenzialmente strutturale, che mostra  quali meccanismi vengono messi in atto nelle due lingue, per risolvere lo stesso problema conversazionale: ed uno maggiormente legato ai contenuti, che vede sistematiche differenze nel che cosa si dice, quale argomento viene utilizzato per risolvere lo stesso problema.
    Una delle più importanti differenze strutturali - a livello di interazione - fra l'italiano e l'inglese, sta nel fatto che la risposta dispreferita in italiano è data immediatamente, con un "NO", all'inizio del turno, che suona maleducato o aggressivo per il parlante anglofono. Il parlante anglofono, da parte sua, prima di produrre una parte dispreferita, la prepara con suoni incerti, riempitivi, quali "well", "ehm" ecc. che, al parlante italofono, suonano con marche di incertezza, o per rimanere nello stereotipo, di "ipocrisia", verbalizzabile in "la risposta è "NO", ma non me lo vuol dire". Questo fatto, oltre a una serie di conseguenze sulla struttura globale degli incontri, porta l'interlocutore dell'altra cultura a trarre inferenze negative: per lo studente diventa quindi importante, in previsione di incontri reali, sapere che, se applica il proprio comportamento discorsivo - di cui può non essere consapevole - può essere malinterpretato.

2.7 Tecniche d'osservazione.
   
Osservare le procedure che i parlanti attuano per raggiungere una reciproca comprensione è produttiva per lo studente, in quanto l'aiuta a diventare consapevole delle convenzioni discorsive che regolano il comportamento quotidiano, sia nella propria lingua, sia in quella d'arrivo. L'osservazione, comunque, da un lato fa sì che lo studente abbia informazioni su certe manifestazioni linguistiche, dall'altro mostra come tali informazioni possano essere utilizzate in maniera appropriata durante l'interazione col mondo extrascolastico. L'osservazione, quindi, deve essere propedeutica di attività di comunicazione. Riassumo, a titolo d'esempio, una proposta didattica (elaborata da Argondizzo 1995: 98-99) su come far lavorare gli studenti sulle strategie di esitazione tanto frequenti nel parlato spontaneo. L'insegnante fa analizzare varie trascrizioni, e fa notare gli elementi verbali che indicano esitazione. Li scrive quindi sulla lavagna: mmmm, ehm, ma, allora, non so, forse, praticamente, laaaa (articolo con allungamento della finale), cioè. Dà quindi indicazione agli studenti di pensare a un un breve raccontino da fare alla classe, qualcosa che è successo, una notizia letta o altro, comunque un argomento scelto da loro. Durante il discorso non potranno né interrompersi, né restare in silenzio mentre pensano: dovranno invece utilizzare le strategie di esitazione segnate sulla lavagna.

In questa sede, comunque, mi limito proporre diverse modalità d'osservazione, senza entrare nell'ambito di attività comunicazione più complesse. L'osservazione delle procedure può essere gestita in classe in vari modi: attraverso il confronto fra la produzione simulata dello studente e un testo prodotto in situazioni reali; attraverso un lavoro di riflessione, guidato, ad esempio da domande di comprensione per un testo trascritto; attraverso la comparazione fra l'organizzazione della conversazione nella lingua madre dello studente e in italiano. A titolo d'esempio si propongono alcuni suggerimenti pratici, facendo riferimento agli incontri reali precedentemente citati.

1) confronto fra la produzione simulata dello studente e una trascrizione di un incontro reale.
        L'insegnante organizza un role-play per gruppi di tre persone: B fa l'idraulico, A il cliente, C registra e osserva l'interazione fra A e B. L'insegnante dà la situazione: B, un idraulico, telefona a casa di A, per scusarsi di non essere andato a fare un lavoro che aveva promesso di fare. A gli dice che hanno già chiamato un altro idraulico e spiega perché.
        La registrazione del dialogo fra gli studenti viene quindi confrontata con la trascrizione del dialogo autentico, e si analizzano le strategie che sono state usate. E' molto probabile, che l'attenzione degli studenti si concentri maggiormente sullo scambio di informazioni (qual'era il problema, perché l'idraulico non è venuto ecc.), perché essendo una situazione simulata, il problema di salvarsi la faccia (come "bravo" idraulico e "bravo cliente") passa in secondo ordine. In questo caso il confronto con la nostra trascrizione è significativo, perché mette in rilievo che, nella vita reale, diversamente che nei dialoghi didattici, molto lavoro discorsivo è finalizzato a stabilire e mantenere buone relazioni personali, più che a scambiarsi informazione (Aston, 1988).

2) domande di comprensione sul "non detto".
        Queste domande non riguardano le informazioni che vengono scambiate dai partecipanti a un incontro, ma piuttosto sono una traccia perché lo studente osservi il modo con cui viene gestito l'incontro. Ad esempio l'insegnante dà gli studenti la trascrizione dell'interrogazione di geografia e chiede di rispondere alla domanda "Perché l'insegnante sembra impositivo e poco simpatico?". Per rispondere invita ad osservare l'alternanza delle domande e delle risposte, il tempo che concede dopo una domanda, e il numero delle domande che pone.

3) confronto fra interazioni nella lingua madre degli studenti e fra italiani.
L'insegnante propone un role-play e fa lavorare a coppie gli studenti della stessa lingua madre. Questa è la situazione: A fa l'insegnante e B lo studente. A ha prestato a B il registratore della scuola. B l'ha rotto e deve dirlo all'insegnante.
La simulazione viene registrata e trascritta: si analizzano quindi le formule di scusa usate da B, (che cosa dice e quando), i probabili segnali di imbarazzo, il modo con cui B propone azioni rimediali al danno; il modo con cui l'insegnante accetta o non accetta delle semplici scuse. Questo lavoro permette allo studente di rendersi conto i "quello che fa" nella propria lingua.
        Successivamente l'insegnante può dare la trascrizione di un analogo role-play fatto da studenti italofoni, per vedere se le strategie usate per giustificarsi sono simili o diverse, se o come l'insegnante accetta le scuse, se c'è un racconto di come si è potuto rompere il registratore, e nel caso, come sono strutturati, ecc. Ciò permette di vedere la relatività dei comportamenti linguistici.

L'osservazione e la riflessione su questi aspetti della lingua mette lo studente in una prospettiva dinamica: la lingua è vista non come un oggetto statico, soggetto sempre e comunque a regole fisse, ma come un sistema di regolarità negoziabili e di comportamenti possibili. E' avere introdotto questa prospettiva nell'insegnamento delle lingue il contributo, a mio parre più significativo dell'Ac alla pedagogia linguistica.

 Bibliografia
 

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- ¿Cuál es el secreto para un largo amor? : El diálogo entre las diferencias.

Mario Benedetti


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